mercoledì 14 dicembre 2016

Da tradurre: Copi


Copi



Copi, l’Ora dei Mostri





Quando, nel 1987, l’editore Jorge Herralde organizzò nel Palau de la Virreina di Barcellona un’ultima serata in onore di Raúl Damonte Botana (alias Copi, autore di fumetti e di teatro, di romanzi e di racconti, ma anche attore en travesti, costumista, regista), il festeggiato era morto da poco e la madre Georgina ne aveva già sparso le ceneri sulla spiaggia di Dieppe, dove le onde avevano esitato a lungo prima di portarsele via. E adesso, per una curiosa coincidenza, sono proprio le sale della Virreina a ospitare La hora de los monstruos, ossia la prima antologica mai dedicata a Copi, nato a Buenos Aires nel 1939, cresciuto in Uruguay dove la sua famiglia si era rifugiata per ragioni politiche, naturalizzato francese e vissuto a Parigi per quasi trent’anni: una mostra ideata e curata da un altro argentino “lontano da casa”, Patricio Pron, eccellente scrittore che da tempo vive a Madrid e che a Copi ha dedicato numerosi scritti e una ponderosa tesi di laurea.

 



Inaugurata il cinque novembre, in febbraio la mostra si trasferirà a Buenos Aires per poi approdare in Francia, e rappresenta senza dubbio un piccolo avvenimento sia per i lettori che hanno amato i fumetti apparsi su Le Nouvel Observateur, Harakiri, Charlie Hebdo, Libération, Linus, e raccolti in album pubblicati da editori diversi, sia per coloro che conoscono e apprezzano la vasta opera teatrale di Copi. Oltre alle prime vignette antiperoniste uscite su Tribuna Popular (il giornale fondato e diretto da suo padre, militante radicale), agli originali dei comics, alle foto inedite scattate dal fratello Jorge e a una bacheca piena di albi, volumi e riviste, La hora de los monstruos offre infatti, proiettati su un grande schermo, rari spezzoni di spettacoli in cui Copi monologa nelle vesti del suo alter ego Loretta Strong, dialoga con uno dei suoi tanti animali feticcio (un topone di stoffa), ed esce, in differenti costumi femminili, da un frigo dipinto di blu: un travestitismo, il suo, che non ha nulla della femminilità parodica, seducente e perfino sensuale cui ci aveva abituato Paolo Poli, ma che inventa piuttosto provocatorie, grottesche figure intersessuali.

E non mancano curiosità come i provini per lo spot dell’acqua Perrier, che Copi interpreta nelle vesti di una domestica dalle colossali sopracciglia, o i filmati delle interviste che ce lo rivelano come un uomo piccolo, esile, garbato, con quel tocco di spontanea eccentricità che gli veniva da una famiglia illustre e bizzarra, segnata dal genio imprenditoriale e megalomane del nonno Natalio Botana, fondatore del leggendario giornale Critica, e dalla pugnace stravaganza della nonna Salvadora, femminista e anarchica (fu lei a dargli il soprannome di Copi e a incoraggiarlo a vivere liberamente la propria sessualità).

Accompagnato in vita da un successo insolito per un’opera audace e spiazzante come la sua, Copi è stato poi quasi dimenticato, per venire infine riscoperto in Francia e in Spagna – non in Italia, purtroppo, dove quasi nulla di suo è reperibile in libreria –, come testimoniano le numerose riedizioni della sua strepitosa e inclassificabile narrativa (Anagrama l’ha raccolta in due preziosi volumi) e le molte messe in scena dei suoi copioni. E, dopo anni di silenzio distratto nei confronti di un autore che scriveva in francese e coltivava con il paese d’origine un rapporto contraddittorio e tempestoso, espresso in opere come Eva Perón e L’Internationale argentine, è stato finalmente scoperto anche in Argentina, grazie a un notevole lavoro critico cominciato da César Aira (colui che, secondo Pron, di Copi è il principale erede letterario), e continuato da studiosi diversi.

Ai testi che accompagnano la mostra si deve un intelligente commento del lavoro grafico di un artista accusato di “non saper disegnare” – mentre nelle sue strisce il minimalismo e “la mancanza di elaborazione e di stabilità”, sottolinea Pron, sono talmente funzionali alla narrazione da dimostrare il contrario – che aveva rinunciato a tutti i canoni tradizionali del fumetto, come la composizione grafica della vignetta, privata sia del riquadro e del balloon, sia degli sfondi e delle ambientazioni che collocano nello spazio e nel tempo i personaggi.

Al di là di eventuali “parentele” riscontrabili in una sorta di estetica della bruttezza e nello scarso rispetto per le convenzioni del comic, che lo avvicinano a Reiser e Wolinski (dei quali, però, l’argentino non possedeva le accentuate connotazioni politiche e satiriche), o in un segno esile ed essenziale che evoca Saul Steinberg, ma anche un James Thurber ben più eversivo, il fumetto di Copi resta personalissimo e, soprattutto, rivela l’interdipendenza tra i diversi mezzi di espressione usati da un artista totale: le sue strisce, come la sua prosa, hanno un ritmo e un andamento teatrale; i personaggi, i dialoghi, la lingua (quel francese reinventato da un argentino che afferma di aver dimenticato lo spagnolo, ma infila qua e là termini criollos e attinge ad altri idiomi, storpiandoli senza rimorsi), le situazioni, i temi, sono gli stessi nella narrativa, nei fumetti e sul palcoscenico.

Le donne sedute e gli animali parlanti, gli orribili bambini e le vecchie sordide, i serial killer in veste di uccello e di pretino lussurioso, le lumache saccenti, i polli cinici, le puttane annoiate e i lupi fornicatori che vanno a letto con nonne e nipoti (ma non con la madre, perché “non è nella storia”), i personaggi consapevoli della propria natura fittizia e pronti a discuterla con l’autore, o a chiamarsi al telefono da una pagina all’altra del giornale su cui sono stampati: tutto è parte di una poetica iconoclasta ed esilarante che deride e demolisce la quotidianità borghese, cancellando ruoli e identità, affermando con naturalezza l’esistenza di una fluida pansessualità e manovrando i congegni di un perfetto teatro dell’assurdo, tra dialoghi pieni di pause silenziose e gesti comicamente crudeli, la cui improvvisa, quasi infantile violenza non è affatto mascherata dalla delicatezza noncurante del segno.

Ha insomma ragione Damian Tabarovsky quando scrive che “l’opera di Copi funziona come una resistenza alla cultura normalizzata, al prestigio, all’opinione benpensante. Resistenza, quasi in senso psicoanalitico, come una barriera che si oppone alla repressione del mercato editoriale e all’accettazione sterilizzata della differenza, della diversità e della stranezza. Copi resiste alla cooptazione di quella forma di morte sublimata che è il prestigio. Ma anche, e soprattutto, funziona come forza d’urto contro un’altra tentazione, quella di canonizzarlo come martire dell’eccentricità, dell’anomalia, dell’underground; resiste all’idea stessa di trasformarsi in autore di culto (luogo comune del quale dobbiamo sospettare altrettanto o di più)”.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre del 2016

sabato 3 dicembre 2016

Anniversari e addii: Marcos Ana


Marcos Ana



La casa senza chiavi di Marcos Ana

Il 24 novembre il Partido Popular spagnolo ha seppellito Rita Barberá, per ventiquattro anni onnipotente sindaco di Valencia, che, implicata in una grave trama di corruzione e imputata di riciclaggio, è stata colpita da un infarto improvviso. E mentre Rajoy e tutto il PP lamentavano il “linciaggio” e la “condanna a morte” da parte delle “iene” (ossia i giudici, l’opposizione e i media), di una “donna generosa, una persona eccellente”, quasi nelle stesse ore se n’è andato in silenzio qualcuno che di Rita Barberá era l’opposto, che ha rappresentato con straordinaria dignità un’altra Spagna e che, in un mondo in cui la memoria è ormai smaterializzata, ridotta a pura convenzione celebrativa, continuava a incarnarla con un vigore capace di fonderla al presente e di restituirle senso. Se n’è andato a novantasei anni, il 24 novembre, Fernando Macarro Castillo, meglio noto come Marcos Ana, il nome con cui firmava i suoi versi: un militante comunista rimasto tenacemente tale, un poeta di valore, nonché il prigioniero politico rinchiuso più a lungo nelle carceri franchiste, dov’era entrato a diciannove anni per uscirne a quarantadue.

Figlio di poverissimi braccianti della zona di Salamanca, durante la guerra civile riuscì ad arruolarsi nell’esercito repubblicano, che lo rispedì a casa non appena scoperta la sua età (sedici anni), e poco dopo entrò nel Partito Comunista, diventando l’istruttore politico della Gioventù dell’Ejercito del Centro, almeno finché la Repubblica non venne sconfitta e gli italiani della Divisione Littorio lo fecero prigioniero. Accusato di omicidi che non aveva commesso, condannato a morte due volte e graziato perché minorenne, si ritrovò con sessant’anni di carcere da scontare, tra fame, torture e pestaggi. E fu in prigione che si trasformò in Marcos Ana, unendo il nome di suo padre, scomparso sotto le bombe, a quello della madre, morta subito dopo la seconda condanna del figlio. Con questo pseudonimo firmava i versi che aveva cominciato a scrivere di nascosto e che inviava all’esterno tramite i compagni rilasciati, che spesso li imparavano a memoria per non farsi trovare addosso quei pezzi di carta compromettenti.

In carcere, insieme ai compagni aveva creato una sorta di giornaletto clandestino, e con loro leggeva e discuteva libri quasi sempre proibiti (perfino il Don Chisciotte lo era), ottenuti fortunosamente. In quegli anni durissimi divenne, lui che a scuola c’era andato ben poco, un poeta amato da Alberti e da Neruda, che insieme ad Amnesty International si batterono per la sua liberazione, arrivata infine dopo ventitré anni. La libertà, però, Marcos dovette viverla in esilio fino alla morte di Franco, viaggiando da un paese all’altro, continuando a lavorare per il partito e a scrivere, aggiungendo ai suoi Poemas desde la carcel (pubblicati in Brasile nel 1960), altre raccolte di versi, e soprattutto uno splendido libro di memorie, Decidme cómo es un árbol. Memoria de la prisión y la vida (2007), di cui esiste anche una versione italiana a cura di Chiara de Luca (Crocetti 2009), e i cui diritti sono stati comprati da Almodovar, deciso a farne un film.

Si sa che, quando parlava della sua età, Marcos Ana usava ringiovanirsi, ma non per civetteria: sottraeva ai suoi anni quelli trascorsi in prigione. E giovane, tutto sommato, era davvero, come sanno i ragazzi spagnoli che l’hanno incontrato il quindici maggio 2011 alla Puerta del Sol, nei cortei, durante gli scioperi e le manifestazioni. È per quei ragazzi che Marcos ha scritto Vale la pena luchar, un piccolo libro del 2013 che non è un testamento, ma una trasmissione di esperienza e un atto di fiducia. Ed è soprattutto per loro che la porta della sua casa era sempre aperta: in prigione aveva scritto, tanti e tanti anni fa, che “se un giorno esco alla vita/la mia casa non avrà chiavi”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016

venerdì 2 dicembre 2016

Da leggere: Roque Larraquy


Roque Larraquy




Il bestiario spettrale di Roque Larraquy

È nel 1911 che Severo Solpe, fotografo della buona società di Buenos Aires, ritrae il fantasma di una scimmia fluttuante in una sala operatoria abbandonata: ma la foto è fasulla, scattata su richiesta di un senatore burlone, e l’animale, vivo e sedato, è semplicemente appeso al soffitto. Il trucco ha un tale successo, però, che Solpe lo ripete a grande richiesta, finché, per puro caso, incappa nell’autentico spettro di un’anatra che si aggira nel parco. Nasce così “la tecnica della fotografia ectoplasmatica o ectografia animale”, oggetto delle ricerche che Solpe porterà avanti per tutta la vita, fondando la Società Ectografica Argentina e collezionando le immagini di un bestiario spettrale senza precedenti né paragoni: collezione immaginaria, ovviamente, com’è immaginaria l’ectografia, spiegata con minuzia in Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires (Gallucci, traduzione di Ilide Carmignani ed Edoardo Balletta, pag. 86, e. 8,50) di Roque Larraquy, autore nel 2010 del sorprendente La comemadre, in cui sono già evidenti alcuni dei temi di questo suo secondo e frammentario quasi-romanzo.

A partire da un peculiare interesse per le pseudoscienze – intrise di pensiero magico e spesso vicine alle passioni esoteriche della destra estrema – che ancora fiorivano alle soglie del XX secolo, nei ventitré brevi capitoli di questo catalogo surreale, dalle sfumature comiche e inquietanti, Larraquy elabora un discorso sulla morte e sul corpo, manipolato e sezionato, violato o cancellato, ridotto a residuo di cui disfarsi o a insopprimibile traccia materica e immortale, e fa scivolare altre ombre, quelle che infestano l’Argentina e la sua storia, fra gli ectoplasmi dei pesci che nuotano nell’aria, dei cavalli che galoppano al rovescio (corpo inghiottito dal terreno, zampe all’aria), dell’anatra maligna che razzola nel ristorante dove è stata uccisa e cucinata.

L’esercito spettrale degli animali sacrificati, divorati, morti per caso, per necessità o per gioco, si fa dunque metafora o specchio, ci assedia in nome di presagi e di memorie. La marinaresca scimmia albina che nel dicembre del 1939 fugge da una nave all’ancora nel porto di Montevideo, per poi morire nel campanile di una chiesa, non verrà forse dall’incrociatore tedesco Graf Spee, rifugiatosi là dopo la battaglia del Rio de la Plata contro due navi inglesi? E l’occhio di una signora che, nel settembre del 1955, viene avvolto dall’ectoplasma di un uovo con dentro un feto di pollo, c’entra qualcosa con il colpo di stato in corso proprio allora contro Peròn? Quanto al fantasma del gatto Saki, insediato in cima a un albero nel 1953, come mai non vuole più muoversi di lì? Sa, magari, che in Plaza de Mayo scoppieranno due bombe durante una manifestazione sindacale?

Questa memoria trasversale, il cui luccichio ectoplasmatico è appena visibile anche a uno sguardo attento, acquista evidente sostanza negli ultimi capitoli del libro, dedicati alle pagine del diario di Solpe e alle assurde lettere da lui scritte al senatore Dubarry, per chiedergli riconoscimento e appoggio. Alle descrizioni di complessi sciami spettrali, agglomerati di ectoplasmi bellissimi ma aggressivi, che Solpe alterna a imbarazzanti confidenze coniugali, fa infatti da sfondo il golpe che nel 1930 depose il presidente Yrigoyen e diede inizio alla cosiddetta Década Infame, cupo decennio di crisi economiche e dittature militari. Ma a turbare l’ectografo non sono il destino del paese o le manifestazioni di piazza: è piuttosto il chiasso che sale dalla strada e infrange la quiete del suo laboratorio, dove agli animali in gabbia sono state recise le corde vocali, perché non si lamentino mentre muoiono di inedia (solo una morte dolorosa garantisce ectoplasmi perfetti). Incapaci di percepire la crudeltà e la violenza esterne, delle quali la Società Ectografica è una minuscola immagine speculare, i suoi adepti appaiono ridicolmente ciechi alla realtà del mondo, consacrati come sono a ricerche insensate, e Solpe, vera caricatura di se stesso, diventa il modesto presagio di un futuro in cui la rete farà da sconfinata cassa di risonanza a innumerevoli, illusorie, sempre più inquietanti pseudoscienze nuove di zecca.

Con un linguaggio asciutto e preciso, fintamente tecnico, che però trasuda robusto humour nero e allontana qualsiasi riferimento a ogni tipo di mitologia gotica, imparentandosi piuttosto con la più rarefatta science fiction, Larraquy costruisce figure così stilizzate e un testo così rigoroso e insieme bizzarramente poetico, da far pensare a un redivivo Juan Emar (leggendario scrittore cileno del quale ci si aspetta una prossima edizione italiana), e dimostra di possedere una voce di insolita riconoscibilità, usata con grande sicurezza. L’identica sicurezza che sembra esibire l’illustratore di queste paginette levigate e stranianti, ovvero Diego Ontivero, rifiutandosi di commentare visivamente il racconto, per spiazzare il lettore con immagini geometriche dai colori desaturati, realizzate al computer: forme piatte e misteriose che, tra allusioni al cubismo e al costruttivismo russo, danno un ultimo tocco prezioso all’elegantissimo volumetto.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016