giovedì 23 marzo 2017

Da leggere: Ricardo Emilio Piglia Renzi


Ricardo Emilio Piglia Renzi



Ricardo Emilio Piglia Renzi, lost in USA

“Esisteva una corrispondenza tra Sarmiento e Melville?” Mi guardò, direi, non interdetto ma indifferente. Lo so che quando parlo degli scrittori sudamericani che ammiro, gli scholars nordamericani mi ascoltano con educata distrazione, come se ogni volta cercassi di rifilargli una specie di versione patriottarda di Salgari o di libri tipo La capanna dello zio Tom. A proporre l’ipotesi di un legame tra il creatore di Moby Dick e Domingo Faustino Sarmiento, l’autore del Facundo, opera capitale della nascente letteratura argentina, è il visiting professor Emilio Renzi, mentre il distratto ascoltatore è Don D’Amato, illustre cattedratico e autore di un fondamentale saggio su Melville. E a tirare i fili della loro conversazione, così rivelatrice del rapporto tra le due Americhe, è Ricardo Piglia, scomparso due mesi fa a Buenos Aires dov’era tornato nel 2011, dopo i quindici anni trascorsi a Princeton in qualità di professore. Sia Renzi, sia D’Amato sono infatti personaggi di Solo per Ida Brown (Feltrinelli, pag. 234, e. 17, traduzione di Nicola Jacchia), quinto e ultimo romanzo dell’autore, che ci ha lasciato imprescindibili testi critici e soprattutto romanzi e racconti di rara densità estetica e concettuale, spesso sostenuti da una sofisticata struttura poliziesca.

A El camino de Ida (questo il titolo originale), che si svolge in un periodo di poco precedente all’attentato dell’11 settembre, Piglia ha cominciato a lavorare subito dopo il rientro in patria, come per tracciare un bilancio della sua lunga esperienza statunitense da un punto di vista allo stesso tempo “interno” ed “esterno”, quello di un residente stabile e privilegiato, ma anche di un estraneo che percepisce acutamente le contraddizioni della nazione ospite e ne valuta con lucidità la politica, e che nel disegnarne il complicato, pungente ritratto, evoca una folla di personaggi a volte minimi, ma sempre perfetti, impigliati in sottili scivolamenti da un genere a un altro (“l’unico modo per sottrarsi ai generi è quello di usarli tutti”, si legge in Por un relato futuro, magnifico volume di conversazioni letterarie tra Piglia e Juan José Saer).

L’autentica cifra di Solo per Ida Brown è però il dispiegarsi di una sfolgorante intertestualità senza ombra di pedanteria e dotata della leggerezza, di cui solo un maestro è capace, che amalgama idee, erudizione ed esercizio critico a una narrazione avvincente e convincente, generando un continuo dialogo tra lettori instancabili, ognuno dei quali rimanda ad autori e libri che si connettono all’infinito e tessono una rete in cui si inseriscono armoniosamente la detection, il quadro d’ambiente e l’elemento autobiografico, sempre presente nelle opere di Piglia, ma così accentuato, qui, da diventare un vero e proprio sottotesto. Nessun altro romanzo dello scrittore argentino, in effetti, ha attinto con tale abbondanza ai suoi Diari: 327 quaderni redatti a partire dal 1957 che Piglia ha deciso di pubblicare dopo il ritorno in patria, facendo luce sullo stretto rapporto tra la scrittura pubblica e quella privata, praticate parallelamente sin dall’adolescenza. E a complicare il gioco, sottolineando fino a che punto l’autore consideri inscindibili vita e letteratura, anche la stesura dei diari viene attribuita a Emilio Renzi, presenza costante nella narrativa di Piglia (il cui nome completo è Ricardo Emilio Piglia Renzi) e personaggio pronto a evolversi, mutare, invecchiare con l’autore.

Quello che incontriamo in Solo per Ida Brown è un Renzi cinquantenne, ammalato e sperso, che la giovane Ida Brown, specialista di Conrad e splendente “stella” accademica, ha chiamato a tenere un seminario su William Henry Hudson all’università di Taylor, trasparente doppio di Princeton, come Renzi lo è di Piglia, e come, in un certo senso, l’anglo-argentino Hudson – scrittore e naturalista cresciuto nella pampa, di cui per tutta la vita ebbe nostalgia – lo è di Renzi, sospeso anche lui tra due culture e due lingue. Il romanzo comincia dunque come un classico campus novel, esercitando una critica pacata ma inequivocabile delle università di élite nordamericane, ghetto sontuoso, comunità altamente regolate che fanno da base scientifica e tecnologica al modello economico e militare statunitense, mentre a chi si occupa di humanities viene concesso di produrre un pensiero radicale subito sterilizzato dalla rigorosa separatezza del claustro accademico, estraneo al contesto sociale e sospeso in uno spazio-tempo tutto suo. Un aspetto che a Renzi non sfugge e su cui si interroga anche Ida, audace e irridente, nonché pronta a coinvolgere il malinconico visiting professor in una relazione clandestina: uno dei tanti segreti della sua vita, presto interrotta da una morte improvvisa e violenta. Perché accade che nell’asetticità dei campus, “concepiti per escludere esperienza e passioni”, affiorino le “ondate di collera intestina che fremono sotto la superficie: la violenza terribile degli uomini educati”, di cui, forse, Ida è stata vittima, tanto da indurre l’FBI a indagare su un possibile collegamento tra il suo misterioso “incidente” e l’ignoto attentatore che nell’arco di un ventennio ha ucciso, per mezzo di lettere-bomba, diversi eminenti scienziati.

Così il campus novel vira verso il poliziesco, sia pure sfumato e anomalo, e introduce la presenza di due detectives di agghiacciante cortesia, che in Renzi ravvivano la memoria del controllo assoluto e delle intimidazioni sperimentati durante la dittatura, finché, con l’arresto del responsabile, il romanzo diventa thriller politico, aderendo a quella che Piglia, in Bersaglio notturno (Feltrinelli 2011), chiama fiction paranoica, una narrazione cospirativa che per sua natura può soltanto esplorare i dintorni della verità, senza mai raggiungerla e smentendola in continuazione. La peculiare corrente di violenza che scorre nei campus si è infatti incarnata in Theodor Munk, genio matematico che dalla sua capanna nei boschi ha intrapreso una solitaria carriera da terrorista; un Thoreau furibondo, il cui vademecum è L’agente segreto di Conrad, e che predica il ritorno a un’economia arcaica e precapitalista: un personaggio, insomma, ricalcato su Ted Kaczynski detto Unabomber, ex professore a Berkeley, che ha irresistibilmente attratto Piglia, sempre incline a far confluire nei suoi testi materiali eterogenei tratti dalla cronaca e dalla storia collettiva, tanto più quando rimandano a una figura di lettore la cui avidità sconfina nella follia.

Renzi non saprà mai se Ida è stata complice o vittima di Munk, nemmeno quando, guidato dalle annotazioni dell’amica sulle pagine di Conrad, riesce a stabilire un legame tra i due e a incontrare il terrorista in carcere, nel tentativo di dare un senso alla morte dell’amata. L’unica cosa che gli è chiara, alla fine, è che gli USA, intenti a sorvegliare le proprie frontiere, sono incapaci di fare i conti con la violenza interna, quella che davvero li minaccia. E, naturalmente, ottiene la conferma di qualcosa che già sapeva: nulla è più pericoloso di un lettore che, come Munk e Madame Bovary, decida di trasformare in realtà le pagine dei libri.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2017

sabato 18 marzo 2017

Da leggere: Mariana Enriquez


Mariana Enriquez




Mariana Enriquez, o del gotico contemporaneo

Mariana Enriquez, ragazza di provincia cresciuta tra Lanus e Mar del Plata, aveva ventun anni quando il manoscritto del suo primo romanzo finì per caso nelle mani Juan Forn, dell’Editorial Planeta, che nel 1994 decise di pubblicarlo, puntando sui contenuti “forti” di un testo in cui i bassifondi di Buenos Aires facevano da sfondo a furibonde scene di sesso e disperati amori omosessuali, tra fiumi di droga e sinistre allucinazioni. Se la critica rimase perplessa davanti a pagine che fanno pensare un po’ a Poppy Z. Brite e un po’ ai tenebrosi parafernalia ammucchiati nella cameretta di un’adolescente dark, il successo di pubblico non mancò, e l’attenzione dei media neppure: TV e giornali parlarono fin troppo della “più giovane scrittrice argentina”, considerata un “caso” piuttosto che una promessa della letteratura.

Chissà che i successivi dieci anni di silenzio dell’autrice non abbiano qualcosa a che fare con il disagio provocato da quella repentina sovraesposizione mediatica; ma può anche darsi che Mariana Enriquez abbia semplicemente deciso di prendersi il tempo necessario per vivere, sperimentare, lavorare (giornalista, è oggi co-responsabile del supplemento libri del quotidiano Pagina/12), insomma per crescere. E infatti il suo secondo libro, Cómo desaparecer completamente, uscito nel 2004, appare ben più meditato: un romanzo di formazione in cui un sedicenne cerca, tra abusi segreti e mostruose figure familiari, una via di uscita forse impossibile. Da allora Enriquez non si è più fermata, producendo un libro di racconti, un romanzo breve, un’eccellente biografia di Silvina Ocampo, una raccolta di crónicas e soprattutto i dodici cuentos di Las cosas que perdimos en el fuego (titolo mutuato da una canzone dei Low), che ne conferma la raggiunta maturità e che è in via di traduzione in una ventina di lingue.

Proprio quest’ultimo libro, tradotto da Fabio Cremonesi, arriva oggi ai lettori italiani (Le cose che abbiamo perso nel fuoco, Marsilio, pag. 208, e. 16,50), ai quali Caravan – piccola casa editrice sempre alla ricerca di nuovi autori per la sua ottima collana “Bagaglio a mano” – aveva già offerto nel 2014 l’occasione di conoscere Mariana Enriquez grazie ai tre racconti riuniti in Quando parlavamo con i morti, e che ha da poco pubblicato anche le sue affascinanti cronache di viaggio, in cui realtà urbane differenti vengono ritratte attraverso i rispettivi cimiteri (Qualcuno cammina sulla tua tomba, pag. 288, e. 13,50, traduzione di Alessio Casalini).

Accompagnato da critiche positive e spesso illustri, come quelle di Beatriz Sarlo o Edmundo Paz Soldán, Le cose che abbiamo perso nel fuoco ripropone le ossessioni che connotano Enriquez sin dall’esordio, confermando la sua abilità nell’usare personaggi e scenari orrorifici come pretesto per avvicinarsi in modo indiretto e metaforico a questioni come la disuguaglianza sociale, l’ultima dittatura, la crisi economica durante le presidenze di Alfonsìn e Menem, il conflitto tra i sessi. Ed è innegabile che a differenza dei primi romanzi, cupi e violenti ma sostanzialmente realistici, gli ultimi racconti (come pure quelli di Los peligros de fumar en la cama, uscito nel 2009 e appena riedito da Anagrama) siano interni a un gotico contemporaneo con minimi tocchi di paranormale, che riesce a passare dal “perturbante” più impalpabile (secondo Freud, “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, e per nulla estraneo alla migliore tradizione letteraria argentina) al gore più esplicito. Ma confinare Enriquez all’interno di un solo genere sarebbe riduttivo: in realtà l’autrice ne attraversa molti, dal noir al poliziesco, alludendo a materiali cinematografici, musicali e letterari di ogni tipo, da Lovecraft e Shirley Jackson alla gloriosa “serie B” analizzata da Stephen King in Danse macabre.

Allo stesso tempo, però, inquadra ogni storia in una quotidianità riconoscibile, fatta di quartieri decaduti, di villas miserias, di vagoni del metrò e aule scolastiche, di interni domestici e cittadine di provincia, di strade statali perse nel nulla; una geografia desolata in cui si muovono emarginati senza speranze, borghesia impoverita, immigrati, coppie infelici, famigliole malate e, primi fra tutti, bambini, adolescenti, donne. È il loro sguardo, la loro immagine, la loro voce che Enriquez ci restituisce: bambini perduti, ragazzine fragili, feroci e senza freni come capita di essere in un’età fluida ed esplosiva, pronta a tutto; giovanissimi lumpen affogati dai poliziotti per gioco e “perché sì”, che si trasformano in revenant; bambine inghiottite da una casa in cui un’ordinata esposizione di denti e unghie evoca certi quadri di Carol Rama… E poi le Donne Ardenti, pronte a tuffarsi in roghi autogestiti, “streghe” che bruciano se stesse in segno di disobbedienza estrema ed estrema protesta («Se continuano così, gli uomini dovranno abituarsi. La maggior parte delle donne diventeranno come me, se non muoiono. Sarebbe bello, no? Una bellezza nuova», dichiara in Tv una ragazza senza volto, che il marito ha cercato di bruciare viva).

Il corpo bruciato, distrutto dalla droga o dalla povertà, ridotto a poche ossa, sepolto o riaffiorante, pieno di sofferenza e desiderio, è uno dei temi su l’autrice indaga più a fondo, rappresentandone la presenza/assenza, la torturata manipolazione; corpi che alludono al fantasma di cui la generazione di Mariana Enriquez – bambina durante la dittatura e cresciuta all’ombra di sospetti, paure, segreti – non può liberarsi, ma anche a una violenza quotidianamente esercitata da un patriarcato pronto a nuove incarnazioni (nei racconti, quasi tutte le figure maschili sono il riflesso di una grigia misoginia), dal neoliberismo e dall’incertezza economica, dalla miseria assoluta o dal terrore di esserne inghiottiti.

Storie gotiche, dunque, ma ad alta densità politica, che reinventano gli stereotipi del genere fino a renderli trasparenti e a mostrare, dietro di essi, non tanto l’orrore, quanto “delle vite orribili”, come ha suggerito l’autrice in un’intervista, raccontate in una prosa diretta, limata, fatta di frasi brevi e precise, di tremenda efficacia e non prive di ironia, che procedono verso un finale quasi sempre aperto, volutamente irrisolto e inspiegato, così da aumentare abilmente il disagio di chi legge. Storie scomode e irresistibili, storie argentine, ma anche, com’è ovvio, storie di tutti.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2017

giovedì 2 marzo 2017

Da leggere: Max Aub


Max Aub


Max Aub, nel labirinto dell’esilio 

Nelle prime pagine dell’antologia Gennaio senza nome (Nutrimenti, pag. 191, e. 17), in cui Eugenio Maggi ha raccolto, tradotto e annotato otto racconti di Max Aub finora inediti in Italia, c’è una foto che mostra l’autore (un omino poco più che quarantenne con basco e occhiali, malridotto ma dall’aria per nulla rassegnata) nel campo di detenzione di Djelfa, in Algeria, dove il governo francese l’aveva rinchiuso in quanto “pericoloso comunista”. In realtà Aub, nato in Francia nel 1903 da padre tedesco e madre parigina, era iscritto da anni al PSOE, ma la cosa aveva scarsa importanza, visto che a renderlo “indesiderabile” contribuivano il suo essere ebreo (benché nato in una famiglia di liberi pensatori e privo di qualsiasi educazione religiosa), la cittadinanza spagnola presa in gioventù e il sostegno alla Republica, che l’aveva nominato addetto culturale a Parigi.

Se, nonostante tutto, lo scrittore poté uscire vivo da Djelfa, dove molti suoi compagni finirono nelle fosse comuni, fu grazie all’ambasciatore messicano Gilberto Bosques, protettore dei rifugiati spagnoli in Francia, che nel 1942 lo aiutò a imbarcarsi su un piroscafo carico di fuggiaschi respinti dall’Europa, ma accolti a migliaia dal Messico. E in Messico, trent’anni dopo, Aub sarebbe morto, dopo aver cambiato per varie volte cittadinanza: non più francese, non esattamente spagnolo e mai interamente messicano, insomma qualcuno “sempre a metà”, un eterno transfuga che, tuttavia, aveva scelto di identificarsi fino in fondo con la Spagna repubblicana, tanto che l’amico Francisco Ayala, ricorda Maggi nell’introduzione, lo definiva “il più esiliato di tutti gli spagnoli”. Esiliato in molti sensi, va detto, perché Aub parlava di sé come di un autore senza pubblico, censurato in Spagna e ignorato dagli editori messicani (un’amarezza non ingiustificata, visto che solo in anni recenti le sue opere sono diventate oggetto di interesse non solo per gli studiosi, ma anche per una agguerrita minoranza di lettori).

Quando, all’inizio della prima guerra mondiale, gli Aub si erano trasferiti a Valencia, lasciando una Francia che li considerava ormai nemici, in quanto boches e sales juifs, il giovanissimo Max aveva deciso di votarsi a un’altra patria e a un’altra lingua, diventando non solo spagnolo, ma “uno scrittore spagnolo”; un secondo esilio l’avrebbe poi reso testimone esemplare della guerra civile e dello sradicamento, temi fondanti di un’opera vastissima che include racconti e romanzi, saggi, soggetti cinematografici (incluso quello per Los Olvidados di Buñuel), opere teatrali, innumerevoli articoli per giornali e riviste, i versi del Diario de Djelfa e un’ampia produzione diaristica.

Quella di Aub non è, tuttavia, una testimonianza che si cristallizza intorno al ricordo del passato o alla speranza di un futuro impossibile, e meno che mai una sorta di “professione”, secondo il giudizio sprezzante di Andrés Trapiello nel discusso saggio Las armas y las letras; la vediamo evolversi, invece, in lucida riflessione critica e prendere forme inaspettate, come dimostra la ridotta ma ottima scelta di testi curata da Maggi, che disegna in modo attendibile la traiettoria dello scrittore, dalla difesa militante della memoria (il primo racconto, Gennaio senza nome, rimanda ai sei romanzi del grandioso ciclo El laberinto magico, intricata epopea collettiva con centinaia di personaggi sia realmente esistiti che fittizi, e ancora adesso una delle più efficaci rappresentazioni della guerra civile), sino al crescente pessimismo e al senso di fallimento rispecchiati in Colpo di Grazia, storia un esule rientrato in patria e annientato dal “memoricidio” che ha cancellato ogni traccia etica ed estetica della Repubblica. Gli otto racconti, inoltre, danno conto della poetica e della scrittura di un autore sorprendente e a volte geniale, capace di rinnovarsi in modo imprevedibile, che non esita a movimentare con audaci soluzioni formali il rigido realismo richiesto dalla letteratura testimoniale.

In Gennaio senza nome, per esempio, il narratore è un albero, un faggio centenario che assiste con placida oggettività “vegetale” al passaggio del fiume di profughi diretti verso la frontiera, ed evoca immagini degne di Los desastres de la guerra di Goya in una prosa frammentaria, spezzata, a tratti lirica e sempre sostenuta da un lessico contadino, quasi arcaico. E la scelta di una voce narrante tanto inconsueta sembra anticipare un lungo racconto non incluso nella raccolta, Manuscrito cuervo, trattato scientifico-antropologico sulla natura umana compilato dal corvo Jacobo, sulla base di un attento studio del campo di Djelfa e dei suoi abitanti: un eccezionale esempio di umorismo nero, che però non attenua la tragedia della prigionia.

In realtà, anche se la guerra civile gli suggerisce una scrittura più trasparente, più vicina alla “intuizione serena, profonda e totale della realtà” di Pérez Galdós, del quale si nota l’influsso nei romanzi di El labirinto magico, Aub non consuma mai del tutto il distacco dall’adesione giovanile all’avanguardia, il cui primo frutto era stato, nel 1934, Vida y obra de Luis Álvarez Petreña, biografia di un inesistente scrittore morto suicida, corredata dai suoi altrettanto inesistenti inediti e da puntuali paratesti.

Man mano che gli anni passano e cresce la disillusione circa le sorti della Spagna e il senso dell’esilio, inoltre, sembra che la testimonianza (sia pure segnata dalla esuberanza creativa dello scrittore) non sia più sufficiente a raccontare per intero “la vera realtà”, e si affaccia la tentazione di sperimentare, di ritrovare una dimensione ludica che, tuttavia, non esclude l’impegno e i temi di sempre. Cresce la passione di Aub per i falsi e gli apocrifi costruiti con cura maniacale (dettagli tipografici, copertine, materiali iconografici: niente viene lasciato al caso), il cui frutto migliore è Jusep Torres Campalan, monografia del 1958 su un immaginario pittore cubista catalano che nel 1914 rinuncia a tutto, lascia l’Europa e si rifugia nel Chiapas. Di lui si illustrano la vita e l’arte, con tanto di critiche autorevoli, di fotografie che lo ritraggono con Picasso e di riproduzioni delle opere: una efficace parodia dell’arte moderna e della critica, una parabola sull’esilio e una burla straordinariamente ben riuscita (Aub organizza perfino due mostre del pittore, e rivela l’inganno solo quando appare l’edizione francese del libro). E burla feroce è anche Crimini esemplari (tra i pochi testi di Aub tradotti in italiano, e tutt’ora in catalogo presso Sellerio), raccolta delle brevissime confessioni di surreali omicidi, che anticipano la voga del microrrelato, si avvicinano all’aforisma e denunciano con crudele ironia l’assurdità della violenza e della morte.

Accanto ai falsi più spudorati e convincenti, però, ci sono le ucronìe, delle quali l’antologia curata da Maggi ci fornisce due piccoli ma deliziosi esempi: nelle paginette che chiudono il volume, Franco viene deposto da un celebre e autentico matador, El Cordobés, che restaura la Repubblica e forma un governo composto da calciatori; ma già nel 1960, in un lungo racconto intitolata La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco (è del 2011 la raffinatissima edizione in italiano di L’Obliquo), si parlava dell’eliminazione del dittatore per mano di Nacho, cameriere messicano pronto a investire i suoi risparmi in un viaggio a Madrid e a portare a termine un ingegnoso attentato, nella speranza che, scomparso Franco, i vocianti e molesti fuorusciti spagnoli se ne torneranno a casa. E gli esuli, in effetti, tornano in patria, ma solo per essere subito sostituiti dagli ancor più fastidiosi rifugiati dell’opposta parte politica.

A questo punto, forse, Max Aub, era arrivato alla conclusione che, se non si può cambiare la Storia e se l’esercizio della lealtà e della coerenza rischia di risultare sterile (anche se è impossibile non praticarlo, proprio com’è impossibile rassegnarsi, tradire, dimenticare), tanto vale reinventarla a partire dal desiderio e da tutto ciò che non è stato, ma anche dalla nostalgia di un futuro impossibile, resuscitando vecchi amici, rovesciando governi, sopprimendo nemici che non si decidono a morire. Nessuna notizia falsa, nessun autentico inganno: soltanto un gioco spesso esilarante ma serissimo, che una letteratura intesa come “messa in scena” può realizzare per un attimo.

 

 

Una versione breve di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel mese di febbraio 2017