giovedì 9 novembre 2017

Da leggere: Alfonsina Storni



Alfonsina Storni


Una donna nuova

Nel dicembre del 1983, in un’Argentina appena uscita dalla dittatura apparve Alfonsina, una rivista quindicinale fondata da Maria Moreno: pagine che rivelavano l’influenza del più audace femminismo europeo e miravano a ridefinire i ruoli di genere, ma anche ad affrontare i più spinosi temi del presente, contando tra l’altro sull’insolita collaborazione di alcuni scrittori disposti a nascondersi dietro pseudonimi femminili, come Rosa L. de Grossman (Néstor Perlongher), María de la Cruz Estévez (Fogwill) o Rosa Montana (Martín Caparrós). Ci fu chi considerò il nome della rivista un omaggio al presidente eletto dopo il ritorno alla democrazia, Raúl Alfonsín, ma in realtà l’intenzione era quella di evocare una grande figura della mitologia nazionale, seconda soltanto ad Evita: Alfonsina Storni, poetessa, giornalista, drammaturga, insegnante, nata nel Canton Ticino nel 1892, arrivata in Argentina a tre anni e morta suicida nel 1938.

La scelta di quel nome da parte di una rivista così sofisticata confermava la rivalutazione critica di un’autrice amatissima, a lungo confinata in un territorio letterario ambiguo, e sembrava anticipare gli studi e le interpretazioni di quanti, a partire dagli anni ’90, hanno cercato di diradare le nebbie del mito tragico cresciuto attorno alla biografia di Alfonsina, che si era sovrapposto, fino a sostituirla, all’analisi di un’opera composta da otto volumi di versi, commedie e brillanti “farse pirotecniche”, e una notevolissima quantità di articoli, reportages e cronache apparsi su quotidiani e riviste. Una parte di questa produzione giornalistica a lungo dimenticata ci viene ora proposta in Cronache da Buenos Aires (Casagrande, pag. 152, e. 18.00, traduzione di Marco Stracquadaini), un’antologia curata dalla studiosa svizzera Hildegard Elisabeth Keller, che ha scelto trenta testi pubblicati fra il 1919 e il 1921 sul settimanale La Nota e il quotidiano La Nación, corredandoli di un’ampia prefazione: un primo assaggio della prosa di un’autrice tradotta in italiano solo sporadicamente, nonostante sia tra i classici della poesia latinoamericana al femminile, accanto a Gabriela Mistral e all’uruguayana Juana de Ibarbourou.

Rappresentata fin troppo spesso come un’eroina da melodramma, Alfonsina fu in realtà una “donna nuova”, in largo anticipo sui tempi: cresciuta tra Rosario e piccoli paesi della provincia argentina, a vent’anni si trasferì da sola a Buenos Aires, senza un soldo e incinta di un uomo sposato, riuscendo a cavarsela con lavoretti di ogni genere, finché, dopo la pubblicazione del primo libro di versi nel 1916, arrivarono gli incarichi di insegnante e le collaborazioni con i giornali. Tra mille problemi economici (rimase povera per tutta la vita) e continui traslochi, fu l’unica donna a frequentare le riunioni degli scrittori e critici raccolti intorno alla rivista Nosotros e al gruppo Anaconda di cui facevano parte Leopoldo Lugones e Horacio Quiroga, suo grande amico e forse amante, e riuscì a conquistarsi quasi a forza uno spazio tutto suo, grazie a versi che parlano del desiderio femminile, del diritto di usare il proprio corpo liberamente, della doppia morale che pretende dalle donne una virtù immacolata, mentre concede all’uomo ogni trasgressione.

Considerata “peccaminosa” da alcuni, recensita con benevolenza condiscendente da altri, disprezzata dai redattori della rivista Martín Fierro (Borges la chiamava comadrita e trovava abominevoli le sue poesie), per gli intellettuali dell’epoca era una modesta poetisa – termine vagamente dispregiativo, rispetto al più nobile poeta –, di scarsa cultura e imbevuta di retorica tardo-romantica, “pacchiana perché non sa scrivere in altro modo”, nota Beatriz Sarlo nel suo saggio Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 (Quodlibet 2005), in disaccordo con una parte della critica attuale, che vede in Alfonsina la singolare capacità di dare valore poetico alle espressioni correnti e al linguaggio “basso”, oltre a una discreta abilità nella costruzione metrica. Ed è sempre la Sarlo a osservare che, grazie alla forma facile e accessibile della sua poesia, Storni riuscì a proporre con le prime sei raccolte (nelle ultime approfondì una esigente ricerca formale, allontanandosi dai suoi consueti lettori), contenuti del tutto nuovi e in qualche modo rivoluzionari a un vastissimo pubblico, diverso da quello dei circoli intellettuali, riscuotendo un immenso successo e diventando una figura estremamente popolare.

Socialista e sostenitrice del suffragio femminile, si rifiutava di essere zittita e, parlando di sé, parlava per tutte le donne, rimproverandole e spronandole allo stesso tempo: un atteggiamento evidente soprattutto nelle cronache, brevi saggi di giornalismo narrativo che sembrano anticipare le Aguafuertes scritte nel decennio successivo da Roberto Arlt (un altro outsider letterario), che come lei raccontava e in un certo senso incarnava la modernità urbana; tutti e due, mescolando realtà e finzione, ironia e invettiva, ritrassero abilmente la vita di Buenos Aires, metropoli dove un nuovo benessere e lo sviluppo dell’industria editoriale garantivano letture a buon mercato alle classi popolari, favorendo la nascita dello scrittore di professione, che si guadagnava la vita con la penna e, all’occorrenza, scriveva su commissione, adattandosi a spazi prefissati.

Alfonsina diede un taglio nuovo alle rubriche femminili ormai presenti da tempo in tutti i giornali, parodiandone maliziosamente lo stile; aveva accettato di occuparsene soprattutto per ragioni alimentari, ma grazie a lei le puntate di Feminidades, apparse su La Nota, e di Bocetos femeninos, firmate con lo pseudonimo maschile di Tao Lao su La Nación, diventarono qualcosa che nessuno si aspettava: riflessioni che svelavano l’opera di costruzione di un corpo femminile standard, uniformato dalla moda e dall’acconciatura; ammonimenti sui rischi della caccia a un marito; considerazioni ironiche sulla mascolinità “fossile” e le sue idee pietrificate. Ma le cronache in cui Storni dava il meglio di sé erano quelle dedicate alla realtà quotidiana delle donne, dalle signore eleganti alle sartine, dalle studentesse alle immigrate, sempre pronte a illudersi anche se sottoposte alla pressione delle aspettative sociali, costrette a scegliere tra silenzio e chiacchiera vuota, ritenute legalmente incapaci e prive del diritto di voto. Catalogate per tipi o per mestieri, vengono amabilmente prese in giro da Alfonsina, che le vede aderire senza farsi troppe domande a immagini e modelli prestabiliti, inclusi quelli imposti dalla cultura di massa, dal cinema alla musica alla stampa popolare, e le incita a riappropriarsi di se stesse: “Le eroine”, “La perfetta dattilografa”, “L’impeccabile”, “Le crepuscolari”, “La ragazza-pappagallo”, “Le manicure”, “Le professoresse”, sono solo alcuni dei ritratti riuniti nella seconda parte dell’antologia, simili a istantanee o a figurine di un vivace quadro impressionista.

Ogni cronaca dà conto, sotto la maschera di un linguaggio apparentemente morbido e scherzoso, delle convinzioni dell’autrice e della sua ideologia, ma anche del suo invito a riempire gli spazi che lei stessa lascia vuoti, per invitare le lettrici a trarre le loro conclusioni. E sono proprio le cronache a svincolare definitivamente Storni dalla logora convenzione che la voleva nevrotica, consumata da amori infelici, depressa e delusa, affascinata dalla morte e predestinata al suicidio, mentre quella di togliersi la vita con un ultimo tuffo in mare, dopo aver scritto un “antisonetto” di congedo e due lettere al figlio Alejandro, era stata ancora una volta una scelta di libertà. Torturata da un tumore ormai incurabile, Alfonsina aveva disposto di se stessa come aveva sempre fatto e, che lo prevedesse o no, era diventata definitivamente una leggenda.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2017