lunedì 7 maggio 2018

Da leggere: Marta Sanz


Marta Sanz


Il mestiere di attore, una metafora della precarietà

Un giovedì qualsiasi a Madrid, verso le sette di sera, il tacco di una scarpa femminile si conficca nella fessura di una griglia di ventilazione, nel centro esatto di Puerta del Sol. La scarpa appartiene a Valeria Falcón, matura attrice di qualche notorietà, che, subito prigioniera di un paralizzante attacco di panico e ruotando su quel tacco simile all’ago di un compasso, scatta incessanti polaroid mentali della piazza e del suo brulicante paesaggio umano, avvolto da odori e suoni di intollerabile densità.

Per qualche secondo l’atterrita Falcón, ultima erede di una illustre dinastia teatrale (“una donna dal nome aereo, spettacolare, e dall’aspetto debole, anodino”) viene sopraffatta da una raffica di flash sinestesici, finché riesce a strappare il tacco dalla fessura e ad avviarsi all’appuntamento settimanale con ciò che resta di Ana Urrutia, ex diva impoverita che trascina una repellente ma indomita vecchiaia in un appartamento ingombro di rifiuti. E il lettore si avvia insieme a Valeria, ancora stordito da quell’incipit travolgente che sta per introdurlo nel complesso labirinto di Showbiz (pag. 224, e. 16, appena uscito presso Feltrinelli nella traduzione di Francesca Pe’), l’undicesimo dei dodici romanzi della madrilena Marta Sanz, oggi poco più che cinquantenne e, a giudizio della critica ma anche di un pubblico sempre crescente, la più brillante, insolita e audace delle narratrici spagnole del momento, premiata con l’Herralde de Novela proprio per questo libro, al quale si è aggiunto l’anno scorso l’autobiografico e più che notevole Clavícula, apparso come sempre presso Anagrama.

Com’è sua abitudine, anche qui Sanz raccoglie alcuni fili delle opere precedenti, in particolare di Daniela Astor y la caja negra – romanzo del 2013 in cui due ragazzine giocano a identificarsi con le giovani e polpose star del cinema spagnolo appena liberato dalle censure franchiste – e di No tan incendiario, un suo saggio di qualche anno fa: al primo, Showbiz (il titolo spagnolo è il ben più armonioso Farándula) si collega tramite un leitmotiv condiviso, ossia il mondo dello spettacolo e il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione; l’anello di congiunzione col secondo è, invece, l’analisi dell’aggressiva svalutazione populista della cultura,  ma anche del suo inserimento nello schema del neoliberismo, che vede nello spettatore o nel lettore puri e semplici clienti da sedurre e fidelizzare.

Entrambi i fili vengono inseriti e intrecciati in un romanzo corale che racconta le storie di attori e attrici impegnati nella preparazione di un remake teatrale del famoso film di Mankiewicz Eva contro Eva (Valeria Falcón nel ruolo che fu di Bette Davis, la sua giovane protetta e coinquilina Natalia de Miguel in quello di Eva Harrington, il cinico e opportunista Lorenzo Lucas nella parte di Addison DeWitt), ma anche, in parallelo, le vicende di Ana Urrutia e di Daniel Valls, attore spagnolo famoso in tutto il mondo e fresco vincitore della coppa Volpi, che vive a Parigi con una raffinata moglie altoborghese, covando la nostalgia dell’impegno politico giovanile e del possesso di una coscienza. Accanto e intorno a loro, a riempire ogni interstizio, figure di contorno come l’infame Julita – badante per mestiere e hater per vocazione, con il nickname di Giustizia Divina – che attraversano o protagonizzano capitoli brevi dal ritmo rapido, quasi frenetico, contraddistinti da un ricchissimo flusso verbale che non ha paura della ridondanza, dell’eccesso, dell’iperbole, delle lunghe e martellanti enumerazioni (memorabile quella relativa alla mitologica categoria della “gente”), per sostenere il codice apertamente satirico adottato dall’autrice e la polifonia richiesta da un così vasto numero di personaggi.

Una scrittura vertiginosa, quella della Sanz, che non esclude l’osceno e lo scatologico, che sciorina secrezioni e aromi, che sottolinea il traboccare o il ritrarsi della carne, e che descrive esplicitamente il disfacimento fisico di Ana, colpita da un ictus, quanto i complicati esercizi sessuali di Valls e della moglie, poiché “il corpo è testo, il testo è a sua volta corpo” (e lo è più che mai quando si parla di attori). Pochissimi i dialoghi diretti – il perché lo si capisce alla fine, quando si scopre che dietro il narratore in terza persona o le voci monologanti si nasconde una delle protagoniste – spesso sostituiti da fiotti di parole, in un continuo ed euforico tentativo di rovesciare frasi fatte, convenzioni narrative consolidate e anche le attese del lettore, che potrebbe aspettarsi una storia sul mondo dello spettacolo, con un pizzico di glamour e di scandalo (gli ingredienti ci sono tutti: red carpet, evocazioni di star autentiche come Angelina Jolie o George Clooney, sere della prima e reality show, viali del tramonto e nuovi astri che sorgono), e invece si trova alla prese con un romanzo di sarcastica ferocia, in cui la professione di attore e il suo ingannevole luccichio diventano metafora della precarietà, delle differenze di classe, della paura, degli indispensabili e umilianti compromessi (uno dei personaggi, brava attrice di teatro, “sopravvive per vent’anni dentro un costume da rana”, in una trasmissione per bambini) imposti da una società in cui nulla è certo, tranne la breccia sempre più profonda delle disuguaglianze.

Ana Urrutia e Valeria Falcòn rappresentano, ciascuna a modo proprio, un passato fatto di competenza, abilità e saperi, ovvero una cultura disprezzata e respinta in quanto lusso “elitista” e innecessario, mentre Natalia de Miguel, “Eva” che passa senza farsi domande dalla delirante popolarità di un reality romantico ai trionfi teatrali alla pubblicità di un profumo, corrisponde a un presente in cui l’ideologia tecnologica della Silicon Valley suggerisce l’idea che l’intelligenza coincida con la capacità di adattarsi al “mezzo”. Quanto a Daniel Valls, linciato dal vociare collettivo dei social non appena torna a schierarsi in modo politicamente definito e, invece di limitarsi ad appoggiare cause alla moda, osa criticare il sistema sociale che lo ha reso ricco e famoso, rappresenta forse un vicinissimo futuro in cui la compiacenza assurge a qualità primaria, trasformando l’intellettuale in un giullare alla ricerca di un mercato.

Appare evidente che Showbiz, così rutilante ed esplosivo, con la sua carica di humor nero e di sobria compassione, è almeno in parte un’allegoria delle ingiustizie e delle incertezze attuali, nonché di trasformazioni così rapide da “farci diventare vecchi prima del tempo”; di certo è un testo allegramente rabbioso e profondamente politico, ben consapevole dell’inscindibilità di forma e contenuto: non un pamphlet, non un romanzo a tesi, ma una narrazione che esprime la propria intrinseca radicalità costruendo strategie letterarie quanto mai sofisticate e suggestive, capaci di divertire proprio mentre inducono in chi legge un sottile, persistente, inequivocabile disagio. Perché questo, dice Sanz, dovrebbe essere l’effetto della letteratura: pungerci, farci trasalire, procurarci una lieve ma provvidenziale scomodità.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2018

venerdì 4 maggio 2018

Da leggere: Patricia Ratto



Patricia Ratto


Là dove l’oceano è più profondo, la storia dell’ARA San Luis 

Sono passati quasi quarant’anni dalla breve guerra che, tra l’aprile e il maggio del 1982, seguì all’invasione delle isole Malvine (piccolo arcipelago dell’Atlantico meridionale e sin dal 1833 territorio d’oltremare del Regno Unito, ma costantemente rivendicato dalla Repubblica Argentina), voluta dal generale Galtieri per occultare le difficoltà della giunta militare. E proprio come l’ultimo tentativo di sopravvivenza da parte della dittatura, cui la disastrosa sconfitta assestò il colpo finale, viene ancora oggi letto questo surreale episodio bellico: una lettura alla quale, però, se ne sono aggiunte e sovrapposte altre più complesse e articolate, che hanno dato vita a una vasta produzione documentaria e memorialistica e soprattutto a un fiume di romanzi e racconti, le cui opere fondanti restano Los Pichiciegos di Fogwill (Scene da una battaglia sotterranea, Sur 2011), scritto in presa diretta nel 1982 da uno dei più brillanti ed eterodossi fra gli autori argentini, e Las Islas (1999) di Carlos Gamerro, scrittore e critico mai tradotto in Italia.

Tanto Fogwill che Gamerro, con toni diversi e rifacendosi a generi differenti (una sorta di realismo “sporco” il primo, una mescolanza di noir e fantascienza il secondo), fanno uso di uno humor crudelissimo, quasi a significare che la guerra delle Malvine, benché tragica, è stata in fondo una farsa, e la loro satira spregiudicata dei luoghi comuni patriottici ha aperto la strada a opere sempre più audaci. Per esempio a quelle di scrittori giovani che spiccano per qualità e originalità in una produzione spesso diseguale, come Carlos Godoy, con il suo La construcción (2014) in cui le Malvine diventano semplici “macchie” dove ognuno vede ciò che vuole, o Patricio Pron con l’irridente e sarcastico Una puta mierda (pubblicato una prima volta nel 2007 e riproposto anni dopo col titolo di Nosotros caminamos en sueños ), o Federico Lorenz, storico ma anche autore di Montoneros o la ballena blanca, un romanzo polemico e complesso.

Ai loro testi, che si sovrappongono in modo definitivo alla narrazione bellica proposta dalla giunta e intessuta di falsi trionfi, si è aggiunto nel 2012 un romanzo oggi tradotto in italiano da Massimo De Pascale per le edizioni Elliot: Trasfondo (pag. 118 e. 16), terza prova letteraria di Patricia Ratto – che, nata nel 1962, vive e lavora lontana dall’onnidivorante capitale ed ha ambientato in provincia i suoi libri precedenti, Pequeños hombres blancos e Nudos, in cui pure si affacciano guerra e dittatura –, autrice sensibile ai richiami di una “biblioteca personale” in cui non mancano Borges e Fogwill, Céline e soprattutto Kafka. Trasfondo, termine che indica le profondità più remote e che l’editore ha felicemente scelto di non tradurre, nasce da un brandello di guerra raramente raccontato, la storia vera dell’ARA San Luis, piccolo e malconcio sottomarino che per trentanove giorni pattugliò l’oceano, cercando di sfuggire alla flotta inglese e tentando invano di contrastarla con siluri inefficienti. Una vicenda ricostruita dall’autrice attraverso lunghe interviste e tre anni di ricerche, compiute per documentarsi sulle ottocentosettantaquattro ore trascorse ininterrottamente sott’acqua dai trentacinque tra marinai e ufficiali, e concluse da un inglorioso ritorno a terra, avvenuto di notte e di nascosto, perché, come tutti i reduci delle Malvine, anche gli uomini del sommergibile erano l’inaccettabile simbolo di una sconfitta.

Eppure Trasfondo non è, come si potrebbe pensare, un semplice romanzo di guerra, ma un testo pieno di sfumature, un racconto di mare dalle atmosfere quasi conradiane, che, attraverso una scrittura precisa, nitida e di una sobrietà assoluta, parla dell’attesa, della natura del tempo, della disconnessione da ogni legame esterno (i marinai, condannati a una missione inverosimile su un naviglio fantasma, non sanno quasi nulla di ciò che accade “fuori”, dubitano di quel poco che riescono a sapere, e non arriveranno mai a vedere le isole), sul sovvertimento dei sensi, là dove alla “cecità” del sottomarino si accompagna il costante ascolto del sonar, o di cigolii e raschi e tonfi minacciosi.

Gli odori dei corpi mal lavati, l’aria densa, l’umidità, le superficie viscide o appiccicose, il freddo, il rotolare di piccoli oggetti che accompagna scosse e oscillazioni, gli uomini rinchiusi in una placenta metallica, rinchiusa a sua volta in tonnellate d’acqua gelida, ci arrivano grazie alla voce narrante di Ortega, sottufficiale di sala macchine che, per ingannare quel tempo dilatato e sospeso, legge in un libro malconcio, trovato casualmente a bordo, la storia di una misteriosa creatura avida di carne e costruttrice di cunicoli (anche il sommergibile non è, in fondo, un insieme di cunicoli?), in cui altri lettori riconosceranno un racconto di Kafka, il postumo La tana.

Lotta, Ortega, con la propria memoria lacunosa o registrando i piccoli misteri che punteggiano la vita quotidiana (un paio di scarponi che spariscono e riappaiono, un vasetto di capperi che ruzzola avanti e indietro). Legge, dorme e racconta i suoi sogni, percorre il sommergibile da poppa a prua e, in quel via vai continuo e pigro, osserva ogni cosa: gesti, espressioni, suoni, silenzi, ombre, patetiche feste di compleanno, uomini che non abbandonano il giubbotto salvagente neppure per dormire, ansie, domande. Nulla gli sfugge: unico a bordo, Ortega sa tutto, vede tutto, nel buio in cui il sommergibile si immerge fino a toccare il fondo dell’oceano, ombra tra le ombre, in una guerra che non arriverà a combattere e di cui i marinai non conoscono dimensioni e vicende, così come le ignorano coloro che, a casa, ascoltano ogni giorno il resoconto fasullo ordito dalla dittatura.

Non c’è poi troppa differenza, dunque, tra i cittadini avvolti nel bozzolo delle menzogne di regime, articolate in episodi commoventi, gesti eroici, annunci squillanti, e i marinai che, le rare volte in cui il periscopio spunta dall’acqua nera, vedono solo buio e nebbia. Fino al momento in cui la guerra si conclude com’era cominciata, di colpo e senza spiegazioni, e l’ARA San Luis torna a galla, non senza che un sorprendente risvolto finale allontani il racconto di Ortega dal suo minuto realismo quotidiano, mentre chi legge si accorge all’improvviso dei tanti indizi rivelatori che gli erano sfuggiti, e soprattutto di una domanda sotterraneamente insinuata sin dall’inizio: “è possibile essere morti e non rendersene conto?”.

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2018