mercoledì 16 ottobre 2019

Storie e Ritratti: Leonora Carrington



Leonora Carrington




La ragazza che voleva essere un cavallo

Quando, negli anni ’50, qualcuno chiese a Leonora Carrington se esisteva un momento storico che apprezzasse in modo particolare, rispose: “Quasi nessuno, o forse sì. C’è un momento storico che mi piace. Per esempio la Caduta del Patriarcato, che accadrà nel XXI secolo”. Morta a Città del Messico nel 2011, l’artista inglese naturalizzata messicana ha avuto il tempo di constatare che, almeno in questo inizio secolo, il patriarcato gode ancora di ottima salute. Lei, però, nel corso dei suoi novantaquattro anni di vita l’ha combattuto a ogni istante, già molto tempo prima di contribuire alla fondazione del Movimiento de Liberación de la Mujer messicano: sin dall’infanzia trascorsa nel Lancashire, dov’era nata in una ricca famiglia di industriali, la sua rivolta contro i tradizionali ruoli femminili era stata clamorosa e assoluta.

Tanto il padre Harold, primo azionista della Imperial Chemical Industries, quanto la madre Maurie, che, secondo l’uso dell’epoca, aveva demandato la cura della prole alla servitù, non riuscirono mai a domare la loro secondogenita, ben più energica e ribelle dei tre figli maschi. Leonora, detta Prim, era una bambina audace e insubordinata, la cui immaginazione si nutriva di fiabe e leggende celtiche narrate dalla nanny irlandese, e ingaggiò con i genitori una guerra all’ultimo sangue. Più volte espulsa da collegi religiosi via via più rigidi, sgradita ospite dell’elegante istituto fiorentino di Miss Penrose, e infelicemente presentata a Corte in un sontuoso abito di raso, nel 1936 la diciannovenne Leonora riuscì infine a frequentare l’accademia d’arte del “purista” Amédée Ozenfant, e, conosciuto Max Ernst durante un omaggio londinese al già celebre pittore, fuggì con lui a Parigi.

Grazie al tuffo senza rete nell’universo surrealista, in cui Ernst l’aveva introdotta, Leonora conquistò davvero la libertà così furiosamente desiderata? Non proprio: il gruppo che ruotava intorno ad André Breton aveva in serbo per le donne altri ruoli codificati, altri stereotipi. Whitney Chadwick, autrice di Mirror Images: Women Surrealism, and Self-Representation, nonché di Leonora Carrington: la realidad de la imaginacion, fa notare che “nessun movimento artistico, a partire dal Romanticismo, ha elevato la donna a un ruolo altrettanto centrale nella vita creativa dell’uomo, come ha fatto il surrealismo”, ma si affretta a sottolineare che i surrealisti la consideravano una pura proiezione del desiderio maschile: musa, femme fatale e oggetto erotico, oppure femme-enfant tutta istinto, un tramite con l’irrazionale, l’occulto, il sogno.

Molti anni dopo, Carrington confesserà: “André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti, ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli”. E ancora: “Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena per gli uomini surrealisti”. Ma era proprio un perfetto esemplare di femme-enfant che Ernst vedeva in Leonora, tanto da descriverla così nella prefazione a La Dame Ovale: ecco la “sposina del vento”, una bambina che non ha letto nulla, che addirittura non sa leggere, eppure siede, con un libro in mano, tra animali che le si avvicinano senza timore. E se contro la propria famiglia Leonora si era rivoltata con la rabbia cieca che nasce dalla disparità di forze e dall’impotenza infantile, la ribellione nei confronti del nuovo “padre” (Ernst aveva quasi trent’anni più di lei, e fama e prestigio gli conferivano un solido ascendente) fu rallentata dai mille lacci dell’amour-passion e dal timore dell’abbandono, poiché l’amante era ancora sposato con Marie-Berthe Aurenche, fragile e bigotta, che, nonostante Max e Leonora convivessero in una casetta nel sud della Francia, continuava a reclamare il ritorno del marito.

Eppure le tracce di una crescente consapevolezza e l’affiorare del rigetto verso il ruolo che le era stato assegnato (“Non avevo tempo per essere la musa di nessuno. Ero troppo occupata a ribellarmi alla mia famiglia e a imparare a essere un’artista”, dirà), si avvertono con chiarezza nei racconti che Leonora aveva cominciato a scrivere proprio a Saint-Martin, “paternamente incoraggiata” da Ernst: una produzione esigua, quella letteraria, se la si paragona alla mole di dipinti, sculture, tessuti, oggetti, gioielli, creati nel corso di una vita lunghissima.

Raccolte per la prima volta nel 2017 in The Complete Stories of Leonora Carrington dalla Dorothy Publishing Project (una piccola casa editrice americana che pubblica solo testi scritti da donne), le venticinque short stories sono apparse in italiano presso Adelphi (“La debuttante”, pag. 179, e. 17, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini), ed è probabile che quelle prodotte negli anni ‘30 riserveranno qualche sorpresa perfino agli appassionati lettori di The Hearing Trumpet (Il cornetto acustico, Adelphi 1984), scritto in Messico quando l’autrice era ormai sulla quarantina. A differenza dei racconti databili fra il 1937 e il 1940, Il cornetto acustico è, infatti, frutto di un sostanziale superamento del surrealismo, come dichiarò l’autrice a Silvia Cherem: “Anche se le idee dei surrealisti mi attiravano, non mi piace che oggi mi classifichino come surrealista. Preferisco essere femminista(…). Inoltre il mio orologio non si è fermato in quel momento, sono vissuta solo tre anni con Ernst e non mi piace che mi costringano nel ruolo di stupida. Non sono vissuta sotto l’incantesimo di Ernst: sono nata con la mia vocazione e le mie opere sono soltanto mie”.

È piuttosto nei racconti appartenenti alla sua “seconda vita” che si intravedono punti di contatto con il romanzo, traboccante di umorismo, di allusioni alla mitologia celtica ed egiziana, di incantesimi e leggende, rituali segreti e bric-à-brac alchemici. Attraverso la vicende di due eccentriche vegliarde, Il cornetto acustico narra il ritorno a un universo retto da un principio femminile (la Grande Madre in tutte le sue incarnazioni, la Dea Bianca di Robert Graves , la cui lettura aveva avuto tanta importanza per Leonora), ed è allo stesso tempo una celebrazione dell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo: uno di quegli insostituibili legami tra donne fondati non solo sull’affinità e l’affetto, ma sul riconoscimento della rispettiva autorevolezza, che, secondo la storica dell’arte Linda Nochlin, permise a ciascuna di “trovare sé stessa”, ma di farlo “insieme”.

Prima di poter scrivere un testo così ricco e profondo e al tempo stesso ilare e lieve, Carrington visse una vera e propria discesa agli inferi: la seconda guerra mondiale, l’internamento dell’ebreo Ernst in campo di concentramento, un folle viaggio senza di lui attraverso la Spagna, dove la longa manus della famiglia la raggiunse per trascinarla, sedata e quasi incosciente, in una clinica per malattie mentali di Santander, in cui trascorse mesi atroci e fu sottoposta a trattamenti inumani (un’esperienza rievocata nel breve e terribile Down Below, apparso in italiano col titolo di Giù in fondo, Adelphi 1979). Solo grazie al matrimonio di convenienza con il poeta e diplomatico messicano Renato Leduc, che le permise di lasciare l’Europa in guerra e di evitare la partenza per il Sudafrica, dove i Carrington intendevano rinchiuderla definitivamente in manicomio, Leonora approdò a quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, il Messico, e là incontrò qualcuno che aveva alle spalle un inferno anche peggiore del suo: Chiki Weiss, fotografo ungherese di poverissima famiglia ebrea, cresciuto in orfanotrofio, scampato al lager tedesco e fuggito a piedi attraverso l’Europa, amico fraterno di Robert Capa, nonché colui che aveva messo al sicuro i negativi di Capa e Gerda Taro contenuti nella famosa maleta mexicana. Non le chiedeva, Chiki, di essere altro che sé stessa, non le era padre ma compagno, riconosceva il suo diritto di vivere a modo proprio, e insieme ebbero due figli amatissimi: il matrimonio durò sessantaquattro anni, anche se ciascuno fece i conti sino alla fine con le proprie cicatrici.

Leonora, dunque, era stata una bambina furibonda, una ragazza ribelle, una musa riluttante, una prigioniera dell’istituzione psichiatrica, per poi rinascere a nuova vita, dopo la morte simbolica provocata dal Cardiazol e la fine del rapporto con Ernst. Ma non si era mai piegata a niente e a nessuno, e, sentendosi “l’autrice di un’altra realtà” più che una surrealista, aveva cominciato a lavorare su un immaginario femminile e femminista, sul rapporto tra le donne e i segreti perduti che desiderava recuperare e a proposito dei quali scrisse, nel ‘76: “Le donne non dovrebbero reclamare i loro Diritti. I Diritti erano lì sin dal principio, quello che dobbiamo fare è Recuperarli di Nuovo, includendo i misteri che ci appartenevano e che furono violati, rubati o distrutti, lasciandoci con l’ingrato compito di compiacere il maschio della nostra specie”.

Come la sua pittura, i suoi scritti, spesso “a chiave” e ispirati da quel che le accadeva o dalle persone che incontrava, amava, odiava, si popolano di personaggi femminili così decisi a conquistare o salvaguardare l’indipendenza, da pagare volentieri il prezzo dell’isolamento e del rifiuto, o da affrontare la morte. I primi racconti si rifanno ai ricordi d’infanzia e adolescenza, e sono una feroce parodia dell’alta società inglese, oltre che una sorta di allegorica vendetta nei confronti dei genitori. In La dama ovale assistiamo alla metamorfosi della giovane Lucrezia, che in forma di cavallo si rotola nella neve, e alla messa in scena della rottura con un padre crudele, ma in fondo anche di quella con Ernst: entrambi tentano di “contenere” la fanciulla artista, uno attraverso rigide norme sociali, l’altro rinchiudendola nel ruolo di bambina da manipolare con l’offerta di una libertà illusoria.

In La debuttante, Leonora esibisce il suo rifiuto per l’imposizione di una femminilità “accettabile”: al ballo organizzato in suo onore viene sostituita da una iena, che ne indossa gli abiti e nasconde il muso sotto il volto di una domestica sbranata per l’occasione. Macabra e sinistramente umoristica, la storia esprime anche un’estraneità profonda, che oppone alla “civiltà delle buone maniere” l’irruzione di un elemento selvaggio e incontrollabile, espresso dal tremendo odore dell’animale, pronto a fuggire dalla finestra dopo aver divorato la faccia-maschera. Esiste un autoritratto del 1938, oggi al Metropolitan Museum, in cui La dama ovale e La debuttante sembrano incrociarsi: davanti a una Leonora dalla chioma indomabile e dall’aspetto androgino sta una iena che espone mammelle esageratamente femminili, quale provocatorio insulto al “buon gusto”; in alto, appeso alla parete, l’amato cavallo a dondolo che, nel racconto, il padre di Lucrezia brucia senza pietà, mentre all’esterno, inquadrato dalle tende dorate di una finestra, un cavallo bianco (Leonora?) corre libero, senza briglie né sella.

L’ordine reale e Zio Sam Carrington sono invece due autentici sberleffi, uno al potere esercitato con un’assenza di scrupoli che sfocia in un cruento e comico regicidio, e l’altro all’ipocrisia della buona società, con due impeccabili zitellone pronte a eliminare i parenti impresentabili della gente comme il faut. Vola, piccione!, Le sorelle o Il settimo cavallo sono invece visioni oniriche riferibili al rapporto con Max Ernst, in cui le protagoniste vivono in un mondo claustrofobico nascondono la loro autentica personalità per compiacere un personaggio maschile più anziano, riflettendo le sensazioni della Leonora reale; in Le sorelle, per esempio, Drusilla, innamorata alla follia dell’ex re Jumart, tiene prigioniera la sorella Juniper, candida vampira alata che però riesce a fuggire: e mentre Drusilla è tra le braccia di Jumart (la cui testa è ornata, in modo più che significativo, dalla carcassa di un pavone), Juniper banchetta col sangue di una servetta e poi vola nel cielo notturno, verso la luna… Nel delirante, sensuale e fiabesco Mentre andavano lungo il margine si percepisce invece l’eco del timore di perdere l’amante, e la femminilità sfrenata di Virginia Fur, “donna selvatica”, quasi una dea della natura seguita da un corteggio di animali, infuria contro il trasparente alter ego di Marie-Berthe e dei suoi amici ecclesiastici. È in Un uomo innamorato, poi, che possiamo trovare una spietata presa in giro del maschilismo surrealista: le due donne della storia – una ladra di meloni e una moglie che si consuma in una sorta di animazione sospesa – sono ridotte al silenzio, la prima in quanto ascoltatrice coatta, la seconda in qualità di cadavere vivente, vittima della cecità e del letale talento del marito.

In Il settimo cavallo, del 1940, l’animale totem di Leonora appare per l’ultima volta, e con esso scompaiono per sempre la femme-enfant e il suo latente desiderio di fuga: a prenderne il posto è la donna artista, che ha sciolto il legame tra il proprio nome e quello di Ernst. Una rinuncia al passato che in L’attesa, scritto nel periodo trascorso a New York, quando la coppia Carrington-Leduc si incontrò con quella formata da Ernst e Peggy Guggenheim, viene dolorosamente accettata (il passato può morire, “se il presente gli taglia la gola”).

I racconti “messicani”, come Le mie mutande di flanella, Un uomo neutro, Mia madre è una vacca, Una favola messicana e pochi altri, mostrano come la cultura locale abbia arricchito Leonora, contribuendo alla nascita di una mitologia personale fitta di simboli arcani, già favorita da un forte interesse per l’alchimia e dall’inestinguibile impronta celtica. Carrington continua a scrivere storie in cui animali, creature fantastiche, mostri e spettri (tra i suoi autori preferiti c’era, non a caso, Montague Rhodes James) convivono con gli esseri umani, la realtà è capricciosamente mutevole, la natura enigmatica, densa di meraviglie e a volte minacciosa: racconti ancora pieni di ombre, di personaggi con un’identità ibrida, di provocazioni, della presenza frequente e quasi amichevole della morte, ma resi meno foschi da un’accentuata ironia e dall’esercizio di una aperta comicità.

Sempre concisa, spesso violenta e poetica, basata su libere associazioni di immagini, la prosa di Carrington sostiene a perfezione storie che, sfidando la logica e le strutture convenzionali del narrare, non si curano di arrivare a una conclusione e sciorinano un patrimonio di autocitazioni pittoriche e letterarie, da Alice all’antichissima collazione di enigmi e parabole contenuti nelle “Venticinque storie dello spettro del cadavere” della tradizione indiana. L’accostamento che viene spontaneo leggendo queste short stories, mai veramente prese in considerazione da una critica forse spiazzata dalla lingua irregolare e dalla ruvidezza della scrittura, è quello con un autore che probabilmente Leonora Carrington non ha mai conosciuto né letto, ossia Juan Rodolfo Wilcock (del quale, certo, non possedeva l’eleganza e la perfezione di stile e linguaggio), ma anche con Marosa di Giorgio, poetessa uruguayana creatrice di ibridi e mostri. La tardiva apparizione di questo corpus sorprendente – da leggersi avendo sott’occhio i quadri di Carrington, per la quale raccontare dipingendo o scrivendo era quasi la stessa cosa – potrà forse attirare la dovuta attenzione su una delle più straordinarie e insolite artiste vissute a cavallo tra gli ultimi due secoli, ampiamente rivalutata, finora, solo come pittrice e scultrice.

Peccato, però, che l’edizione Adelphi non contenga alcune informazioni che avrebbero interessato i lettori: sorvola, per esempio, sul fatto che Leonora scrisse alcuni dei suoi racconti in inglese, altri in francese, lingua comune tra lei e Ernst, altri ancora in spagnolo, e che i testi in queste due ultime lingue contengono errori di ortografia e sintassi, ognuno dei quali aggiunge sapore a storie già di per sé stravaganti (Henri Parisot, suo primo editore, si guardò bene dal correggerli). Non vengono neppure segnalate la datazione dei racconti (tre dei quali inediti) e il fatto che i cinque raccolti nella plaquette La dame ovale (Editions GLM, 1939) fossero illustrati dai collages di Ernst, il che inserisce il libriccino in una pratica estetica cara ai surrealisti, quella della collaborazione interartistica. Sono proprio i collages a permetterci di misurare ancora una volta la natura del rapporto tra Ernst e Leonora: nessuna delle immagini ha il minimo rapporto con i racconti, e rinvia invece ad altre opere del pittore. Questo totale scollamento tra segno e scrittura, forse voluto, forse casuale, non può non apparire come un’altra manifestazione di amorosa condiscendenza da parte del maturo mentore verso la sua incantevole femme-enfant. Quando si ritrovarono, prima a Lisbona e poi a New York, si sa che Ernst chiese a Leonora di restare con lui, ma inutilmente: lei si disponeva ormai a vivere un’altra vita, in un paese che l’avrebbe adorata, dipingendo instancabilmente e sognando “di vivere almeno fino ai cinquecento anni, e poi morire per evaporazione”.

  

Questo articolo è apparso sulla rivista on-line Alfabeta 2 nell’ottobre del 2018

 


martedì 15 ottobre 2019

Da leggere: Nicanor Parra


Nicanor Parra


L’antipoesia di un funambolo centenario 

Professore di letteratura ispanoamericana all’Università di Madrid, poeta e saggista, l’inglese Niall Binns è stato, insieme a Ignacio Echeverrìa, curatore dei due volumi di Nicanor Parra. Obra completa & algo + (Galaxia Gutenberg, 2006-2011), nonché di testi e antologie dedicati al grande cileno, il cui corpus poetico, così ricco di sorprese, sembra ancora capace di eludere con un guizzo il bisturi dei critici. Ed è Binns a ricordarci, in uno scritto recente, la vitalità dell’uomo e del poeta: “La vecchiaia di Nicanor Parra (morto nel gennaio del 2018 a 103 anni) è doppiamente interessante: da una parte pochi poeti – e forse nessuno – hanno vissuto altrettanto; dall’altra, non ha mai abbandonato la scrittura, né la scrittura lo ha abbandonato”.

Carico di riconoscimenti e di onori e da tempo ritirato nell’eremitaggio di una casa sul mare, nei suoi ultimi anni Parra ha pubblicato una personalissima traduzione di Re Lear, una brillante raccolta di versi nati per sostituire i discorsi delle occasioni ufficiali (Discursos de sobremesa, 2006), l’imponente catalogo di una sua mostra di poesia visuale, l’inedito poemetto Temporal, scritto durante la dittatura, e infine El último apaga la luz (UDP 2018), amplissima selezione di testi cui ha lavorato sin quasi alla fine. Proprio dalle cinquecento pagine di quella ricca antologia nasce L’ultimo spegne la luce (pp. 432, e. 20), uno dei due titoli inaugurali della collana CapoVersi di Bompiani, curato da Matteo Lefèvre che ha compiuto una scelta oculata dei componimenti ed è autore sia della traduzione con testo a fronte, sia della prefazione. Un volume, che, dopo i due brevi “assaggi” proposti da Medusa nel 2008 e da Einaudi nel 1974, presenta finalmente ai lettori italiani buona parte della vasta opera di Parra, muovendo dalla raccolta Poesie e antipoesie per disegnare un percorso poetico segnato da una continua ricerca di rinnovamento.

Nel 1954, all’uscita di Poesie e antipoesie, Parra aveva già quarant’anni e una vita intensa alle spalle: ragazzo povero cresciuto in una zona rurale, con un padre maestro di scuola e numerosi fratelli e sorelle tra i quali spiccava Violeta, cui era legato da un rapporto quasi simbiotico, Nicanor fu l’unico della famiglia a studiare, laureandosi in matematica e fisica; nel ‘43 una borsa di studio lo portò negli Stati Uniti, e nel ’49 un’altra borsa gli permise di specializzarsi a Oxford. Uno scienziato che divenne professore di fisica all’Università di Santiago, insomma, ma che nel 1938 aveva anche pubblicato Cancionero sin nombre, una raccolta di versi ispirata a Garcia Lorca e più tardi considerata un “errore di gioventù”. Poi un duplice silenzio: quello letterario, durato diciassette anni, e quello letterale, provocato da una misteriosa afasia psicosomatica che per qualche tempo lo privò della voce. Alla fine, però, il professor Parra riprese a parlare come a scrivere, preparandosi a sconcertare, incantare o indignare il mondo letterario cileno con la sua nuova e rivoluzionaria antipoesia. Che è poi semplicemente un’altra poesia, in perpetuo ascolto delle voci delle strada e delle conversazioni della gente comune, spiccatamente narrativa, incline alla beffa, al paradosso, all’esplicito erotismo e alla crudezza: una poesia che vuole sovvertire il linguaggio, decostruire la forma e mostrare la vita com’è, proponendosi quale “cronaca dell’uomo moderno”, senza per questo presentarsi come facile, perché l’apparente semplicità è carica di significati e allusioni, mentre l’umorismo quasi metafisico semina dubbi e coltiva salutari incertezze.

Rafael Gumucio, nella recente biografia Nicanor Parra, rey y mendigo, sottolinea che il poeta era di fatto impermeabile alle grandi narrazioni allora vigenti, ovvero il cristianesimo e il marxismo, ma oscillava tra il dichiararsi hombre de izquierda e l’essere “contro tutto”, rifiutando sempre e comunque militanza e dogmatismi. Parra, in realtà, assegnò a sé stesso il ruolo di “franco tiratore”, l’opposto del “poeta-soldato che non si separa mai dalla sua mitragliatrice”. Le metafore belliche non devono stupire: come scrive Binns in Nicanor Parra y la guerrilla literaria, il nuovo arrivato intendeva stringere d’assedio l’egemonia dei tre grandi “padri” locali, ovvero Vicente Huidobro (“la poesia del piccolo dio”), Pablo de Rokha (“la poesia del toro furioso”) e soprattutto Pablo Neruda (“la poesia della vacca sacra”), con il quale avrebbe ingaggiato un duello trentennale, per non essere sopraffatto da quella che Harold Bloom chiama “angoscia dell’influenza”, inevitabile in un poeta più giovane, sovrastato dall’ombra divorante del vate nazionale e futuro premio Nobel.

Altri erano i nomi che Parra, distruttore di miti, esibiva quali punti di riferimento. Alcuni (come Lorca e Whitman) vennero subito rinnegati, altri lo accompagnarono a lungo: Aristofane, Luciano, Chaucer, Cervantes e perfino Charlie Chaplin... Ma prima di tutto venivano Kafka (“il mio maestro assoluto”) e la poesia popolare, quella dei puetas che si esprimevano in musica come sua sorella Violeta e che gli erano familiari sin dall’infanzia. L’influsso di quei versi antichi e sonori emerge di continuo, da Sermoni e prediche del Cristo d’Elqui, uno straordinario poemetto degli anni ’70, alla Cueca Larga del 1958, esclusa dal volume Bompiani; ma se ne trovano tracce nel lessico, nei personaggi, nella metrica, a testimoniare non solo il rimpianto per la cultura contadina da parte di chi aveva optato con decisione per la metropoli, ma anche l’inclusione dei registri più diversi nell’antipoesia, alla quale Parra assegnò di continuo forme nuove, per timore che diventasse una formula.

Nacquero così le Hojas de Parra, distribuite come volantini prima di essere raccolte in volume, e gli Artefactos Visuales, cartoline sulle quali erano impresse brevi frasi in cui la scrittura, già mossa in altri testi da segni e abbreviazioni che sembrano annunciare con infinito anticipo quelli degli SMS, si intreccia a immagini stilizzate, attingendo a slogan pubblicitari e politici, al gergo, alle frasi fatte di radio e TV, alle scritte sui muri, agli argomenti del giorno: una sorta di twitter ante litteram, nelle mani però di un visionario sarcastico che ricava dalla cultura di massa acidi lampi di poesia. E poi ecco Graffiti from the Mausoleum of Ezra Pound, versi distribuiti senza ordine alcuno sulla pagina bianca, trasformata in una sorta di murale.

L’antipoesia, che in L’ultimo spegne la luce è rappresentata nelle sue progressive sfaccettature e metamorfosi e si dispiega in tutta la sua dirompente modernità, è dunque arrivata a disintegrare il corpo poetico, inducendo il lettore a immergersi totalmente in esso per ricrearlo in qualche modo, come il centenario funambolo avrebbe voluto. Forse per questo Ricardo Piglia ha scritto: “Di tutta questa gran tradizione poetica, quello che per me sta al di sopra di tutti è Nicanor Parra: mi sembra un poeta straordinario, uno dei grandi eventi della poesia”.

 

sabato 12 ottobre 2019

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt



Un viaggiatore, non un turista

Nel maggio del 1928, quando cominciò a lavorare per uno dei primi tabloid argentini, Roberto Arlt aveva ventotto anni, una vita tempestosa e precaria alle spalle ed era autore del romanzo Il giocattolo rabbioso, destinato a diventar un classico ma ben poco apprezzato e compreso, all’epoca, dai critici e dai circoli letterari. Dal direttore di El Mundo, Carlos Muzio Sáenz-Peña, il nuovo collaboratore ricevette l’incarico di redigere brevi colonne in cui, da flâneur ruvido e sarcastico, avrebbe disegnato graffianti ritrattini di Buenos Aires e dei suoi abitanti, innestandovi polemiche riflessioni, denunce, invettive, sberleffi. Scritte in uno stile e un linguaggio personalissimi, le Aguafuertes porteñas ebbero enorme successo e Artl conquistò così la popolarità che ancora gli veniva negata da un’opera narrativa tumultuosa nella forma come nel contenuto, aspra, eversiva, carica di ossessioni, di violenza e di critica feroce alla borghesia e al potere.

Non c’è da stupirsi se a un certo punto, temendo l’esaurimento di un filone che aveva fatto raddoppiare le tirature, il direttore decise di trapiantare altrove le Aguafuertes, facendo di Arlt un inviato in territorio argentino, poi in Uruguay e in Brasile, e infine in Europa e in Africa. Fu così che nel febbraio del 1935 lo scrittore approdò in Spagna, per dare inizio a un viaggio che l’avrebbe portato prima in Andalusia e, dopo una visita in Marocco (allora colonia spagnola), in Galizia, nelle Asturie, nel Paese basco, a Madrid, a Toledo e infine a Barcellona, per tornare finalmente in patria nel maggio del 1936, due mesi prima della sollevazione militare contro la Repubblica. El Mundo potè così pubblicare oltre duecento nuove e avvincenti Aguafuertes, inviate quasi quotidianamente per via aerea e corredate da lettere e dalle foto scattate da Arlt, in un bianco e nero che sembra contrapporsi all’abbagliante tavolozza di colori evocata nelle sue pagine.

Nella seconda metà del 1936, l’autore riunì parte dei brevi reportages sull’Andalusia e il Marocco nel volume Aguafuertes españolas, che apparve nel dicembre dello stesso anno e comportò la riorganizzazione e la modifica delle cronache: alcune vennero escluse o riscritte, altre tagliate o ampliate, la cronologia fu alterata e lo stile rivisto con cura, per conferire una solida struttura narrativa a un materiale originariamente destinato al rapido consumo dei lettori. Adesso queste sorprendenti Acqueforti spagnole (pagine 157, e. 15) sono disponibili per la prima volta anche nel nostro paese grazie a Casimiro Libri, editore madrileno che pubblica parte del suo catalogo anche in francese e in italiano; tradotti con notevole perizia da Alessandro Gianetti, i testi vengono commentati da paesaggi, istantanee, ritratti catturati dalla Kodak dell’infaticabile inviato e rappresentano una preziosa novità per i lettori di Arlt o gli appassionati di letteratura di viaggio, oltre che un magnifico esempio di giornalismo letterario.

Sempre fedele a se stesso, prima di partire lo scrittore aveva annunciato che andava in Europa per vivere “tra il popolo e con il popolo”, al contrario degli escribidores borghesi già criticati in un’Aguafuerte del 1928. Lui, invece, voleva mettere “il naso e la testa e i piedi e le mani e tutto il corpo” nella realtà della Spagna proletaria, e per questo si servì dei più comuni (e scomodi) mezzi di trasporto, alloggiò in modeste pensioni, strinse passeggere amicizie, si fermò ad ascoltare storie di vita e aneddoti per le strade e nelle osterie. Le viuzze di Cadice, il ribollire cosmopolita di Tangeri, il biancore assoluto di certi villaggi, le architetture e le feste di un’Andalusia in cui coglieva un’eco medievale e tracce dell’eredità moresca, lo spinsero tuttavia a dedicare più spazio del previsto a paesaggi e monumenti, cedendo inevitabilmente alla curiosità e allo stupore. Non per questo le “Acqueforti spagnole” si possono definire semplici cartoline illustrate, ed è assai discutibile affermare che riprendano le formule più convenzionali della letteratura di viaggio o certi stereotipi “spagnoleschi” fissati nel XIX secolo da Merimée, Gautier o Hugo, perché in realtà Arlt riservò alla cattedrale di Cadice, alla Settimana Santa di Siviglia o ai labirinti biancazzurri di Tetuel uno sguardo che diluiva all’estremo la vernice del pittoresco e si insinuava nelle fessure del colore locale.

L’Alhambra gli appare squallida, il paesetto di Vejer viene scomposto in candide e spigolose geometrie, della festa sivigliana scopriamo innanzitutto l’affanno di un’intera città che lavora alla costruzione di un sontuoso spettacolo collettivo, la scena della taverna marocchina dove gli uomini danzano sensualmente e si scambiano baci profondi sembra testimoniare un’inquietante alterità, e tutto questo, insieme alle stordenti elencazioni di quanto viene visto, annusato e ascoltato, o al frequente confronto fra l’immobile miseria spagnola e il relativo benessere argentino, induce a pensare che le Acqueforti siano anti-cartoline in cui si misura la distanza tra la realtà e un’immagine costruita grazie a letture, musica, dipinti, film, fotografie. Tra le meraviglie di un paesaggio e lo splendore di un monumento, Arlt si concentra su ciò che si era proposto: dare conto della situazione di un paese ancora arcaico eppure rivoluzionario, pieno di contraddizioni, timori e speranze. Gli operai di Cadice che indossano la tuta blu anche di domenica, senza travestirsi da borghesi come i lavoratori argentini, i pescatori di Barbate con i quali condivide una dura giornata in barca (“I minatori, i pescatori e i contadini sono la gloria proletaria della Spagna, la violenza inestinguibile che il fucile omicida della polizia non potrà mai soffocare”), le torme dei mendicanti granadini, l’infanzia che lavora undici ore al giorno nelle botteghe di Tangeri, le gitane “abominevolmente travestite da gitane” a uso dei turisti, e che solo dopo molte resistenze gli si riveleranno per come sono davvero… Alla lucida indignazione di Arlt non sfuggono lo sfruttamento dei bambini, le terribili condizioni di lavoro e soprattutto la condizione delle donne, quasi un leit-motiv delle Acqueforti: braccianti oppresse dal doppio giogo della Chiesa e del latifondo, sivigliane in “libera uscita” solo una volta l’anno, oppure, in Marocco, contadine trasformate in bestie da soma (“all’improvviso penso che la notte in cui una contadina dà alla luce, e dal suo ventre nasce una figlia, la donna deve piangere amaramente per aver messo al mondo un’altra bestia”) e ragazze portate a sposarsi in gabbie ben chiuse, come “prigioniere e martiri”.

Dopo quindici mesi di un viaggio che sembra accompagnare, tra l’altro, una svolta nella sua opera – dopo il ritorno dall’Europa non scriverà più romanzi, ma solo teatro e racconti, in alcuni dei quali si percepisce un sottile scivolamento verso il fantastico –, lo scrittore se ne andrà con tristezza e raramente, in seguito, evocherà quei giorni, limitandosi ad affermare: “… mi si spezza il cuore a parlare della Spagna e ricordarla com’era, sapendola così straziata”. E solo ottant’anni dopo, quando le cronache sulle diverse regioni spagnole verranno pubblicate nella loro integrità e in un unico volume, sarà davvero possibile rendersi conto che Arlt, viaggiatore (e mai turista) stregato da un mondo nuovo, è stato soprattutto un sensibile, attentissimo testimone capace di restituirci da un punto di vista diverso dal consueto l’intensità del conflitto sociale e politico sul punto di esplodere e di cancellare, infine, l’utopia repubblicana.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019.