domenica 29 settembre 2019

Da leggere: Tomás Downey


Tomás Downey


La normalità dell’orrore 

Non è difficile collocare Tomás Downey, nato a Buenos Aires nel 1984 e autore di due libri di racconti – il secondo, Il posto dove muoiono gli uccelli (pp. 120, e. 13) appare ora presso gran vía, nella traduzione di Olga Alessandra Barbato – all’interno di un nutrito drappello di scrittori contemporanei argentini che include anche nomi già noti al pubblico italiano, come Samanta Schweblin, Luciano Lamberti, Mariana Enríquez, Pedro Mairal (il suo El año del desierto è una strepitosa distopia che non sarebbe male tradurre), o Ricardo Romero, il cui nuovo romanzo El conserje y la eternidad registra la presenza di un vampiro che attraversa gli anni più foschi della storia nazionale.

Con stili molto differenti, questi autori e altri ancora lasciano affiorare la fascinazione per l’ambiguità e il non detto, le visioni post-apocalittiche, gli interrogativi sui limiti dell’umano, il dissolversi di ogni certezza; nessuno di loro si può davvero definire uno scrittore gotico, ma del gotico rivisitano spesso le risorse, creando un clima di oscura minaccia anche quando il soprannaturale non è una presenza esplicita. Sono, a ben guardare, le crisi politiche degli ultimi decenni, l’estrema crescita della povertà, l’incombere del caos sociale (fantasma sempre presente in Argentina) a venire rappresentati nei termini più diversi e inquietanti in questa narrativa che sarebbe eccessivo, ma non del tutto improprio, chiamare neogotica.

Anche Il posto dove muoiono gli uccelli si inserisce a suo modo in questo filone, alternando racconti marcatamente fantastici e altri più realistici, ma comunque perturbanti: un accostamento che suggerisce nuovi significati e crea un contrasto pieno di tensione. Così il protagonista bambino di Il primo sabato del mese scopre di colpo la possibilità della morte attraverso l’enorme cicatrice di un’operazione disegnata sul torace di un nonno prepotente e macho, mentre in Variabili una giovane madre che lavora in casa, analizzando dati statistici, rinchiude ogni giorno sul balcone il figlio che sta facendo i primi passi, decisa a sanare la fessura che la sua presenza ha aperto nella rigidissima routine produttiva cui si è consacrata.

Con una scrittura essenziale, che rifugge dalla metafora e dall’allegoria e si rifugia in frasi brevi e immagini vivide e precise, Downwey disegna atmosfere oppressive, surreali, cupe o sottilmente ironiche, conferendo un’assoluta naturalezza all’inesplicabile, scatenato da sovvertimenti misteriosi dei quali non conosciamo ragioni e origini. In Zoo, per esempio, una parte dell’umanità è rinchiusa per il divertimento altrui in un giardino zoologico dove soltanto alcuni mantengono la coscienza di sé, e in Gli uomini vanno alla guerra una donna (prigioniera di un tempo immobile, o vittima di una sadica burocrazia?), riceve più e più volte la notizia della morte di suo marito in un conflitto senza fine, ripetuta con identiche parole da messaggeri ufficiali. Sorelle, sul sortilegio sanguinoso inventato da tre bambine che sperano di eliminare il padre, e Il posto dove muoiono gli uccelli, ambientato tra la deriva familiare innescata da una nuova nascita e il bosco tenebroso e fiabesco dove due sorelline “giocano” al cimitero, sono in realtà racconti privi di elementi fantastici, ma con una tale impronta terrifica da rimandare al vasto immaginario letterario e filmico sull’alterità e la crudeltà infantile (e, sebbene Downey non la citi tra gli autori che preferisce, è qui impossibile non pensare a Silvina Ocampo e ai suoi terribili ritratti di infanzia).

Sotto la superficie dei racconti scorrono, intense e pervasive, due correnti sotterranee: una è la famiglia, la coppia, sistema sempre sull’orlo dell’implosione. L’altra è la morte, declinata in molteplici varianti: animali in putrefazione, sacrifici rituali, guerre, finzioni mediatiche o apparizioni, come in La pelle sensibile, dove una delle figure classiche del gotico, il fantasma, si insinua muto e incalzante nelle giornate della donna amata, obbligandola infine ad accettarne la presenza, con tutti i segni della malattia che l’ha ucciso. Visioni alternative spuntano come funghi velenosi dalla superficie della quotidianità, e ogni narrazione appare un piccolo universo a sé, contraddistinto da un’ambiguità estrema, perché nulla viene mai spiegato e i racconti non hanno un vero finale, ma a concluderli è piuttosto un’immagine che in un certo senso li riassume. Con singolare asciuttezza, Downey si limita a mostrare ciò che accade, non giudica né si pronuncia, offre al lettore un’illimitata libertà di interpretazione e allo stesso tempo lo obbliga a convivere con l’eco di ogni storia, insieme al disagio, alle ipotesi e alle riflessioni che porta con sé.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel settembre del 2019

 

 


mercoledì 11 settembre 2019

Storie e Ritratti: Kati Horna


Kati Horna



Kati Horna, messicana “per convinzione” 

Il cartoncino, segnato da pallidi timbri, porta l’intestazione della Oficina de Propaganda Exterior e, in data 17 maggio 1937, afferma che la tal compagna fa parte della suddetta Oficina e può quindi circolare ovunque. Un rettangolino vuoto rivela l’assenza di una foto-tessera strappata via: quella di Kati Deutsch, nata a Budapest nel 1912 in una famiglia ebrea colta e benestante e arrivata in Spagna su invito della CTN-FAI, per realizzare un libro fotografico che si intitolerà España? Un libro de imágenes sobre cuentos y calumnias fascistas: el álbum de propaganda antifascista.

Già allora Kati, reduce da soggiorni a Berlino e a Parigi durante i quali aveva approfondito il suo interesse per la fotografia, era la donna forte, avventurosa, accogliente e intensamente creativa che molti anni dopo l’editore messicano José Luis Díaz avrebbe descritto così: “Aristocratica per ascendenza, anarchica per convinzione, seduttrice per natura e vagabonda per vocazione”. Una ragazza dalla bellezza assorta e priva di civetteria, che sin da adolescente si era interessata di politica, restando colpita dalle idee di Lajos Kassák, singolare figura di intellettuale convinto che l’arte fosse uno strumento fondamentale per cambiare la società.

In Spagna aveva ritrovato compatrioti e amici come Robert Capa, Chiki Weisz, Gerda Taro, e altri fotografi di guerra come David Seymour e la polacca Margaret Michaelis: c’erano una rivoluzione da difendere e una lotta da documentare, e lei lo fece prima sul fronte di Aragona, poi nel sud del paese, quindi a Madrid e a Barcellona, dove fotografò i bombardamenti italiani ma anche i bambini del barrio Chino e gli eroici spettacoli degli artisti di strada. Intanto era diventata Kati Horna, il suo nome ultimo e definitivo, dopo aver sposato l’andaluso José Horna, pittore e illustratore brillantissimo, con il quale aveva molto in comune: se lei si considerava un’operaia della fotografia, lui si autodefiniva un artigiano.

Diventata la reporter ufficiale della Spanish Photo Agency, agenzia anarchica, Kati scattò circa un migliaio di fotografie, ma quando lei e il marito si rifugiarono in Francia – dove José venne rinchiuso in uno degli spaventosi campi di concentramento destinati ai profughi spagnoli – e poi raggiunsero il Messico, riuscirono a portare con loro solo duecentosettanta negativi chiusi in una scatola di latta, che nel 1983 Kati vendette al governo spagnolo e che oggi sono conservati nell’Archivo General de la Guerra Civil Espanola di Salamanca, sul cui sito si legge: “La maggior parte della serie fotografica realizzata da Kati Horna durante la Guerra Civile, probabilmente è dispersa o distrutta”. Questa frase, però, è destinata a scomparire in fretta, perché gli altri negativi, quasi seicento, esistono ancora.

Chiusi dal 1939 in una delle quarantotto casse di legno che contengono gli archivi della CNT, partiti da Barcellona per affrontare un complicato viaggio verso il porto sicuro dell’Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam, sono stati scoperti una settimana fa da Almudena Rubio, una storica dell’arte che si è imbattuta in un tesoro simile a quello contenuto nella famosa maleta mexicana, la valigetta con i negativi di Capa, Seymour e Taro, affidati a Chiki Weisz che, in fuga dall’esercito tedesco, la portò in bicicletta da Parigi a Bordeaux, dove la valigia scomparve per riapparire nel 1994 e, a partire dal 2008, girare il mondo da una mostra all’altra, diventando infine un libro.

La speranza è che anche ai negativi di Horna tocchi la stessa sorte e che il ritrovamento contribuisca a gettare ulteriore luce non solo sui giorni della guerra civile, ma sull’opera e la figura di una donna d’eccezione, cui negli ultimi anni sono state dedicate mostre e libri di grande interesse – per esempio l’indispensabile Kati Horna: Constelaciones de sentido di Lisa Pellizon (Sans Soleil 2015) –, in cui si dispiegano le molte vite di una grande fotografa mai abbastanza riconosciuta. Una reporter di guerra, sì, ma assai diversa da Robert Capa, per il quale la foto era buona solo se drammaticamente scattata nel cuore dell’azione. Per Kati, scrive Ángeles Alonso Espinosa, la sovraesposizione banalizzava la violenza: “Aveva un modo completamente diverso di simbolizzarla, molto legato al suo percorso personale”. Anche quando fotografava i soldati lo faceva lontano dal combattimento, e amava concentrarsi sulla gente comune e sul suo quotidiano contatto con la guerra, ma anche sugli ambienti devastati, gli oggetti, i simulacri del corpo umano. E i negativi ritrovati, sottolinea Rubio, confermano il suo desiderio di privilegiare il racconto piuttosto che la notizia, senza mai dimenticare di essere, oltre che fotografa, una militante, la stessa che nel 1937 aveva realizzato la potente serie satirica Hitlerei, con il dittatore in veste di uovo alla coque.

La vita a Città del Messico, in una casa della Colonia Roma che chiunque l’abbia conosciuta definiva magica e fuori del tempo, le consentirà di continuare un lavoro che esprimeva la sua solidarietà con i diseredati e la necessità di un’emancipazione autentica, ma anche di dedicarsi a nuove esplorazioni artistiche, spesso in collaborazione col marito, costruendo oggetti, manipolando negativi, creando onirici fotomontaggi in cui molti hanno creduto di riconoscere una vena surrealista. Kati, però, rifiutava questa etichetta, che a suo parere le veniva assegnata solo per la sua amicizia con due pittrici celebri, esuli come lei e un tempo vicine al surrealismo: la spagnola Remedios Varo, seducente e stravagante, e Leonora Carrington, lady inglese dalla vita tormentata che aveva trovato la pace sposando Chiki Weisz (il matrimonio era avvenuto proprio in casa Horna) e sciogliendo definitivamente i lacci che per troppo tempo l’avevano legata all’immagine delle femme-enfant surrealista.

Le tre streghe, le chiamavano, anche se la definizione si adattava soprattutto alle altre due, cultrici di esoterismo e scienze arcane, che nelle loro cucine sperimentavano ricette impossibili e pozioni indigene. Kati, solida e attenta, anarchica mai pentita con una robusta coscienza sociale, tra loro sembrava quasi fuori posto, ma condivideva con entrambe l’amore per la nuova patria (tutte e tre erano “messicane per convinzione”, oltre che per cittadinanza) i ricordi della guerra civile e quel sereno riconoscimento della rispettiva autorevolezza che, unito alla capacità di ridere insieme, rende indistruttibile un’amicizia femminile. Kati era colei che, fissando sulla pellicola le feste in famiglia, le riunioni e gli scherzi, i travestimenti, gli interni domestici in cui si espandevano attività quotidiane trasfigurate dall’immaginazione, stabiliva un contesto, svelava la sotterranea intesa che conferiva alle loro vite una gioiosa stabilità, disegnava la mappa di un ritrovato potere femminile. Senza Horna, è difficile capire le altre due brujas, tanto che la loro ferrea amicizia è stata celebrata a Chichester, nel 2010, dalla mostra Surreal Friends, in cui ciascuna delle tre appare come la parte di un tutto straordinario.

E senza le foto infine ritrovate nelle casse di Amsterdam, è forse impossibile capire Kati Horna fino in fondo e sistemare al suo posto l’ultimo tassello, quello che manca da troppo tempo.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2019


Storie e Ritratti: La città dei Cesari




Una leggenda senza fine

“… Una fortezza di montagna, situata ai piedi di un vulcano e sovrastante un bellissimo lago. C’era un fiume, il Río Diamante, ricco di oro e pietre preziose. Ci volevano due giorni per attraversare la città, che aveva un’unica entrata difesa da un ponte levatoio. Gli edifici erano di pietra scolpita, le porte tempestate di gioielli, i vomeri erano d’argento e il mobilio della più umile dimora d’argento e d’oro. Non esistevano malattie; i vecchi morivano serenamente, come colti dal sonno. Gli uomini portavano cappelli a tricorno, giacche blu e mantelli gialli (colori dell’Essere Supremo nella mitologia india). Coltivavano pepe, e le foglie dei loro ravanelli erano così grandi che ci si poteva legare un cavallo”.

Così, nel suo In Patagonia Bruce Chatwin parla della Ciudad de los Césares, la Città dei Cesari, che gli viene in mente una volta arrivato a Paso Roballos (“Sembrava proprio il luogo della Città d’Oro, e forse lo era”), l’estrema frontiera meridionale tra Cile e Argentina, tra montagne dai colori inverosimili, un lago dalle sponde di un bianco accecante, lagune blu zaffiro, migliaia di cigni dal collo nero e fenicotteri rosa.

La pagina che il viaggiatore inglese dedica alla leggenda è sbrigativa, e dà ovviamente conto solo di una delle sue tante versioni, che dalla metà del XVI secolo fino alle soglie del XIX collocano la città sempre più a sud, in luoghi sempre diversi, quali una valle fertile e dal clima mite, nascosta tra le montagne dell’inospitale Patagonia, oppure un’isola al centro di un lago. E diversi sono, a seconda del racconto, gli abitanti e le loro caratteristiche: uomini bianchi, alti e biondi, che parlano una lingua misteriosa; mitimaes (coloni inca) in fuga dagli invasori; spagnoli perduti; e nelle versioni più esoteriche compaiono addirittura dei templari europei che, all’arrivo dei conquistatori, svaniscono insieme al sacro calice del Graal. Alcuni elementi, però, sono comuni a ogni narrazione: in primo luogo l’immensa quantità di oro, argento e gemme di cui dispongono los Césares, e poi la separatezza, l’isolamento.

La paradisiaca Città dei Cesari, timorosa del mondo esterno e gelosa dei suoi tesori, era segreta e inafferrabile quanto altri luoghi mitici del Nuovo Mondo, che nel 1929 lo storico argentino Enrique de Gandía elenca nella sua Historia Crítica de los Mitos de la Conquista Americana: la Fonte dell’eterna giovinezza, le Sette Città di Cibola, la Sierra de la Plata con il suo Re Bianco, il Gran Paitití, Eldorado…

Il Sud del continente americano si presentava a occhi europei come una mappa vuota da riempire con luoghi e presenze per nulla comprovabili, ma presentati e accettati come veri, accostando mostri, giganti e pericoli mai visti al miraggio di strabilianti ricchezze e, forse, anche all’idea di un’Età dell’Oro ricavata da favolose narrazioni su Paesi di Cuccagna e Isole Felici, con il loro carico di visioni, simboli e miraggi. E, nonostante il successo scarso o nullo delle innumerevoli caccie al tesoro condotte attraverso il continente, il potere delle leggende non diminuiva, nutrendosi della meraviglia che una cultura “caratterizzata da un’immensa fiducia nella propria centralità” (come ci ricorda Stephen Greenblatt nel suo magnifico Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Il Mulino 1994) ricavava dall’incontro con un’alterità considerata assoluta e impenetrabile.

Il viaggio di Colombo “inaugurò un secolo di intenso stupore” (è sempre Greenblatt a sottolinearlo) e diede inizio a una sanguinaria e proditoria conquista che includeva la pretesa dell’abbandono immediato di credenze e costumi autoctoni, per adottare quelli di una superiore civiltà e della sua religione, l’unica vera; ma fu anche il punto di partenza di un’autentica invenzione dell’America, a partire da una “riserva di rappresentazioni” generate dall’immaginario, ancor più che dall’esperienza. Rappresentazioni difficili da demolire perché necessarie, scrive alla fine degli anni ’30 l’argentino Ezequiel Martínez Estrada in Radiografía de la Pampa, per non cedere alla delusione provocata dal contrasto fra la realtà (ricchezze introvabili, un futuro che non arrivava mai a compiersi) e le aspettative che l’ansia di avventura, il desiderio di arricchirsi e la forza del mito erano riuscite a creare.

Per più di tre secoli la leggenda della Città dei Cesari fu al centro di esplorazioni, ricerche e spedizioni armate, provocò naufragi, inghiottì drappelli di soldati e fece scorrere fiumi di inchiostro. Non c’è dubbio, però, che alla sua nascita abbiano contribuito anche elementi storici: il primo è il viaggio di Sebastiano Caboto, che nel 1526 era partito dalla Spagna per cercare una rotta verso le Molucche attraverso lo stretto di Magellano, ma che rimase colpito dal racconto dei reduci di un’altra spedizione (quella del 1516 in cui Juan Diz de Solìs aveva risalito il Rio de la Plata) su luoghi traboccanti d’oro e d’argento. Caboto cambiò rotta, e con poca fortuna, ma uno dei suoi uomini più fidati, il capitano Francisco César, gli chiese il permesso di condurre pochi uomini in una esplorazione verso ovest. Da lui e dalla sua pattuglia prende nome la Città dei Cesari, incontrata, si dice, nel corso di un cammino che nel corso di due mesi e mezzo li aveva portati non certo in Patagonia, ma fino alle sierras di Cordoba, dove avrebbero visto una città piena di tesori e abitata da indios accoglienti: una storia che, passando bocca in bocca e di cronaca in cronaca, assunse connotati sempre più fiabeschi, incrociandosi più tardi con la notizia (successiva alla conquista del Perù da parte di Pizarro) su una schiera di inca carichi di ricchezze e in fuga verso sud, dove avrebbero fondato una città.

Altre spedizioni (numerose e puntualmente fallite), molte fughe e svariati naufragi, come quello della spedizione del Vescovo di Plasencia nello stretto di Magellano, nel 1540, popolarono la Patagonia di “spagnoli perduti” – naufraghi, disertori o profughi – che la voce corrente mise in relazione con il ricco e misterioso insediamento inca, e l’incrociarsi di versioni sempre più complesse e fantasiose aggiunse alla storia connotazioni apertamente magiche: la Città poteva prodigiosamente cambiare posto, i suoi abitanti non nascevano né morivano, a proteggerla degli estranei era una barriera di nebbia che si sarebbe dissipata solo alla fine dei tempi… E se nella seconda metà del XVIII secolo l’amministrazione del Regno del Cile decise di indagare su quella che veniva ormai considerata solo una leggenda, fu perché le giunsero informazioni sull’esistenza di una città di uomini bianchi “che non parlavano spagnolo” e facevano sorgere il sospetto di una presenza inglese o olandese, ma anche per il dubbio che nella presunta Città dei Cesari risiedessero i discendenti degli abitanti di Osorno, distrutta dai mapuche durante la rivolta del 1598. Venne dunque intrapresa una nuova spedizione, l’ennesima, ma i riscontri erano deboli, i testimoni poco attendibili, e nel 1782 l’indagine fu definitivamente chiusa.

I viaggi scientifici del XIX secolo, intenzionati a separare il loglio delle “favole” dal grano dei riscontri oggettivi, parevano destinati a seppellire per sempre una storia dura a morire, e invece no: la Città dei Cesari sarebbe sopravvissuta attraverso una letteratura popolare abbondante e fortunata, ma anche nelle pagine di autori di buon mestiere come i cileni Hugo Silva con il suo Pacha Pulai (1935), o Luis Enrique Délano con En la Ciudad de los Césares (1939), e soprattutto Manuel Rojas, uno dei più importanti scrittori del Cile moderno, che Ricardo Piglia non esita a paragonare a Roberto Arlt. La sua opera giovanile La Ciudad de los Césares (1936), uscita a puntate su El Mercurio e poi ripubblicata come romanzo per adolescenti, è certo molto diversa dal resto della produzione di un autore ormai classico, ma non ne tradisce il forte impegno sociale e l’etica rigorosa: nelle pieghe dell’avventura, la città abitata da Césares Bianchi (discendenti dei naufraghi) e Neri (gli indios) si trasforma in una polis utopica e meticcia in cui si confrontano e convivono due visioni del mondo, quella del conquistatore e quella del conquistato.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nell’agosto del 2017

 


martedì 10 settembre 2019

Da leggere: Valeria Luiselli

Valeria Luiselli



Tenere fuori, chiudere dentro

Succede, a volte, che un richiamo imprevisto induca uno scrittore a interrompere la stesura di un’opera per dedicarsi a un’altra, percepita come più urgente. Accadde, per esempio, a José Donoso quando nel 1973 mise da parte il testo cui stava lavorando, Lagartijia sin cola, per dedicarsi a Casa de campo (sontuosa allegoria della situazione politica e sociale cilena), spinto – sostenne la figlia Pilar – dall’improvvisa notizia del golpe.

A Valeria Luiselli, forse la più celebrata tra le giovani scrittrici messicane di oggi, è accaduto qualcosa di simile proprio mentre progettava un nuovo romanzo, alla fine di un lungo viaggio con marito e figli nei giorni della cosiddetta Border Crisis, quando il brusio della radio, i titoli dei giornali e le voci della strada sembravano ripetere sempre la stessa notizia: migliaia di bambini e ragazzi, provenienti dal Centro America e dal Messico stavano entrando negli Stati Uniti clandestinamente e con ogni mezzo, in cerca di una famiglia che li aveva preceduti, o semplicemente della sopravvivenza.

Di ritorno a New York, idee e appunti per il romanzo andavano moltiplicandosi, e così pure gli arrivi dei giovanissimi migranti, contro i quali l’amministrazione Obama si era affrettata a emanare il Priority Juvenile Docket per un’espulsione più rapida ed efficiente, un provvedimento che annuncia e precede la ferocia trumpiana. Fu allora che Luiselli cominciò a occuparsi dei piccoli “intrusi”, facendo da interprete per la Icare Coalition, riempiendo moduli, ascoltando decine di storie. Quasi subito, si sentì obbligata a lasciare il romanzo in “animazione sospesa” e a virare verso un asciutto pamphlet che metteva il linguaggio letterario al servizio dell’indignazione, usando come scheletro le quaranta domande di uno spietato questionario burocratico. È nato così Dimmi come va a finire (pubblicato in Italia nel 2017 da La Nuova Frontiera, editore di tutta l’opera di Luiselli), premiato l’anno scorso con l’American Book Award e primo testo in inglese di una scrittrice cosmopolita che, cresciuta lontano dal suo paese d’origine al seguito di un padre diplomatico, si è stabilita da anni negli Stati Uniti e passa con scioltezza da una lingua all’altra.

Dopo due romanzi in spagnolo – Volti nella folla, del 2011, e Storia dei miei denti, apparso nel 2013 – Valeria Luiselli ha scritto in inglese anche il terzo, Archivio dei bambini perduti (La Nuova Frontiera, pp. 448, e. 20,00), che riutilizza in altra chiave parte dei temi, degli avvenimenti e dei personaggi del precedente pamphlet. Il romanzo interrotto ha così ripreso vita, e, splendidamente tradotto in italiano da Tommaso Pincio, procede lungo e lento come il viaggio in auto che l’ha ispirato, e che nel 2014 portò l’autrice e i suoi da New York all’Arizona. Con altrettanta lentezza andrebbe letto per non farsene sfuggire gli infiniti dettagli, le figurine e i paesaggi che sembrano ritagliati nella celluloide di vecchie pellicole, le innumerevoli storie (vere, inventate, ascoltate, lette) che si giustappongono e si incatenano, i brandelli di autobiografia appena velati, i ricordi che si insinuano tra le pieghe del presente.

Frammenti, digressioni, sguardi rapidi e dolorosi che registrano il progressivo avvento del disamore, parole e immagini che danno conto della crescente isteria provocata dall’“invasione” dei minori non accompagnati, sono tenuti insieme dalla scrittura squisita di un’autrice ormai completamente padrona dei propri mezzi espressivi. Come nei romanzi precedenti, Valeria Luiselli ripropone e addirittura accentua la componente metaletteraria che le è caratteristica, accumula e utilizza materiali diversi (bibliografie, citazioni, immagini, brani di testo) senza risolversi mai in puro esercizio formale, perfino quando l’artificio è laborioso come nelle Elegie finali, “rielaborazioni” dell’immaginario libretto sulla Crociata dei fanciulli di un’immaginaria autrice italiana, Ella Camposanto, disseminate di schegge di scritture altrui, da Pound a Omero, a Conrad, a Eliot, a Rulfo, a Monterroso, a Rilke.

I volumi disposti negli scatoloni che la famiglia porta con sé compongono una fitta bibliografia pronta a dilagare nelle pagine del romanzo: letture non solo condivise e commentate, ma utilizzate come parti indispensabili di una realtà da interpretare e costruire, insieme alla “colonna sonora” (Johnny Cash, David Bowie, Odetta, i Clash, gli Highwaymen, ma anche i suoni del mondo circostante) che un chilometro dopo l’altro scandisce il ritmo di un viaggio guidato da desuete mappe cartacee e documentato da polaroid sbiadite. Avventura e ricerca di sé si fondono, come nella più classica tradizione letteraria e cinematografica nordamericana, lungo strade infinite e deserte, tra motel improbabili e poliziotti sospettosi, mentre corre in parallelo la storia di una famiglia dei cui membri conosciamo solo i ruoli e le professioni, mai il nome. Il padre è un documentarista “sonoro” che registra i suoni del deserto (Desierto sonoro è il titolo spagnolo del libro), inseguendo la memoria di una tribù ribelle deportata in Arizona; la madre è una documentarista venuta dal giornalismo e votata perciò non alla raccolta e all’archiviazione, ma al racconto (e il solo racconto significativo, per lei, è adesso quello di una doppia crisi: la migrazione infantile e un matrimonio in frantumi); i figli sono fratellastri di dieci e cinque anni che esercitano con perizia il loro mestiere di bambini, facendo moltissime domande, cogliendo ogni bisbiglio, fornendo le proprie interpretazioni del mondo.

Mentre si avvicinano a una frontiera che serve a “tenere fuori” ma anche a “chiudere dentro” una nazione sospettosa e spesso ostile, che rischia di scoprirsi estranea a se stessa, fratello e sorella si fanno raccontare dal padre storie sugli Apaches sconfitti e le intrecciano a quelle che ossessionano la madre, sui bambini in cerca di scampo nella nazione che – pur largamente corresponsabile della devastazione da cui fuggono – li considera solo removed aliens, alieni da rimuovere. Sarà la voce del ragazzo, allora, a sostituire quella materna, e il suo punto di vista a prendere il sopravvento nella seconda metà del romanzo, che si fa meno realista, assume un tono di quasi onirico lirismo, lascia affiorare le voci e i corpi dei respinti e muta la direzione del viaggio: non solo in orizzontale – avanti e avanti, come la Bestia, il treno merci sul quale si arrampicano i migranti, o come i passi nel deserto – ma in verticale, giù e in basso, verso le profondità e le visioni delle mitologie mesoamericane e dei sogni infantili.

Tutto, inclusa la consapevolezza di una frattura familiare sempre più profonda, si mescola agli occhi dei fratelli in un’unica storia, ed è quasi inevitabile che decidano di perdersi a propria volta, ingenuamente pronti a soccorre i migranti, come a far presente che anche loro dovranno affrontare una separazione, un’assenza futura, una mutilazione. Quello che stanno cercando di dimostrare, penetrando nel limbo di uno spazio e di un tempo terribilmente mutevoli, inospitali e minacciosi, è forse che tutti i bambini sono in un certo senso “perduti”, che tutti hanno diritto a essere ritrovati, e che nessun essere umano è materiale di scarto: Valeria Luiselli è riuscita a dirlo con insolita profondità, tra le pagine di questo suo romanzo composito, denso, sovrabbondante e costellato di quelle minuscole, commoventi imperfezioni che rendono unico e raro un manufatto.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2019

 


Da tradurre: Álvaro Enrigue

Álvaro  Enrigue


Ora mi arrendo, e questo è tutto

Si ignora se verrà tradotto in italiano, ma esiste un altro e differentissimo racconto dello stesso viaggio narrato da Valeria Luiselli. Ne è autore Álvaro Enrigue, scrittore messicano di notevole valore ed ex marito dell’autrice di Archivio dei bambini perduti, nonché “originale” del padre che, mentre guida, narra ai bambini le sconfitte degli Apaches Chiricahua e dei loro capi Geronimo e Cochise. In Ahora me rindo y eso es todo, insolito romanzo storico pubblicato l’anno scorso da Anagrama, Enrigue unisce il resoconto quasi diaristico di vicende familiari e personali alla complessa narrazione su una cautiva bianca e sull’ufficiale messicano che, dopo averla tanto cercata, la lascia libera di fondersi con l’alterità Apache.

La lettura parallela di questi due libri così diversi per stile, intenti e impostazione, eppure curiosamente speculari, consente di mettere a confronto non solo e non tanto due scritture, ma due modi di porsi nei confronti di temi come l’identità, la migrazione, il colonialismo, il razzismo, il progetto neoliberista che prevede la cancellazione degli “inutili”. Mentre Luiselli – che, in bilico tra mondi diversi, sembra optare per un’identità culturalmente e linguisticamente fluida e composita – trascina il lettore nella perpetua evoluzione di un presente instabile, senza interrogarsi sulle cause ma rappresentandone magistralmente gli effetti, Enrigue (due volte desterrado, in quanto figlio di un’esule catalana in Messico) pur consapevole dei privilegi che gli assicura la sua situazione di intellettuale espatriato, continua a percepirsi come migrante, si azzarda a rivendicare la propria “messicanità” e, mettendo in scena la migrazione forzata di una tribù a lungo indomabile, scava nel passato  per decifrare il presente con gli strumenti di un immaginario indubbiamente politico.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2019