sabato 28 ottobre 2017

Da leggere: Valeria Luiselli

Valeria Luiselli


Bambini perduti

Le sorelline hanno cinque e sette anni, vengono dal Guatemala e hanno viaggiato fino alla frontiera con un coyote, un uomo pagato dalla loro madre, emigrata da anni a Long Island; una volta varcato il confine tra Messico e USA sono state arrestate e chiuse in un freddissimo “deposito di bambini” chiamato non a caso “la ghiacciaia”, e poi la madre è andata prenderle, avvertita grazie al numero di telefono ricamato dalla nonna all’interno dei vestiti, in un punto nascosto. Potrebbe essere il lieto fine di una fiaba: il viaggio, le dure prove, un talismano segreto e la presenza di un “aiutante magico”, se così si può definire il coyote che le ha scortate e che, dice la più grande, “Era gentile, certo”. In realtà la storia è appena cominciata, perché adesso le due sorelle non sono più bambine, ma minori non accompagnate, immigrate clandestine e senza documenti: per questo stanno raccontando la loro vita, come possono e sanno, a una giovane donna che prende appunti e cerca di trasformare le loro voci incerte e perplesse in risposte alle domande del formulario che ha davanti.

Quella giovane donna è Valeria Luiselli, la più nota e apprezzata tra le scrittrici messicane nate negli anni ’80, autrice di un libro di cronache e di due romanzi (Volti nella folla e Storia dei miei denti), che dal 2011 vive e lavora a New York e per un anno è stata interprete volontaria per la Icare Coalition – che fornisce assistenza legale gratuita ai minori “clandestini” – durante la cosiddetta crisi migratoria che tra il 2014 e il 2015 ha visto arrivare negli Usa oltre centomila bambini e ragazzi centroamericani, spesso chiamati da genitori e parenti emigrati da tempo, oppure spontaneamente in fuga da abusi, miseria e abbandono, e soprattutto dalle bande che vogliono reclutarli a forza come “carne da cannone” per il narcotraffico.

Da questa esperienza è nato Dimmi come va finire. Un libro in quaranta domande (pag. 94, e. 13, pubblicato da La Nuova Frontiera, che ha già proposto in Italia gli altri libri dell’autrice), saggio e racconto in cui cifre, dati, riflessioni, cenni autobiografici, storie, danno vita a un testo privo di sensazionalismo, asciutto e mai sentimentale, composto da frammenti accostati con la cura formale del romanziere sperimentato, ma soprattutto animati da una lucidità e una rabbia pronte a “trasformarsi in capitale politico”. Scritto direttamente in inglese e subito pubblicato negli Stati Uniti, con un titolo ispirato alla domanda costante della figlia di Valeria Luiselli (Come va a finire la storia di quei bambini?), il libro è poi apparso in spagnolo, in una versione leggermente accresciuta e con un altro titolo, I bambini perduti, che sembra rimandare al romanzo di J. M. Barrie, con i suoi bebè caduti dalla carrozzina e raccolti da un provvidenziale Peter Pan.

Luiselli ci parla, invece, dei bambini che durante il viaggio non sono caduti dalla Bestia (così i migranti chiamano i treni merci sui quali si arrampicano per raggiungere la frontiera), non sono stati rapiti, non sono spariti senza lasciare tracce, ma sono arrivati a destinazione solo per diventare dei removable aliens: una massa indistinta che l’amministrazione Obama ha affrontato con cinismo degno di una Trumplandia ancora di là da venire, tramite il Priority Juvenile Docket (provvedimento per rendere rapidissimo il processo di espulsione) e l’accordo con il presidente messicano Peña Nieto, che ha varato, grazie anche a un finanziamento nordamericano, il Programa Frontera Sur contro l’immigrazione centroamericana, aggiungendo la brutalità istituzionale a quella dei trafficanti e delle bande che rendono infernale, per i migranti, l’attraversamento del Messico.

La struttura attorno alla quale si articola il libro è fornita dalle quaranta domande del questionario messo a punto dalla Icare Coalition per vagliare le possibilità di una difesa efficace contro l’espulsione, e proprio per questo Dimmi come va a finire finisce per assomigliare, che il lettore se ne renda conto o no, a un superbo lavoro di traduzione: le storie raccontate dai bambini e dai ragazzi, spesso in modo confuso o laconico per ragioni di età, di diffidenza e della difficoltà di collegare le domande alle proprie esperienze, non vanno solo trasferite da una lingua a un’altra, ma anche decifrate e ricomposte con pazienza ed empatia. La “traduzione” più interessante, però, è quella che propone di sostituire parole come immigrati, clandestini, illegali, con altre più pertinenti: nessun essere umano è illegale e nessun bambino è un immigrato, ma piuttosto un rifugiato, un profugo in cerca di scampo da situazioni le cui cause e i cui effetti hanno radici nel continente intero, inclusi gli Stati Uniti, dei quali tutti conosciamo il ruolo nelle vicende dell’America latina.

Testo politico e quietamente furibondo, saggio di rara intensità letteraria che va oltre la pura testimonianza o la cronaca, e che conferma la duttilità e l’originalità di una voce sempre riconoscibile – com’è quella di Luiselli, scrittrice errante e bilingue impegnata in un affascinante work in progress – Dimmi come va a finire suscita echi scomodi e familiari anche nei lettori europei e soprattutto italiani, non offre risposte ma fa presente che sarebbe ora, forse, di porci nuove domande, prima di essere sommersi da una marea crescente: non quella dei migranti, ma una ben più cupa e pericolosa.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017

venerdì 20 ottobre 2017

Da leggere: Emiliano Monge

Emiliano Monge


Terra bruciata, un viaggio all’inferno 

Una radura circondata da tronchi colossali con radici come arterie, su cui planano i suoni emessi dalla selva nella sua ora più buia, e, al centro dello spiazzo, un gruppo di fuggiaschi che tra un attimo smetteranno di essere persone per diventare merce in vendita: mano d’opera gratuita, sicari arruolati nelle guerre dei narcos, schiave dei bordelli, carburante per un motore che non si ferma mai, alimentato dalla speranza di quelli che tentano di fuggire dalle guerre, dalla miseria estrema, dalla terra bruciata che li circonda e li assedia.

Ed è proprio Terra bruciata (La Nuova Frontiera, pag. 317, e. 19,50) il titolo del romanzo con cui il messicano Emiliano Monge ci proietta di colpo, con un incipit quasi rovente, nella foresta messicana attraversata dai migranti clandestini centroamericani (arrivano dall’Honduras, dal Guatemala, da El Salvador, dal Nicaragua) per raggiungere la frontiera con gli USA, e che a migliaia vengono traditi da chi li guida, consegnati ai trafficanti e poi “spezzati” con stupri e torture, per garantirne la futura docilità. Una tragedia nota che, tuttavia, il Messico si rifiuta di guardare, di vedere, limitandosi ad affrontare il problema con deportazioni e centri di detenzione che non hanno nulla da invidiare a quelli libici, altrettanto “invisibili” agli occhi dell’Europa.

Il silenzio e l’indifferenza, tuttavia, non sono impenetrabili né assoluti, come dimostrano le ottime inchieste di giornalisti coraggiosi. Ma in un paese come il Messico, che raramente può e vuole eludere il peso di una violenza costante e pervasiva (arrivando perfino a banalizzarla, come nel caso della ormai scontata narcoliteratura), anche la narrativa ha affrontato le storie dei migranti centroamericani, con alcuni testi diversissimi tra loro per struttura e stile; e il più recente è appunto quello di Emiliano Monge, che, vicino ai quarant’anni e dopo due romanzi e due raccolte di racconti, si dimostra, con un libro “destinato a restare” (così scrive sulla rivista Letras Libres l’abitualmente severo Christopher Domínguez Michael), un attendibile erede della grande letteratura messicana e latinoamericana.

Quello che ci consegna, dopo anni di ricerche e la consultazione di innumerevoli fonti, non è, come forse ci si potrebbe aspettare, un racconto di taglio testimoniale e rigidamente realistico, ma un ambizioso e complesso esercizio narrativo con forti echi allegorici e metaletterari (Dante, il mito, la tragedia elisabettiana) e percettibili, illustri influenze (Sada e Rulfo, Gardea e Revueltas), articolato attorno a una vicenda che si svolge in settantadue ore colme di una violenza quasi insostenibile. La voce narrante, che osserva ogni cosa, sembra offrirsi come mediazione tra chi legge e il punto di vista di coloro che “vengono scritti”, in primo luogo i trafficanti, protagonisti assoluti della storia: Epitaffio e Stele, cresciuti nell’orfanotrofio di Padre Loculo, che accoglie i bambini rapiti ai migranti, li marchia e li alleva per farne membri efficienti dell’organizzazione. E poi Funerale, Mausoleo, Ossaria, Cimitera, membri della banda, e i vecchi fratelli che da sfasciacarrozze sono diventati “sfasciacadaveri”, e i due ragazzi della selva, guide infedeli e indifferenti, e i militari complici e corrotti.

Ognuno dei trafficanti si nasconde dietro soprannomi cimiteriali che rimandano alla tradizionale cultura messicana della morte, ma segnalano anche la loro natura di traghettatori infernali, spassionatamente crudeli, che attraversano la foresta-Stige, le montagne, il deserto, con un carico di anime morte chiuse in enormi furgoni e private di tutto, della patria, del passato, del nome. Una massa indistinta e innominata di corpi ridotti a macchine da lavoro, ingranaggi e pezzi di ricambio, ma non privi di voce, o meglio di tante piccole voci (sparse in corsivo per tutto il testo, sono le testimonianze dei migranti sopravvissuti, raccolte dalle organizzazioni umanitarie che cercano di soccorrerli), una sorta di coro greco cui risponde, a volte, il rapidissimo contrappunto di uno o due versi tratti dalla Divina Commedia. Un dialogo che potrebbe apparire artificioso e forzato, e che invece risulta credibile e quasi inevitabile, nell’Inferno in cui tutti si muovono, con gesti resi sempre uguali dalla coazione a ripetere dei dannati.

A nessuno di loro è stato consentito di vivere un altro destino, la violenza li ha modellati per procacciare materie prime (mani, muscoli, schiene, organi genitali, carne da usare) e muoversi con efficienza secondo un rituale prestabilito nel quale, però, si aprono continue falle: il tradimento, la vendetta, l’imprevisto. E la falla più grande è la storia d’amore tragicamente qualunque (e proprio per questo surreale) che è l’ossatura del romanzo: quella di Epitaffio e Stele, separati di continuo dai viaggi per le “consegne” e di continuo torturati dal cellulare che, tra foreste e montagne, non riesce a metterli in comunicazione, crea equivoci, suscita disperazioni. Due mostri amanti, di bruttezza e ferocia assoluta, ma che si amano da sempre e alla follia, non possono parlarsi e corrono verso un finale shakespeariano, per diventare vittime che è impossibile compatire.

Intorno a loro e alla demoniaca corte che li circonda, l’autore tesse la rete di un linguaggio e uno stile ammirevoli, inventandosi un’oralità che, come quella rulfiana, non esiste (è Monge stesso a farlo notare) e risulta in realtà estremamente letteraria, pronta a sovvertire l’ordine consueto della frase, a ribattezzare più volte i personaggi in funzione delle loro trasformazioni e stati d’animo, e ad azzardare toni lirici ed epici che suscitano immagini sfolgoranti e sinistre.

Inevitabilmente, e nonostante l’eccellente lavoro della traduttrice Natalia Cancellieri, nella versione italiana qualcosa si perde, ritmo e suono si alterano o si affievoliscono, come di solito accade quando si trasferisce in un’altra lingua una scrittura così densa e originale. Ma poco importa, perché questa danza macabra, così simile a tante altre in corso attorno a noi, conserva in ogni modo una forza evocativa capace di reinventare la realtà, per mostrarcela meglio.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017

Anniversari e addii: Maria Elena Walsh

Maria Elena Walsh


Cinque anni senza “la Walsh”

Nella primavera del 1973, conclusa l’ennesima dittatura, l’Argentina era di nuovo alla vigilia delle elezioni, e il settimanale Extra (abbastanza conservatore da fiancheggiare, in seguito, la Giunta militare) chiese a Maria Elena Walsh un articolo rivolto alle donne incerte su chi e che cosa votare. Lei accettò, ma quello che consegnò a Bernardo Neustadt, discusso direttore della rivista, era un testo intitolato Lettera a una compatriota, in cui non si davano indicazioni di voto e si parlava invece del Movimento di Liberazione della Donna: un appello limpido e duro alla “sorellanza” e alla rivolta che, nell’Argentina dell’epoca, faceva pensare allo scoppio di un petardo in camera da letto o in cucina, luoghi consacrati alla femminilità così come la intendevano l’opinione comune, la Chiesa, i governi deposti o creati da regolari colpi di Stato.

Buone le donne con elemosine e contentini (“ma noi, come i neri, i colonizzati, la classe lavoratrice, man mano che prendiamo coscienza non vogliamo saperne di elemosine; vogliamo quello che ci appartiene di diritto e che giorno per giorno ci viene strappato, cioè TUTTO”), Maria Elena Walsh aveva allora quarantatré anni ed era una celebrità nazionale nel campo della letteratura e soprattutto della musica per l’infanzia. Le sue canzoni, dai testi per nulla scontati o concilianti, formavano l’ossatura di spettacoli in cui lei rivestiva il ruolo di juglar ossia di menestrello –, e scivolavano poi in altri formati, grazie all’uso oculato di una vera “catena multimediale”: dischi, televisione, libri che si aggiungevano alle storie che “la Walsh” aveva cominciato a pubblicare già nel 1960 con enorme successo.

Dietro la fama di autrice per bambini c’erano, che il suo pubblico lo sapesse o no, una personalità polemica e complessa, un graffiante senso dell’umorismo e il desiderio di affrontare esperienze sempre nuove sin da quando, a diciassette anni, aveva vinto un premio importante con il suo primo libro di versi, Otoño imperdonable, capace di attirare l’attenzione della società letteraria argentina (Victoria Ocampo la volle come collaboratrice della rivista Sur), ma anche quella di Juan Ramón Jiménez, futuro premio Nobel per la letteratura. Esule negli Stati Uniti, il poeta spagnolo le offrì una sorta di borsa di studio e sei mesi di ospitalità: un rapporto difficile, quello tra l’allieva e il mentore, dal quale, tuttavia, la ragazzina imparò moltissimo; la severità di Jiménez la aiutò forse a capire che, pur senza rinunciare alla poesia (negli anni avrebbe scritto altri libri di versi, dignitosi ma non indimenticabili), poteva tentare altre avventure.

Nel 1951, infatti, Maria Elena lasciò di nuovo Buenos Aires (dov’era nata da una famiglia di origine inglese), “rapita” da Leda Valladares, musicologa e folklorista che la portò con sé a Parigi, lontano dal detestato peronismo (col quale Walsh, però, si riconciliò anni più tardi), per formare un duo fortunatissimo, che cantava canzoni andine davanti a platee in cui sedevano Miró, Picasso o Prévert. Anni di liberà assoluta, i primi dischi, e la possibilità di vivere, con Leda, un amore che laggiù sembrava non scandalizzare nessuno.

Dopo un ritorno in patria che finì per dividerla da Valladares, Maria Elena si reincarnò in una solista di straordinaria notorietà, e trovò una nuova compagna nella regista María Herminia Avellaneda, che la diresse in Tv, in un paio di film e soprattutto in teatro, dove Walsh cominciò a stupire anche il pubblico degli adulti con recital sofisticati come Juguemos en el mundo. La nuova Maria Elena, che componeva ed eseguiva canzoni pop aperte a influssi diversi, non sapeva ancora che alcune di esse sarebbero diventate inni della protesta per una sinistra alla quale, in realtà, lei non apparteneva, e che sarebbero entrate nel repertorio di artisti come Mercedes Sosa e Joan Manuel Serrat.

Finché, nel 1978, annunciò (e mantenne la parola) che avrebbe smesso di comporre e di cantare: accerchiata e soffocata dai veti della Giunta militare, doveva anche lottare contro una grave malattia le cui conseguenze la tormentarono per il resto della vita. Non avrebbe smesso di scrivere, però, né rinunciato a pubblicare, in piena dittatura, invettive contro i censori e testi esilaranti come quello in cui elenca i ventiquattro perché di un solido machismo. L’umorismo e il sarcasmo erano, del resto, la sua arma abituale, la più affilata, quella che maneggiava con più abilità.

La Maria Elena pacifista, femminista a oltranza, borghese ribelle e politicamente scorretta, aveva trovato nel 1980 il suo gran amor, la fotografa Sara Facio. Del suo orientamento sessuale, noto a tutti, nessuno aveva mai parlato pubblicamente, lei compresa, che non si era mai finta eterosessuale, ma che, fece notare in una delle sue ultime interviste, non vedeva motivo per raccontare i fatti propri. Nel 2008, però, si decise infine a “uscire dall’armadio” dichiarando il suo trentennale amore per Sara in Fantasmas en el parque, secondo e ultimo libro scritto per gli adulti – nel primo, Novios de antaño, aveva rievocato gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza –, che è insieme un romanzo e un’autobiografia, in cui sogni, ricordi di viaggi e di incontri, confessioni e soprattutto ombre amate o detestate, si accumulano e si fondono, proprio come le contraddizioni, le asprezze e le risate di Maria Elena, che è morta cinque anni fa lasciandoci questa singolare “macchina del tempo” in cui, scrive il suo amico Leopoldo Brizuela, non appaiono una sola volta le parole gay, lesbica, omosessuale, eppure si realizza “una costante riflessione su come ricordare in letteratura ciò che a suo tempo si sperimentò in segreto”. Un addio degno di quella che è stata e resta una delle figure più popolari e più amate della cultura argentina.

 

 Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017