venerdì 22 novembre 2019

Da leggere: Eduardo Mendoza



Eduardo Mendoza

La città dei prodigi

Barcellona: una città chiusa tra il mare e la cerchia delle montagne, che ha conosciuto “anni di splendore e secoli grigi” e che, in balìa di ricorrenti forze centrifughe, pare da sempre impegnata nella costruzione di un’identità collettiva capace di sancire una volta per tutte la sua differenza. Uno spazio urbano concreto e insieme un luogo dell’immaginario, in apparenza offerto senza riserve allo sguardo dei rari viaggiatori e alla piaga biblica del turismo, ma in realtà pieno di segreti, zone buie e antiche contraddizioni, riflessi in un presente che sembra riassumersi nella profonda lacerazione del tessuto sociale provocata da nazionalismi opposti e speculari.

Le barricate, i roghi e le rivolte che in questi ultimi mesi hanno scatenato un’ininterrotta serie di “azioni e reazioni” sono tutt’altro che estranei, però, alla storia della capitale catalana, che in passato ha conosciuto ben altre violenze e ben più sanguinose esplosioni di furore; ce lo ricorda ancora una volta La città dei prodigi (DeA Planeta pag. 509, e. 18), romanzo del 1986 in cui uno dei più grandi scrittori spagnoli contemporanei, Eduardo Mendoza, compie una singolare ricostruzione delle vicende di Barcellona tra il 1888 e il 1929, gli anni delle due Esposizioni Universali che ne rivoluzionarono l’economia e l’immagine. Vasto e originalissimo affresco che, insieme a La verità sul caso Savolta (romanzo d’esordio dell’autore, pubblicato nel 1975), ha segnato l’avvento della postmodernità nella letteratura spagnola, La città dei prodigi riappare dopo una lunga assenza nelle librerie italiane, e, riletto nell’eccellente traduzione di Gina Maneri, conferma la qualità di una fabulazione straordinaria che elude sia il realismo sociale della posguerra, sia lo sperimentalismo degli anni ’70.

Partendo da una minuziosa documentazione sulla quale si innestano innumerevoli storie e personaggi, lo scrittore racconta la storia di Onofre Bouvila, nato nella Catalogna “selvaggia, cupa e rozza” dell’interno e approdato appena tredicenne a quella “prospera, luminosa, gioviale e un po’ pacchiana” della costa. In fuga dalla miseria più estrema, il giovane Onofre sarà distributore prezzolato di volantini anarchici tra gli operai impegnati nei cantieri della prima Esposizione, quindi venditore truffaldino di lozioni per capelli, poi delinquente e capobanda, infine ricchissimo speculatore edilizio, audace pioniere del cinema muto e deus ex machina dei più loschi affari cittadini, che durante la seconda Esposizione si inabissa in mare su un’avveniristica macchina volante, entrando definitivamente nella leggenda.

Bouvila, però, non è l’unico protagonista, perché la sua vita è indissolubilmente legata a quella della città, “personaggio” di pari (e forse maggiore) importanza: una Barcellona dipinta all’inizio come provinciale, quasi dimentica di un passato glorioso e incerta sul proprio futuro, ma presto rivoluzionata dal progetto di Ildefonso Cerdá, che, ispirandosi al francese Haussmann, demolisce le vecchie mura, disegna nuovi quartieri, apre ampi e lunghissimi boulevard per rispondere al desiderio di ordine e modernità di un’industriosa borghesia in perenne polemica con l’ostile e miope governo centrale, ma pronta a stabilire con esso lucrose complicità. Al nuovo frenetico sviluppo cittadino corrisponde il crescente potere di Onofre, che diventa milionario grazie a uno spregiudicato uso della violenza, si imparenta con una famiglia della buona società (una società profondamente classista che non lo accetterà mai del tutto) e si serve a proprio vantaggio di ogni occasione, comprese quelle offerte dal consolidarsi di correnti ideologiche diverse – socialismo, positivismo, catalanismo, anarchia – e dalla tensione costante tra sfruttatori e sfruttati, che sfocia in sanguinose rivolte operaie.

Accanto alla Barcellona dei ricchi, dei progetti modernisti, del noucentisme, vive quella dei bassifondi, del porto, dei miserabili quartieri di baracche abitati da manovali e operai immigrati, del sordido Barrio Chino, sorta di cloaca a cielo aperto dove allignano povertà, epidemie e prostituzione: due volti della città che si riflettono in Onofre, outsider la cui sontuosa facciata borghese occulta trame delittuose sempre più spericolate, delle quali i commercianti, gli industriali e le autorità sono di volta in volta vittime e corresponsabili.

Mendoza intreccia fatti reali a episodi di pura fantasia, si concede sapienti digressioni che inseriscono nuove trame in quella principale, crea con estrema libertà irresistibili leggende urbane (apparizioni di santi, statue che scendono dal loro piedistallo, un Gaudí trasformato in accattone delirante e quasi folle), esibisce citazioni e documenti sia autentici che fasulli, accosta indimenticabili personaggi del sottobosco criminale a ben più feroci esemplari delle classi dominanti e mette in scena figure come l’imperatrice Sissi, Pablo Picasso, Mata Hari o Rasputin, che sfiorano inverosimilmente l’esistenza di Onofre. E soprattutto pone la Storia al servizio della narrazione, incrociandola con generi diversi: guide turistiche, manuali scolastici, feuilletons, noir, gotico, avventura, il tutto sostenuto da quella che si può considerare la struttura portante di gran parte dei romanzi mendoziani, ovvero il poliziesco.

Oltre alla presenza della letteratura popolare, però, è percettibile anche l’eco di Cervantes, del romanzo picaresco e delle grandi narrazioni ottocentesche, da Galdós – fonte ininterrotta di ispirazione – a Dickens, e tutto viene illuminato dall’ironia, da un umorismo satirico e parodico che a volte richiama quello surreale di Valle-Inclán e che, insieme a un linguaggio dai molti registri (la parlata popolana, il gergo criminale e quello giuridico e burocratico, i catalanismi, il modo di esprimersi tipico dei diversi personaggi), rappresenta un vero e proprio “marchio di fabbrica” dell’autore. Un prodigioso pastiche, insomma, una macchina narrativa dal funzionamento perfetto, giustamente diventata un classico moderno, che racconta il passato ma nel finale ci lascia in qualche modo intuire il futuro, alludendo a una memoria collettiva in cui gli eventi si amalgamano fino a “formare una sola cosa, una catena o una china che conduceva ineluttabilmente alla guerra e all’ecatombe”. Così la sparizione di Onofre, maligno genius loci che incarna le contraddizioni della città, diventa un presagio funesto per l’intera Barcellona, pronta ad avviarsi lentamente verso le speranze deluse della Repubblica e le umiliazioni del franchismo, per rinascere ancora una volta e poi scivolare in una direzione sconosciuta, fra le turbolenze dell’oggi.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2019

 


lunedì 4 novembre 2019

Da leggere: Osvaldo Lamborghini


Osvaldo Lamborghini



Un’allegoria peronista e freudiana 

Un peronista convinto e militante, antiborghese nella vita e nella scrittura, oppure un “populista oligarchico” cinico e in malafede. Un eterosessuale che per provocare usava il rossetto e si firmava “una donna col pene”, o un omosessuale tenacemente occulto. Un rissoso manipolatore gonfio di alcol e psicofarmaci, che secondo un amico come César Aira era invece un gentiluomo dai modi aristocratici. Uno scrittore consapevolmente marginale e clandestino, noncurante della pubblicazione, o un autore angosciato dal difficile accesso al mercato editoriale. In ogni caso e per ammissione unanime, un genio avvolto da una leggenda nera, forse immeritata e artificiosa, che rischia continuamente di divorarne la letteratura.

Al centro di questa selva di contraddizioni, in cui vita e opera si intrecciano inestricabilmente, c’è Osvaldo Lamborghini, nato a Buenos Aires nel 1940 e scomparso nel 1985 a Barcellona, città dove trascorse i suoi ultimi anni in una sorta di reclusione, consacrandosi alla scrittura e a una singolarissima produzione visuale, esibita solo nel 2015 in una grande mostra al Museo di Arte contemporanea della ciudad condal, dall’eloquente titolo El sexo que habla.

Poeta e narratore che in vita pubblicò soltanto tre esili volumetti, a quindici anni dalla morte Lamborghini sembra ancora restìo a lasciarsi canonizzare, nonostante l’edizione postuma dei suoi scritti curata da Aira, l’esistenza di un pubblico di lettori ridotto ma devoto e una vistosa mole di studi critici. Quale seduzione possa esercitare uno scrittore così inafferrabile, ermetico e spiazzante, lo si può ora scoprire grazie alle edizioni Miraggi, che mandano in libreria La pianura degli scherzi (pp. 208, e. 17, a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto), prima traduzione italiana di quattro testi in prosa (della poesia abbiamo avuto un assaggio anni fa, grazie a una breve antologia commentata e tradotta da Massimo Rizzante per le edizioni Scheiwiller ), ovvero Il fiordo e Sebregondi retrocede, apparsi tra il ’69 e il ’73, accoppiati ai più recenti La causa giusta e Le figlie di Hegel.

Il più noto fra tutti è certo Il fiordo, racconto d’esordio che affida a ventidue pagine allucinate la scena di “un’orgia ostetrica” (la definizione è di Alan Pauls), in cui una partoriente viene violentata e quanti le stanno intorno si dedicano a un sesso brutale e allo scempio dei corpi altrui, dipinti come grotteschi e infinitamente malleabili, volumi da modellare, superfici da incidere per rivelarne l’interno. Un’allegoria “peronista e freudiana” che assegna ai nomi una funzione rivelatrice: le iniziali di Carla Greta Terón, la donna in travaglio, formano la sigla CGT (Confederación General del Trabajo), quelle del neonato Atilio Tancredo Vacán rimandano al sindacalista assassinato Augusto Timoteo Vandor, fautore di un peronismo senza il suo caudillo, mentre il nome dell’umiliato Sebas è l’anagramma di bases, cioè dei militanti traditi e ingannati. E se il Loco Rodríguez, sopraffatto e smembrato dai sudditi/seguaci, va identificato con Perón, la lubrica Alcira Fafó impersona Arturo Frondizi, che dà il colpo di grazia al capo tra una pioggia di slogan, peronisti e non.

Lamborghini è già tutto in questo inizio, del quale la sua opera successiva (che, oltre alla poesia e ai racconti, include un romanzo-fiume rimasto incompiuto, Tadeys) costituisce un’evoluzione ben rappresentata in La pianura degli scherzi. Degli anni ’70 è Il bambino proletario, in cui Stroppani, ragazzino povero e vessato dall’istituzione scolastica (la maestra lo chiama Storpiani!, con annesso punto esclamativo) è violato, mutilato e impiccato da tre coetanei borghesi, mossi da puro e dichiarato odio di classe. Alla maturità appartiene invece La causa giusta, narrazione inaspettatamente comica da cui deriva il titolo dell’antologia: in piena guerra delle Malvine l’ingegnere giapponese Tokuro chiama l’Argentina, suo paese di adozione, “la pianura degli scherzi”, un luogo dove l’uso sconsiderato del linguaggio può declinare in atti atroci.

Personaggi simili a sagome stilizzate interpretano i ruoli intercambiabili di vittima e carnefice, uomini dai falli inverosimili – il marchese di Sebregondi ha “un membro sottile di cinquanta centimetri composto da noduli-falangi” – e infine un diluvio di sangue e feci, sono i materiali attorno ai quali si articola una scrittura magistrale e magnetica. Sfiorando a volte l’illeggibile, Lamborghini apre nel suo teatro della violenza improvvisi squarci lirici, intreccia sarcasmo e parodia, mescola i generi sessuali e letterari, ma soprattutto esplora il nesso tra corpo, sessualità e politica, inducendo P, il filosofo Paul B. Preciado, a sottolinearne l’affinità con Sade, poiché entrambi utilizzano “il linguaggio pornografico per descrivere le forti trasformazioni politiche in cui si trovano immersi”.

Preciado include dunque Lamborghini nel proprio discorso biopolitico sul cittadino come “corpo desiderante” e sullo Stato quale “dispositivo camuffato di produzione e costruzione libidinale”, mentre Néstor Perlongher, anche lui sensibile al tema del desiderio, ingloba l’autore di Il bambino proletario nell’universo del neobarroso (termine in cui si fondono barroco e barro, ossia fango), da lui teorizzato; quanto a César Aira, sembra attribuire all’amico genealogie e procedimenti che sembrano destinati, in realtà, a illustrare e legittimare la propria personale scommessa letteraria. E le interpretazioni, com’è ovvio, non finiscono qui: sentieri diversi quanto numerosi affluiscono verso uno scrittore molto studiato ma ancora oggi poco letto, cui Ricardo Strafacce ha dedicato nel 2008 una monumentale e splendida biografia, mappa di un complesso universo esistenziale e letterario.

Se Lamborghini resta un autore unico, senza discepoli né seguaci, per il quale non sempre è possibile stabilire filiazioni e influenze a parte quelle da lui stesso dichiarate (in Le figlie di Hegel ne esplicita alcune, spesso inattese), alcune costanti lo avvicinano ad altri scrittori della scena argentina. La prima è la vena di crudeltà già presente in un testo fondativo come El matadero di Echeverría (il cui fulcro è il tentato stupro di un giovane avversario del generale Rosas) e che trova poi interpreti quali Cambaceres, Arlt, Bioy Casares e Borges con il loro La fiesta del monstruo, fino a Laiseca, Fogwill, al Gracias del giovane Pablo Katchadjian. Una crudeltà che nei testi giovanili dell’autore – come in La condesa sangrienta di Alejandra Pizarnik, scritto nei medesimi anni – acquista una sinistra qualità profetica: la sottomissione e lo strazio dei corpi, l’orgia di sangue, il martirio del “bambino proletario” possono apparire come un riflesso, fattosi arte, della violenza di allora (la Triple A di Lopez Rega, il massacro di Ezeiza, i sequestri), ma soprattutto sembrano annunciare la violenza inarrivabile della dittatura e lo sterminio di un’intera generazione.

La seconda costante è il fil rouge della politica e della militanza, rielaborato però nei termini dell’avanguardia fiorita in Argentina tra gli anni ’60 e il colpo di Stato del ’76, della quale Lamborghini fu uno degli esponenti di spicco (era, tra l’altro, membro fondatore della rivista Literal, avamposto lacaniano in Argentina). Più tardi, quando la politica non sarà che una ferita rimarginata a stento o un profondo e ineliminabile senso di stanchezza, un Lamborghini "con i capelli bianchi" dichiarerà in Le figlie di Hegel la resa su ogni fronte, la vanità di ogni illusione: “… per scoprirlo si passa per guerre e rivoluzioni. Per scoprirlo, senza poter rispondere, perché magari non ci sarà di che rispondere, perché forse: non bisogna rispondere. A parte la pazzia, la malattia, non ce n’è per niente e per nessuno, come si suol dire (l’arte no, non più: da Céline in poi sappiamo che l’arte è opera – sopraffina – di editori, commercianti, produttori di ogni genere e razza)”.

Solo a una battaglia lo scrittore argentino non metterà mai fine, quella con il linguaggio del quale tenterà di infrangere le resistenze e i limiti, forzandolo a contenere tutto: il lunfardo, i neologismi, la gauchesca, lo stile colto, gli arcaismi, una fitta trama di citazioni nascoste e giochi di parole, la ricerca di un nuovo senso e la rinuncia a esso, le distorsioni sintattiche, gli spazi vuoti, una punteggiatura irregolare e sincopata.

Non è un caso, dunque, che La pianura degli scherzi sia introdotto da una lunga nota dei bravissimi Barca e Montalto sulla sfida di rendere in italiano un simile virtuoso della lingua: la loro è una piccola lectio magistralis sull’arte di tradurre l’impossibile, che – oltre a fornire numerose piste di lettura – racconta le ragioni di una scelta audace, quella di restituire una parte di Sebregondi retrocede alla sua originaria forma poetica, volta in prosa solo per l’insistenza dell’editore. Ed ecco che la nuova scansione delle frasi proietta sul testo una luce improvvisa, ce lo avvicina: un esperimento eterodosso ma riuscito, che ci offre nuove e affascinanti possibilità.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019