martedì 8 dicembre 2020

Da leggere: Pedro Lemebel

Pedro Lemebel


Il giovane Lemebel

Sono passati quasi sei anni dalla morte di Pedro Lemebel, artista visuale, scrittore e soprattutto autore di cronache, forma narrativa da lui reinventata come “un insieme di ritagli, di materiali bastardi, un pastiche di canzone popolare, testimonianze e voci della strada (…) una corazza poetica davanti ai poteri della letteratura e del giornalismo”. Qualcuno che ha usato il corpo come barricata contro il potere, dinamitando una cultura trasversalmente maschilista (impossibile dimenticare le scarpe di vernice rossa dal tacco vertiginoso, posate sulla sua bara insieme alla bandiera del partito comunista) e attaccando con furia da “guerrigliera suicida” la cancellazione della memoria e il disastro neoliberista.

La sua presenza/assenza si è più che mai fatta sentire attraverso murales e scritte comparsi nelle strade di Santiago durante il cosiddetto estallido social dei mesi scorsi: una devota memoria “di strada” cui si aggiungono recenti profili biografici, nuove letture critiche della sua opera, raccolte di interviste, uno splendido documentario di Juana Reposi Garibaldi premiato alla Berlinale del 2019 e il film Tengo miedo torero, presentato quest’anno a Venezia, lodato da alcuni e considerato da altri una versione “decaffeinata” del romanzo da cui è tratto (l’unico di Lemebel, a lato di sette raccolte di cronache).

Non mancano, ovviamente, i recuperi postumi di testi inediti o poco noti, per una volta tutt’altro che inutili o deludenti: all’affettuoso libretto Mi amiga Gladys dedicato a Gladys Marín, defunta segretaria del partito comunista, è seguito due anni fa Incontables, raccolta di racconti giovanili pubblicata ora in italiano da Edicola Ediciones, (Irraccontabili, traduzione di Silvia Falorni, pp. 112, e. 15), con le stesse illustrazioni in bianco e nero dell’autoedizione in trecento esemplari del 1986, composta da sette racconti stampati su carta da pacchi e racchiusi in una scatolina di cartone da imballaggio.

Il volume include altre due storie e tre microracconti apparsi in antologie e riviste, oltre a una bella introduzione di Pía Barros, ottima scrittrice cilena fieramente femminista, che disegna il ritratto a tutto tondo di un ragazzo cresciuto in un poverissimo quartiere popolare, ovvero Pedro Mardones, giovane professore di liceo presto licenziato, presenza assidua nei laboratori di scrittura, venditore ambulante di piccolo artigianato, poeta che avrebbe rinnegato i propri versi, scrittore debuttante intento a confezionare insieme a Pía quel suo primo libro-oggetto.

Nati nella Santiago della dittatura, tra coprifuoco e repressione poliziesca, i racconti contengono già i temi, i personaggi, le voci e gli sfondi urbani caratteristici dell’opera di colui che, rinunciando al cognome paterno per adottare quello della madre, sarebbe diventato Pedro Lemebel, pronto a lanciarsi in memorabili performances e a produrre il suo primo, meraviglioso libro di cronicas, La esquina es mi corazón, nel quale, scrive Soledad Bianchi, “inaugurò uno stile letterario dal linguaggio critico, caustico e audace, creando nuove strutture a partire dal colloquiale e dal reincontro con le radici profonde della parlata popolare”.

Se la scrittura non è ancora quella sontuosa e stupefacente delle cronache, non c’è dubbio che nei racconti si intravedano il tono lirico e dolente e l’ansia di denuncia della futura proposta di Lemebel, così lontana dalla letteratura della Transizione, pronta a nascondersi “sotto il lenzuolo bianco dell’amnesia”. Passando da un Babbo Natale pedofilo a un vescovo lascivo, dal brillare di un dente d’oro nella bocca di una prostituta a una vecchia a caccia di ragazzini, dalle violenze dei militari a reazioni estreme e testarde, Irraccontabili narra con sorprendente perizia i sogni irrealizzabili dei poveri, gli adolescenti indifesi e crudeli delle periferie, i corpi logorati, gli orizzonti fangosi delle poblaciones, una quotidianità fatta di esclusione e paura. Un altro Lemebel, diverso eppure riconoscibile e non meno affascinante, che prepara l’irruzione sulla scena sociale e letteraria cilena della loca intesa come soggetto politico ed eversivo, decisa a esplorare le vie di una resistenza sempre più esplicita e rabbiosa.
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2020

Da leggere: Diamela Eltit


Diamela Eltit


La merce, dio oscuro

Una ragazza vestita di nero, armata di secchio e straccio, si inginocchia davanti a uno dei più miseri bordelli di Santiago del Cile e comincia a lavare il marciapiede. Poco prima ha letto, davanti ad un piccolo pubblico composto da prostitute, brani del romanzo che sta scrivendo (uscirà nel 1983 e si chiamerà Lumpérica), imperniato su un corpo femminile torturato ed esposto al centro di una piazza crudamente illuminata. Siamo nel 1980 e la donna si chiama Diamela Eltit, nata trent’anni prima a Santiago e membro del CADA (Colectivo Acciones de Arte), che, in una città schiacciata dalla dittatura, organizza performances provocatorie come questa, intitolata Zona de dolor. “Un gruppo interamente pensato all’interno della sinistra”, dirà anni dopo Eltit, la cui opera letteraria, da tempo considerata la più significativa, complessa e coerente del Cile contemporaneo, si radica proprio nell’esperienza fondante del CADA, stabilendo intensi rapporti con le arti visuali e restando fedele a una sorta di epica della marginalità.

Alla prima parte del romanzo corrispondono otto monologhi recitati dalla voce anonima di uno scaffalista che a poco a poco rivela il controllo cui è sottoposto, racconta l’assillo dei clienti - tra i più fastidiosi: i bambini, consumatori futuri, e i vecchi, che esorcizzano la morte con petulanza -, i turni estenuanti e i tormenti del corpo, costretto a pagare un tributo quotidiano a quell’oscura divinità che è la merce. Denso di ripetizioni, ostacolato da frequenti parentesi, a volte barocco e visionario, altre volte meditativo, il suo linguaggio si adegua al meccanismo che lo ha intrappolato, ma anche alla disintegrazione fisica e alla perdita di identità.

Nella seconda parte del romanzo tutto cambia: ai monologhi individuali si sostituisce una voce che parla a nome di un “noi” tumultuoso e contraddittorio, ovvero di alcuni impiegati del supermercato che ricoprono incarichi diversi e condividono un appartamento per far fronte alle spese, riproducendo le gerarchie, le dinamiche, gli abusi e perfino, in versione degradata e stracciona, l’estetica del luogo di lavoro. I coinquilini vogliono sentirsi, e lo dichiarano, una famiglia che dispensa calore e attenzioni, ma li vediamo via via dibattersi in un groviglio di opportunismi, intrighi, soprusi, proprio come accade tra gli scaffali o alle casse. La prosa inconfondibile di Eltit, che qui scivola per la prima volta verso un realismo grottesco, quasi espressionista, conferisce alla loro vita quotidiana tocchi di parodia esasperata e, a tratti, perfino di angosciosa comicità.

A presentarceli, uno dopo l’altro, è un rosario di lodi affettuose che, quando si affaccia il rischio di perdere lavoro e introiti, diventano minacce di espulsione e gergo osceno. Come il linguaggio, anche i corpi, consegnati per intero al mercato, consumati dalla precarietà e dal terrore di perdere quel poco che consente di sopravvivere, decadono e si corrompono: spurgano sangue e liquidi nauseabondi, oppure assorbono e sprigionano odori mefitici. E se lo spazio domestico replica la vocazione al cannibalismo di quello lavorativo, anche lingua e sintassi si adeguano a una violenza verbale che non destabilizza l’ordine dominante ma ne diventa il riflesso. Nulla, né le delazioni né la supina accettazione delle regole, potrà tuttavia salvarli dal licenziamento e dallo sfratto, a opera di quello che consideravano il loro leader e che è asceso nella gerarchia lavorativa.

Non potranno fare altro, allora, che avviarsi verso un domani ignoto, guidati da un nuovo capo (il più giovane e ribelle fra loro), che ha intenzione di strappare qualcosa al futuro. Un finale che sembra agganciarsi all’ultimo romanzo di Eltit, Sumar (2018), imperniato sulla marcia di un gruppo di venditori ambulanti esasperati dalle privazioni e decisi a rivendicare i propri diritti, e presago dell’immensa protesta iniziata in Cile nell’ottobre del 2019. I personaggi di Manodopera non sono ancora a quel punto, ma basta leggere i paratesti del romanzo (a cominciare dai versi dell’epigrafe, della poetessa argentina Sandra Cornejo: “Qualche volta, per un istante, /la storia dovrebbe provare compassione/ e metterci in guardia”) per rendersi conto che avrebbero a portata di mano una memoria sulla quale riflettere, senza nostalgia né illusioni.

I titoli della due parti del romanzo e degli otto monologhi, infatti, sono quelli di altrettanti giornali dei secoli scorsi destinati alle organizzazioni operaie, ciascuno corredato dalle date di momenti storici significativi (tra tutti, spicca Puro Chile, il combattivo giornale che accompagnò la presidenza Allende e venne chiuso il giorno successivo al colpo di Stato). È evidente che Eltit li sottopone al lettore per stabilire una tensione tra passato e presente; ma, al di là della testimonianza su un’epoca perduta, si intravede un’altra strategia: mettere in discussione il capitalismo a partire da uno scenario testuale in cui ogni piega della forma rappresenti una scelta politica.

Oggi come allora, Eltit (che è anche una brillante saggista e ha alle spalle una lunga carriera accademica) continua a dispiegare strategie narrative sorprendenti e sempre rinnovate, intrecciando un discorso sul potere e i suoi effetti sul corpo, l’identità e le relazioni, a una continua e rigorosa sperimentazione formale, e collegando quel primo audace testo ai successivi, che siano stati scritti nel clima soffocante del regime di Pinochet o durante l’eterna transizione cilena. Il primo romanzo in cui, dopo gli anni della dittatura, Eltit affronta esplicitamente la violenza di un neo-liberismo estremo quanto feroce, è Manodopera (Alessandro Polidoro Editore, pp. 160, e. 16), ora volto in italiano da Laura Scarabelli, traduttrice e acuta studiosa: il suo saggio Escenarios del nuevo milenio. La narrativa de Diamela Eltit 1998-2018 (Cuarto Proprio, 2018) tratta appunto della produzione più recente della scrittrice cilena, in cui affiorano le enormi disuguaglianze del Cile di oggi.

Apparso per la prima volta nel 2002, Manodopera ruota intorno alla rappresentazione di un immenso supermercato e della forza-lavoro che lo abita, trasparenti allegorie di una società dominata dalla collusione tra le tenaci e longeve oligarchie nazionali e i poteri globali. Se il riferimento visivo di Lumpérica era la performance, quello di Manodopera è un palcoscenico con attori terrorizzati dal licenziamento e intenti a recitare meglio che possono, tra merci scadute e rese appetibili da una segreta “cosmesi”. Un vero e proprio teatro della crudeltà, dove l’imbustatore, la cassiera o la squartatrice di polli si esibiscono con abilità da “artisti popolari”, ma anche un panopticon costantemente illuminato e sorvegliato da telecamere, supervisori, colleghi spioni in balìa di un’assoluta precarietà, che non osano concedersi il minimo gesto solidale.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2020

 


venerdì 23 ottobre 2020

Da leggere: Alia Trabucco Zerán


Alia Trabucco Zerán



La letteratura dei figli

Come in Argentina, anche in Cile nell’ultimo decennio è apparsa una considerevole produzione letteraria sui cosiddetti “figli della dittatura”, ovvero, dice Alejandra Costamagna, “una narrativa prodotta da scrittori che non hanno vissuto quelle circostanze sulla propria pelle, ma sono nati in quell’epoca e ne hanno sperimentato gli effetti attraverso la vita degli adulti intorno a loro”. Coloro che un tempo i genitori cercavano di proteggere tacendo, ora tentano di riempire i vuoti lasciati da quei silenzi, adottano un approccio intimo e soggettivo e lasciano capire di non sentirsi a proprio agio con il linguaggio e le narrazioni ereditati: più di ogni altra cosa, infatti, aspirano a esercitare “in proprio” una memoria frammentaria e incerta, piena di lacune, che però è parte ineludibile delle loro biografie e in quanto tale viene interrogata.

La sottrazione, romanzo d’esordio di Alia Trabucco Zerán, pubblicato in lingua originale nel 2015 e ora in italiano da Sur nell’eccellente traduzione di Gina Maneri (pp. 186, e. 16,50), si inserisce a pieno titolo in questo filone, ma con significative differenze che ne sottolineano l’originalità. Nata a Santiago nel 1983, cinque anni prima del plebiscito in cui Pinochet “arrivò secondo pur essendo l’unico candidato”, l’autrice scarta infatti l’autofiction o l’autobiografia ed evade dal realismo che con poche eccezioni (tra esse, la Nona Fernández di Fuenzalida o Mapocho) accomuna la “letteratura dei figli”. Il romanzo sembra inoltre annunciare le sue molte sfaccettature sin dal titolo, che indica sia l’operazione aritmetica – maniacale attività di uno dei protagonisti – sia i tentativi dei personaggi di sottrarsi al danno e alla pesante eredità di un trauma mai del tutto elaborato, e allude anche a tutto ciò che è stato sottratto: affetti, vite, parole, diritti, corpi.

Trabucco ci propone con grande abilità un contrasto di voci: quella delirante di Felipe, incanalata in monologhi interiori vertiginosi e furenti, quasi faulkneriani, senza punteggiatura e racchiusi in capitoli dalla numerazione decrescente che simula un conto alla rovescia, e quella di Iquela, più “ragionevole”, il cui spazio è contrassegnato da due segni di parentesi che non contengono nulla. Per Felipe, immerso nelle sue visioni, Santiago è una morgue a cielo aperto (impossibile non pensare a Néstor Perlongher e al suo terribile poemetto Cadaveres, su un’Argentina rigurgitante di corpi morti e abbandonati) dove defunti spettrali e derelitti appaiono ovunque, alter ego dei desaparecidos, oppure, dice Costamagna, “il loro prolungamento in un paese smemorato, di fragile e dubbia democrazia”. Il ragazzo li registra sul suo taccuino, ma senza sommarli: sottrae invece i cadaveri dalla cifra degli scomparsi, tentando di arrivare a zero, per collocare virtualmente ogni corpo insepolto nella tomba che gli spetta. Figlio di un “morto presunto”, una delle tante vittime della dittatura, Felipe si trasforma così in una sorta di Antigone folle, mossa non dalla pietas ma dall’ossessione e legata da nodi inestricabili a un’infanzia piena di segreti, oscillante tra autolesionismo, crudeltà, giochi inquietanti che inseguono la morte.

A fargli da contrappunto è il racconto di Iquela, traduttrice sempre alla ricerca del termine esatto, figlia di ex militanti che all’inizio ricorda il plebiscito del 1988 e la festa dei “grandi”, mentre lei e la coetanea Paloma, appena tornata dall’esilio in Germania, azzardavano un ingenuo tentativo di ribellione, fumando di nascosto. Orfana di padre, Iquela non sa troncare il legame soffocante con la madre, che da anni rievoca il passato e glielo offre come un dono, spingendo la figlia a trovare scampo nell’ironia, o a estraniarsi contando le cose che la circondano e componendole in lunghi elenchi.

Il romanzo si regge sul rapporto speculare tra i due protagonisti, cresciuti insieme, legati da un debito di sangue – un cedimento del padre di lei, durante un interrogatorio, ha provocato la morte di quello del ragazzo – e, durante l’infanzia vissuta in comune, dai passatempi inventati da Felipe: scomparire, “impiccare” le dita mutate in pupazzetti, collezionare croste, procurarsi ferite. Tra i due, però si inserisce la sensuale ed esotica Paloma, che deve riportare in Cile il corpo di sua madre, morta in Europa e finita a Mendoza, in Argentina, perché su Santiago piovono ceneri che impediscono agli aerei di atterrare. E Iquela e Felipe non ci mettono molto a decidere di accompagnarla in un viaggio macabro, assurdo ed eroico: varcheranno le Ande su un vecchio carro funebre preso in affitto, per poter “rimpatriare” la bara.

La vicenda si trasforma così in un percorso iniziatico il cui premio consiste nelle spoglie di un morto, mentre l’eroe, scisso in tre, cerca non di chiudere una storia, ma di inaugurarne una propria. Un cammino tenebroso e allucinato, il loro, che si conclude con l’immagine stupefacente di un hangar dove si ammucchiano le bare dimenticate di cileni mai tornati a casa. Mentre Felipe fugge verso una follia dilatata da chissà quale droga, che gli offre una visione fiammeggiante, il terzetto si scioglie, non senza porre al lettore più di una domanda: come innestare i propri ricordi su quelli altrui? Come partecipare legittimamente, da un margine nebuloso, a una memoria collettiva composta da fatti, ma anche da costruzioni soggettive? E come servirsi di questa “nuova” memoria per scardinare il presente, in cui vive intatta la violenza di ieri?

Trabucco Zerán caratterizza magnificamente i due narratori (Paloma, figlia dell’esilio, non ha una voce propria) attraverso l’uso del linguaggio, che nel romanzo assume un ruolo da co-protagonista. Come l’autrice, Iquela è ossessionata dalle parole, e, attenta agli errori di Paloma, fa per lei e per se stessa il doppio sforzo di tradurre dal cileno allo spagnolo e dallo spagnolo di un’altra epoca a quello di oggi, quasi a far presente la necessità di inventarsi un nuovo dizionario, ora che il lessico dei genitori (per i quali una cellula non aveva mitocondri e nuclei, e anche spezzarsi o parlare significavano qualcos’altro) è stato svuotato e disinnescato dal presente. Ogni cosa nel romanzo va decifrata e interpretata, tutto è simbolo o metafora: le ceneri, che arrivano da un vulcano in eruzione (o forse dal delirio dei figli, o dalla vendetta dei morti senza tomba), potrebbero rappresentare l’ombra che la dittatura continua ad allungare sul Cile di oggi, incapace di affrontare il disagio e lo scontento che lo attraversano e ancora tenacemente “figlio” delle riforme neoliberiste e di una Costituzione dai numerosi risvolti autoritari, che proprio il 25 di ottobre di quest’anno un nuovo plebiscito dovrebbe sospingere verso una profonda revisione. E il viaggio dei tre non sembra forse invertire l’immagine dei bambini silenziosi sui sedili posteriori dell’auto paterna, presente in tanti “racconti cileni di filiazione”, come ci ricorda Lorena Amaro? Qui, invece, la parte posteriore è riservata ai genitori, al loro corpo morto, e al posto di guida ci sono i figli, diretti verso un futuro del quale, tra cenere e fuoco, non si intravede ancora l’inizio.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020


lunedì 5 ottobre 2020

Da leggere: Amparo Dávila


Amparo Dávila 



Il lato dell’ombra

Bambina nel Messico povero e ancora rivoluzionario di Lazaro Cárdenas, giovane donna in quello proiettato a forza nel capitalismo moderno da Miguel Alemán, scrittrice reticente e schiva, pubblicata tra gli anni sessanta e settanta e poi lungamente ignorata da critici ed editori, Amparo Dávila è scomparsa pochi mesi fa, con la consapevolezza di aver raggiunto nell’estrema vecchiaia un riconoscimento unanime e un pubblico ben più vasto della ridottissima cerchia di appassionati lettori che ne custodivano i libri come reliquie. Prima grazie a una nuova attenzione accademica, poi attraverso la pubblicazione di tutta la sua narrativa da parte del Fondo de Cultura Económica (Cuentos reunidos, 2009), nel volgere di un decennio Dávila si è trasformata in gloria nazionale: giusta resurrezione cui non è estranea quella che si potrebbe definire una prospettiva di genere, come ricorda Alberto Chimal nella prefazione a L’ospite e altri racconti (pp. 137, e. 16,50), breve antologia appena pubblicata da Safarà nella accuratissima traduzione di Giulia Zavagna.

“Non esagero se dico che Amparo Dávila investigava già i meccanismi della macchina femminicida che in Messico uccide e annienta moltissime donne. Un classico è tale quando possiamo leggere il presente attraverso le sue pagine”, ha scritto a proposito di L’ospite Cristina Rivera Garza, romanziera, saggista e critica messicana che dell’autrice si è letteralmente “appropriata”, facendone il personaggio principale, con tanto di nome e cognome, del romanzo Il segreto (Voland 2010). Non a caso, numerosi e recenti studi analizzano alla luce del femminismo i racconti di Dávila (che, al pari di altre grandi autrici latinoamericane, ha prodotto assai poco: tre raccolte in prosa, tre di versi, un saggio), sottolineando sia lo stretto rapporto della sua scrittura con temi quali il corpo, la sessualità, il desiderio, sia il disperato tentativo dei suoi personaggi femminili di sottrarsi agli imperativi e agli stereotipi di una società profondamente patriarcale. Quasi inconsapevole e tuttavia inevitabile, la rivolta ha un prezzo altissimo, che può essere la follia, l’autodistruzione o una violenza di cui le protagoniste non si sapevano capaci: una madre riluttante si dà fuoco per non cedere all’assalto di creaturine striscianti sorte dal suo embrione abortito; due donne terrorizzate si alleano per uccidere un ospite feroce e misterioso, imposto da un marito padrone; il sogno angoscioso di una ragazza si trasforma nella realtà di un cuore strappato…

Lette in questa chiave, le storie sono da intendere come espressione della collera e della frustrazione di chi non può decidere né agire, e sembrano quasi annunciare le voci e le rivendicazioni delle nuove scrittrici latinoamericane, che con sorprendente energia vanno abbattendo gli ostacoli con cui hanno dovuto misurarsi le loro “madri” letterarie. Ma fermarsi a una lettura di genere – peraltro rifiutata dall’autrice, che diceva di “rispettare le opinioni della critica senza condividerle” – è riduttivo almeno quanto adottare l’opinione più largamente diffusa, che vede nell’opera di Dávila un esempio di letteratura fantastica nella sua variante gotica.

Ha ragione Alberto Chimal, quando sostiene che la narrativa della scrittrice messicana si oppone di per sé alle tassonomie critiche e alle classificazioni assolute: la naturalezza con cui combina quotidianità e orrore, riversandoli l’uno nell’altro, e la sua abilità nel servirsi del non detto, la rendono sufficientemente originale da situarla in un territorio di confine, simile a una ragnatela di silenzi ancora parzialmente inesplorata (secondo Irene González, del resto, sarebbe una vera e propria “poetica del silenzio” a caratterizzare la proposta estetica dell’autrice), e suggeriscono piuttosto di affrontarla da una pluralità di prospettive.

Quello di Dávila è un mondo domestico e borghese, concreto e grigio, che all’improvviso vira al nero più cupo: una promessa sposa è chiusa in una cella (prigione, manicomio, il castello di un vampiro?) ad aspettare un visitatore che forse è solo un desiderio erotico represso; due inarrestabili e sadiche creature (scimmie, troll, bambini odiosi?) devastano la casa e la vita di chi le ha ricevute in eredità; la cucina si rivela stanza delle torture, mentre esserini dagli occhi imploranti (alieni, animaletti, bizzarri molluschi?) vengono bolliti vivi per diventare pietanza prelibata; un uomo ricco assiste al proprio funerale (un sogno, una premonizione, un avvertimento?), abbastanza misero da rivelare l’astio della moglie tradita e dei figli oppressi.

In spazi riconoscibili e convenzionali, governati da un malinconico e soffocante decoro, l’autrice si affretta a inserire un elemento perturbante o terrifico: visioni oniriche e deliri, l’insinuarsi ossessivo della morte, la presenza di creature mostruose e indefinite dai vaghi tratti animaleschi (occhi gialli o sporgenti, voce che gracida o ruggisce, rapide zampate, un molle strisciare), ma non prive di inquietanti caratteristiche umane.

La nota di fondo è un’ambiguità resa estrema e destabilizzante da quello che Dávila non ci mostra, da ciò che si rifiuta di dire o di spiegare, dagli “spazi in bianco” che non cancellano la realtà, ma la tingono di minaccia e di incertezza. Per contrasto, la struttura dei racconti è semplice e solida, quasi tradizionale, con rare concessioni a tecniche narrative come la frammentazione o l’ellissi, care agli autori della Generación de Medio Siglo, di cui Dávila non fece realmente parte, non solo per una personale ritrosia, ma anche su consiglio di Alfonso Reyes, figura capitale della cultura messicana, del quale fu segretaria e allieva.

Lo stile essenziale, trasparente, sobrio, con rare venature poetiche, prevede un uso estremamente parco delle descrizioni e qualche rapida, folgorante immagine. Ma questa esibita semplicità è ingannevole e sembra occultare una sorta di corrente sotterranea, di scrittura “invisibile” cui l’autrice ha affidato, forse, le sue più segrete intenzioni: far sì che reale e fantastico si ibridino e si reinventino reciprocamente, obbligando il lettore ad ampliare il concetto di realtà e a includervi “il lato dell’ombra, che sempre ci accompagna”.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020


Da leggere: Irene Solà


Irene Solà


Le voci delle nuvole e dei funghi

Gli scrittori di lingua catalana hanno rappresentato a lungo una sorta di “segreto” chiuso nei confini di una lingua parlata da meno di dieci milioni di persone, soggetta a significative varianti locali e, durante il franchismo, espulsa dalle scuole e relegata all’oralità quotidiana. Da diversi anni, però, con il formidabile sostegno dell’Institut Ramon Llull e dopo aver approfittato della “vetrina” offertale nel 2007 dalla Fiera di Francoforte, la letteratura catalana va sciorinando i suoi tesori in luoghi che praticamente ne ignoravano l’esistenza. Quasi a recuperare il tempo perduto, accanto a classici come Mercè Rodoreda e ad autori contemporanei già affermati, appaiono oggi nelle nostre librerie opere nuove e nuovissime, come quelle di Irene Solà, nata nel 1990, artista visuale, poetessa di talento – Pequod ha appena pubblicato Bestia (pp. 73, e. 12), una raccolta di versi in cui si parla di genere, desiderio e identità - e romanziera di immediato e meritato successo.

Dopo l’esordio in prosa nel 2018 con Els dics, Solà – convinta che scrivere in catalano sia, ora più che mai, anche un atto politico – pare aver raggiunto la piena maturità con Io canto e la montagna balla (ora tradotto da Stefania Maria Ciminelli per Blackie Edizioni, pp. 208, e. 18,90), recente vincitore del Premio dell’Unione Europea per la Letteratura, che va ad aggiungersi ai riconoscimenti già collezionati in patria: un romanzo lontano dalle mode correnti, che sin dalle prime righe rivela una qualità stilistica fuori dal comune.

Nata e cresciuta a Malla, un villaggio ai piedi dei Pirenei, Solà ha studiato e lavorato all’estero, dall’Islanda all’Inghilterra, ma il romanzo ha salde radici nella sua terra d’origine, oltre che nella produzione artistica in cui l’autrice combina fotografia, scrittura, disegno, echi digitali, video che indagano sul rapporto tra realtà e immaginazione e sui confini della comunicazione. Prima di scrivere, si è concentrata su una zona rurale dei Pirenei (Camprodon e Prats de Mollò, alla frontiera con la Francia), esplorando i luoghi, facendo mille domande e indagando su fiabe, leggende e usanze ancora vive, per poi elaborare e accostare storie di esistenze unite dalle tradizioni, dall’isolamento, da presenze ultraterrene accettate con semplicità, dal confronto con una natura durissima, indifferente ma a tratti materna.

Le nuvole, le piante, gli animali, le montagne, le immortali “donne d’acqua”, le guaritrici, i fantasmi, la gente, tutti hanno qualcosa da raccontare e lo fanno in prima persona, con un uso frequente di onomatopee: nella voce delle nubi destinate a trafiggere con un fulmine il contadino-poeta Domènec, si percepisce il peso dell’acqua che gonfia il ventre dei cumuli grigi; il sussurro del capriolo in fuga è fatto di pause e fruscii; il giubilo delle “trombette dei morti”, funghi-femmina che si chiamano l’un l’altro “sorella”, afferma la certezza di una eterna rinascita e annuncia il piacere di chi se li ritroverà nel piatto. E ciascuna delle voci che appartengono a uomini e donne di ogni età, vivi o morti, ha una sonorità, un carattere e un’intonazione tutti suoi, che la definiscono all’istante.

È dalla morte di Domènec, narrata in una brevissima scena iniziale (“L’uomo crollò sull’erba, il prato porse una guancia contro la sua, e i nostri rivoli d’acqua, concitati e contenti, gli si infilarono nelle maniche della camicia, sotto la cintura, nelle mutande e nei calzini, in cerca di pelle ancora asciutta. Morì.”) che si dipana il romanzo, con capitoli simili a tasselli di un puzzle pronto a ricomporsi da solo e pieno di figure situate in punti diversi del tempo e della Storia, ma sempre collegate, sempre vicine. Una morte apre la strada a un’altra (anche il figlio di Domènec muore per un assurdo incidente), una vita chiama vite nuove, il passato non vuole andarsene (spettri quasi tangibili, “streghe” tenacemente presenti benché impiccate secoli prima da uomini ottusi, una scia di ruggine e scarpe rotte lasciata da chi percorse quei sentieri per rifugiarsi in Francia, alla fine della Guerra Civile), ma in qualche modo feconda il presente.

Frammentario nella struttura, il testo è unificato dal ritmo di una scrittura musicale e poetica, dai brillanti incastri fra le varie vicende e dai mille dettagli e immagini che si rincorrono in pagine singolarmente “visive”, per disegnare un ritratto della Catalogna rurale passata e presente, autentica e al tempo stesso reinventata e fiabesca: un minuzioso diorama spazio-temporale che coniuga la modernità con un’identità antica e con tutto ciò che “non si vede”. Evitando le trappole di un realismo magico in versione catalana, dell’idillio campestre o del fantastico più trito, Solà sembra rimandarci a una versione aggiornata e caleidoscopica del “ruralismo” caro ai modernisti e in particolare a Victor Català (alias Caterina Albert), l’autrice di Solitudine (Elliot, 2015), un capolavoro datato 1905 che in Italia è passato quasi sotto silenzio.

Anche se l’estiu mascle – ossia lo stile aspro e rude – di Solitudine e il suo cupo senso della tragedia sono molto diversi dallo slancio gioioso di Io canto e la montagna balla, entrambe le autrici condividono l’interesse per i miti autoctoni, per un’identità e una lingua “originarie”, per la mutevole bellezza del paesaggio. E sono attentissime alla condizione femminile: se Català denuncia la violenza subita dalla sua protagonista e ne rivendica il diritto a una libertà conquistata a caro prezzo, Irene Solà lascia che nel suo libro le donne impongano le loro storie, raccontandosi e rifiutando di “essere raccontate”. Mia che vive col suo cane e il fantasma del fratello, Cristina e la sua compagna Alicia, Carmeta con un braccio solo, Blanca, la encantada incinta di un uomo venuto da lontano, Siò consumata dal lavoro, Neus che “vede” e scaccia le presenze maligne… voci allegre, ironiche, disperate, sagge, beffarde, che parlano in proprio nome e non negano il dolore, ma sanno che può diventare “memoria, sapere, vita”.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020

 

lunedì 28 settembre 2020

Da leggere: José Luis Cancho


José Luis Cancho


Quasi morto e resuscitato

Quando, dopo aver pubblicato quattro romanzi, ha deciso di scrivere di sé e della sua vita, José Luis Cancho avrebbe potuto imboccare strade consuete: la classica autobiografia, la diaristica, il memoir o la sin troppo praticata autofiction, della quale il prolisso narcisismo alla Knausgård rappresenta la versione più estrema. Con I rifugi della memoria (Arkadia, pp. 76, e. 13, ben tradotto da Marino Magliani) lo scrittore spagnolo ha scelto tuttavia un altro percorso, nota Andrés Barba nella prefazione, accostando il libro all’Autoportrait di Edouard Levé e al Mi ricordo di Joe Brainard (Lindau, 2014). Come loro, infatti, anche Cancho azzarda un modo eterodosso di raccontarsi e, anche se a differenza di Levé e Brainard (fotografo il primo e pittore il secondo) non si è mai dedicato alle arti visive, la sua scrittura è così evocativa e ricca di immagini da far assomigliare I rifugi della memoria a un album di schizzi o di istantanee. La prima in cui ci imbattiamo è quella di un corpo che, il 18 gennaio del 1974, precipita dal terzo piano del commissariato di Valladolid: il corpo di José Luis Cancho, studente di ventidue anni, arrestato per l’ennesima volta in quanto militante del Partido del Trabajo de España e membro della Joven Guardia Roja.

Torturato per un giorno e una notte da quattro membri della Brigada Político-Social – la polizia segreta franchista –, Cancho venne creduto morto e gettato dalla finestra per simulare un suicidio, com’era accaduto nel gennaio del 1969 a un altro studente, Enrique Ruano, giusto un mese dopo la defenestrazione di Giuseppe Pinelli (una terribile coincidenza che esprime il clima di un’epoca, un sinistro trait d’union tra una dittatura morente e una democrazia in preda alle convulsioni). A differenza di Ruano e Pinelli, però, Cancho sopravvisse, e, dopo una settimana di coma, sei mesi di immobilità e due anni di galera durante i quali imparò di nuovo a camminare, tornò libero grazie all’amnistia elargita dalla Transizione.

Tratteggiato con frasi prodigiosamente concise che, secondo Barba, ricordano uno di quei misteriosi personaggi di Bernhard capaci di “comprimere in tre parole le osservazioni di tre anni senza spettinarsi”, il frammentato autoritratto di Cancho non può cominciare che da qui, dalla scena capitale della sua quasi-morte, descritta con spassionata oggettività e inevitabilmente legata al carcere e alla militanza, che nel corso della narrazione diventano una sorta di leit-motiv quasi inavvertibile: la quiete necessaria alla stesura di un romanzo ricorda quella dei mesi trascorsi in isolamento, le trame da mettere sulla carta hanno un precedente nelle storie inventate per rispondere agli interrogatori, le identità assunte da clandestino fanno pensare al bisogno di crearsi ciclicamente vite nuove che segnerà il futuro dell’autore…

Esausto, l’ex prigioniero finirà per abbandonare una militanza così totalizzante (ma senza rinnegarla o ridicolizzarla come farà il suo ex compagno Andrés Trapiello, oggi famoso scrittore vagamente revisionista), diventando un maestro di scuola senza vocazione e poi un nomade perso nelle città e nei deserti dell’America latina, per tornare infine a casa e approdare alla letteratura. E solo da scrittore ormai consacrato avrà voglia di ripercorrere le orme confuse che si è lasciato alle spalle, prima che gli scivolino via dalla memoria. Così, scrivendo “senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica”, in una prosa talmente essenziale da avvicinarsi alla poesia, José Luis Cancho ha condensato il racconto di una vita straordinariamente intensa in meno di ottanta pagine, concludendo ogni capitolo con una costellazione di fulminei episodi e incontri, gusti personali, stati d’animo, tratti del carattere, rapidissime confessioni, quasi delle note a piè di pagina sostanzialmente slegate dal testo, secondo una scelta formale spiazzante e suggestiva.

Nell’epilogo, lo scrittore esprime il dubbio di non essersi davvero ricongiunto, nonostante tutto, con il proprio “io reale”, ombra che cerca ostinatamente di trasformarsi in personaggio da romanzo, interrogandoci una volta di più sul rapporto tra finzione e realtà. Quale che sia la risposta, accade raramente di imbattersi in un testo capace di ritrarre con altrettanta acutezza e originalità non solo chi lo ha scritto, ma una generazione di militanti e, insieme, un momento storico (gli ultimi colpi di coda del franchismo, una transizione densa di compromessi, le speranze, le illusioni e le delusioni) narrato attraverso la “morte”, le rinascite, la lunga ricerca e la solitudine di qualcuno che, come dice Tomas Tranströmer nell’epigrafe scelta da Cancho, si porta dentro i suoi volti precedenti “come un albero/contiene i suoi anelli”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020

 

domenica 13 settembre 2020

Da leggere: Norah Lange


Norah Lange


Un oscuro ritratto

Tra le grandi scrittrici argentine dimenticate o sottovalutate, oggi finalmente al centro di studi critici, recuperi editoriali e traduzioni, Norah Lange (nata a Buenos Aires nel 1905) non è del tutto ignota ai lettori italiani, e non solo grazie a una bella versione nella nostra lingua del suo libro più noto, Cuaderno de infancia (Infanzia, Pensa Multimedia 2015), ma anche in quanto oggetto del desiderio di J.L. Borges (un’inclinazione amorosa smentita, però, da Maria Esther de Miguel, biografa della scrittrice ) e moglie di un poeta della statura di Oliverio Girondo, suoi compagni nella breve avventura avanguardista dell’ultraismo.

Unica presenza femminile in un gruppo deciso a battersi per l’innovazione nell’arte e nella letteratura, ma convenzionalmente fedele agli stereotipi di genere, Lange venne “angelicata” d’autorità nel prologo di Borges al suo primo volume di versi – dove è descritta come una spirituale “fanciulla di quindici anni”, anche se all’epoca ne aveva diciannove –, negli scritti di Leopoldo Marechal (“una femminilità delicata pervade il suo libro come un profumo”), nonché nella poesia del sulfureo marito, che la chiama angelnorahcustodio. Dall’anagramma del cognome fino all’aspetto etereo, che ne denunciava l’ascendenza norvegese, tutto sembrava favorire l’infantilizzazione cui la critica maschile era solita sottoporre le autrici di estrazione “rispettabile”: un prezzo che Lange dovette pagare per muovere i primi passi in campo letterario, pubblicando tre raccolte che, scrive Beatriz Sarlo, contenevano soltanto “la poesia accettabile di una ragazza di buona famiglia”.

Dalla crisalide semicelestiale, però, emergerà a poco a poco una sorprendente creatura che, dopo aver tentato negli anni Trenta l’ingresso nella prosa con due romanzi poco riusciti, ma provvisti di una carica erotica che nulla aveva di angelico, finirà per lanciarsi in una nuova e più audace sperimentazione, utilizzando con raffinata sottigliezza i codici del fantastico e del gotico ed evitandone allo stesso tempo le convenzioni più abusate, per trarre dal quotidiano, dall’ovvio, dall’anodino, note via via più inquietanti. Quanto inquietanti, lo si può scoprire leggendo Figure nel salotto, apparso in lingua originale nel 1950, e ora tradotto per la prima volta e con la consueta perizia da Ilide Carmignani (Adelphi, pp. 150, e. 16), che sembra quasi comporre una trilogia con i due romanzi successivi, il magistrale Los dos retratos e El cuarto de vidrio, pubblicato postumo in seno alle Obras completas nel 2006, trentaquattro anni dopo la morte dell’autrice.

Figure nel salotto è un testo enigmatico e cupo, claustrofobico e di un’ambiguità destabilizzante, in cui quasi nulla accade e che tuttavia turba e avvince, inducendo il lettore ad avventurarsi in interpretazioni pressoché inesauribili, il cui arco include la giovanile esaltazione libresca, l’ansia adolescenziale di sottrarsi alle regole familiari, le visioni generate da una possibile follia, la magia degli specchi, l’illusione del doppio, i riferimenti mitici e letterari (parche e streghe, automi hoffmaniani, storie di spettri e di case infestate, ritratti che parlano, piangono, evadono dalla cornice, introducendo ad altri mondi).

Il tutto rimanda a una lettura attenta di Infanzia, memoir del 1937 giustamente celebrato, pieno di ombre e dominato dallo sguardo fisso e divorante di una bambina che osserva, spia, controlla, tenta di impadronirsi dei volti altrui fino a “inghiottirli”, quasi ad annunciare l’estetica del mistero su cui si fonda la scrittura della maturità.

Ispirato, come rivela l’autrice, dal ritratto che delle tre ragazze Brontë eseguì il fratello Branwell, il misuratissimo ed esemplarmente breve Figure nel salotto è prima di tutto un romanzo dello sguardo, il “racconto” di tre volti (la protagonista ne parla come se li dipingesse, e come ritratti, più che come persone, li percepisce sino alla fine), disposti sera dopo sera con identica simmetria in una medesima stanza, su corpi vestiti a lutto, dai gesti rari e quasi meccanici. Le tre donne, che vivono sole, compongono un quadro perpetuamente esposto allo sguardo altrui, non per esibizionismo, ma perché convinte che nessuno lo guardi (o perché sanno, forse, che nessuno può vederlo?). Qualcuno, tuttavia, le ha scoperte alla luce di un lampo, pallide e immobili nel rettangolo della finestra che fa da cornice: qualcuno che da allora si dedicherà a una sorveglianza continua e maniacale, deciso a scoprire chi siano, cosa facciano, a cosa pensino: innocue zitelle, avventuriere, assassine, potenziali suicide, amanti abbandonate?

Le loro giornate sempre uguali, la ragazza ne è certa, nascondono un segreto, una biografia inaspettata che la sua immaginazione va ricreando a proprio capriccio e all’infinito, anche quando riesce a intrufolarsi nella casa così a lungo osservata e a stringere con le sorelle un rapporto infranto, dopo una sua breve assenza, dall’improvvisa comparsa di un cartello che pone la casa in affitto. Le tre sono svanite, e a chi le ha studiate con pazienza da entomologa e occhio da narratrice (spiarle ha significato raccontarle a sé stessa, muoverle come fantocci in una gigantesca casa di bambole, inventarle e inventarsi, aggiungere la parti mancanti, insomma scriverne) non rimane che l’inutile tentativo di perpetuare una specularità ormai infranta: perché anche l’osservatrice è sempre stata, a propria volta, una “figura nel salotto”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020


venerdì 21 agosto 2020

Storie: L'uomo dal milione di libri



 

L’uomo dal milione di libri

In alcuni paesi dell’America latina la parola “gallego” è stata a lungo sinonimo di “español”, e non c’è da stupirsene, perché più del quaranta per cento dei quattro milioni di spagnoli che tra il 1860 e il 1930 arrivarono nel Nuovo Mondo erano partiti dalla Galizia, portando con sé un’indelebile morriña, ovvero un misto di nostalgia e rimpianto. Solo una minima parte di chi lasciava la Spagna scelse gli Stati Uniti: un’emigrazione presto diluita come “una goccia nell’oceano” tra comunità straniere più numerose, dice James Fernández, autore con Luis Argeo di una ricerca sugli Emigrantes invisibles: españoles en EE. UU – 1868-1945, all’origine di una magnifica mostra che si può visitare fino al 20 agosto a Madrid. E innumerevoli particelle di quella “goccia” erano gallegos che si stabilirono a New York, dove organizzarono società di mutuo soccorso, svolsero lavori di ogni tipo e aprirono tavole calde e ristoranti.

Fra i tanti modesti locali dove si servivano lan con grelos e pulpo á feira, ce n’era uno appartenente a un certo Torres, che, arrivato nel 1913 da Samieira, vicino a Pontevedra, alcuni anni dopo tornò in patria per sposarsi e rientrò in America con la moglie, lasciando alle cure dei nonni il bambino nato nel frattempo. Solo nel 1936 i Torres decisero di farsi raggiungere dal figlio, per sottrarlo alla guerra civile, e fu così che il quindicenne Eliseo sbarcò a New York, pronto a diplomarsi e a frequentare l’università; tre anni dopo, però, avrebbe cambiato idea, decidendo di farsi mercante di libri spagnoli, in una città dove le librerie specializzate erano poche e la comunità ispanica andava aumentando.

Più che ai lettori di madrelingua, in realtà, Eliseo mirava alle università e alle scuole, perché lo studio dello spagnolo, introdotto ad Harvard, Princeton e Yale già ai primi dell’Ottocento, negli Stati Uniti del ventesimo secolo non era più appannaggio di una minoranza; l’insegnamento della lingua, ma anche gli studi storici e letterari, si erano diffusi sia per ragioni politiche e commerciali, sia per la presenza di un ristretto e selezionato numero di intellettuali repubblicani invitati dalle Università (unico modo per farli entrare nel paese, perché il governo statunitense non riconobbe gli esuli spagnoli come rifugiati e a volte li trattò da pericolosi sovversivi), che avevano dato nuovo impulso all’ispanismo nordamericano. Importare libri dalla Spagna, però, era davvero difficile, e Torres li faceva arrivare soprattutto dal Messico e dall’Argentina, risparmiando agli istituti universitari lunghe trafile burocratiche.

Gli spazi della sua prima libreria, nella zona nord di Manhattan, e poi della seconda, in Lawrence Avenue, divennero presto insufficienti, stipati com’erano di volumi d’ogni genere: negli anni ’50, infatti, Eliseo poteva vantarsi di avere il più completo assortimento di libri spagnoli e latinoamericani di tutti gli Stati Uniti, e sulle sue fatture era impressa la dicitura Libros de todas las editoras en español.

Aveva cominciato ad acquistare, oltre alle nuove edizioni, anche intere biblioteche e collezioni private, finché l’ultimo proprietario della celebre Las Americas, casa editrice e libreria creata nel 1940 dall’ispanista napoletano Gaetano Massa, ne mise in vendita l’intero vastissimo fondo, ed Eliseo, che sembrava ansioso di non lasciarsi sfuggire il più piccolo pezzo di carta stampato in spagnolo, lo comprò.

Torres era ormai proprietario di almeno un milione di libri (o forse più), che sistemò in un enorme edificio di mattoni all’angolo di Garrison Avenue, acquistato, pare, al prezzo simbolico di un dollaro. Situato in una delle più desolate zone del Bronx, era stato una fabbrica di lampade e aveva quattro piani, quaranta finestre che non venivano mai aperte e una porta di metallo nero senza insegna, targa o campanello. Bussare energicamente era il solo modo per avere accesso a un luogo che lo scrittore spagnolo José María Conget descrive così: “Come un transatlantico incagliato nel Bronx, con la carta quale unico equipaggio, sembrava lo sfondo di un sogno di Borges: la grotta di Alì Babà di tutti i tesori letterari della nostra lingua”.

A parte gli uffici di Torres e di Martha, l’unica impiegata, ogni piano era occupato da scaffali metallici alti fino al soffitto che formavano lunghi corridoi, pieni di libri pubblicati a partire dagli anni venti, di prime edizioni di tutti gli autori di lingua spagnola del novecento (quelle degli esuli repubblicani formavano un’esaustiva collezione a sé: la libreria era, in questo senso, una sorta di Arca che ospitava tutto quanto era stato censurato o proibito dal franchismo), di opere rarissime, di riviste introvabili. E c’erano anche il centinaio di eleganti volumi della casa editrice Eliseo Torres & Sons, diretta da Emilio González López, che scelse saggi sulla letteratura spagnola e ispanoamericana per la raffinata collana Torres Library of Literary Studies, inaugurata dagli Escritos desconocidos de José Martí, a cura di Carlos Ripoll.

La libreria, il cui indirizzo passava confidenzialmente di bocca in bocca, rappresentava insomma una fonte di scoperte, incanti e sorprese per studiosi, bibliofili e lettori accaniti, sempre bene accetti, e anche per altri mercanti, accolti invece con diffidenza. Il sivigliano Abelardo Linares, “cacciatore di libri” per la sua libreria antiquaria Renacimiento, fu bandito da un Eliseo ormai anziano perché aveva fatto acquisti per diecimila dollari, mostrandosi riprovevolmente avido (“Se si ripresenta, non farlo entrare”, ordinò alla fedele Martha, che filtrava gli ingressi).

Intorno alle eccentricità di Torres sono fioriti aneddoti di ogni genere, veri e falsi, ma sempre suggestivi, che ne hanno fatto il protagonista di un romanzo mai scritto. Raccontavano, per esempio, che con gli anni fosse diventato sempre meno libraio e sempre più un collezionista restìo a vendere, o addirittura un bibliomane – anche se non funesto come quello ritratto da Flaubert nel racconto Bibliomanie – tormentato dal “furore d’aver libri” e di accumularli all’infinito. E si diceva, inoltre, che trascorresse molte serate e quasi tutti i week end nella sua fortezza deserta, passeggiando tra gli scaffali come uno gnomo a guardia del proprio tesoro, o che stabilisse i prezzi a capriccio, secondo criteri imperscrutabili.

Soledad Gallego-Díaz, inviata di El País, lo intervistò nell’aprile del 1993, già malato (morì pochi mesi dopo), ma lucido e intento a riflettere su quel che ne sarebbe stato, dopo la sua scomparsa, del fantasmagorico patrimonio cartaceo che aveva messo insieme in cinquant’anni di incrollabile fedeltà alla lingua spagnola e alla sua letteratura. I quattro figli non volevano occuparsene, università e biblioteche avevano rifiutato per mancanza di spazio il dono di parte dei volumi, e vendere la libreria così com’era sembrava impossibile. “Non ha paura che tutti questi libri finiscano venduti a peso?”, gli chiese Gallego-Díaz, e la tranquilla risposta fu: “No. In fin dei conti durante la guerra civile si bruciarono tanti libri solo perché la gente potesse scaldarsi in inverno. È la vita”. Eliseo Torres sembrava dare per scontato che lui e la sua creatura sarebbero scomparsi insieme (“Chi può volere così tanti libri?”) come se l’una non potesse esistere senza l’altro. Ma la storia meritava un finale diverso, e lo ebbe.

Il proscritto Abelardo Linares (oltre che libraio, famoso poeta, sofisticato editore di narrativa e poesia, colto bibliofilo), appena saputo che gli eredi intendevano vendere l’edificio e liberarsi del contenuto, si precipitò a New York e convinse la vedova di Torres ad accettare un insolito accordo: avrebbe gestito gratuitamente la libreria per un anno, cercando di realizzare una determinata cifra destinata agli eredi, che gli avrebbero poi ceduto i volumi rimasti.

Mentre catalogava quello che Conget aveva definito “un fondo senza fondo”, Linares riuscì a vendere quasi duecentomila libri, consegnò la cifra pattuita e si portò via il resto: duecentocinquanta tonnellate di carta stampata chiuse in container e imbarcate alla volta della Spagna. A Siviglia, Linares – che ora vende via internet – ha trasferito i volumi di Torres e i propri in tre immensi magazzini fuori città. Adesso è lui l’uomo dal milione di libri, che passeggia tra gli scaffali, ogni tanto si scopre riluttante a cedere qualche esemplare (quattro o cinquemila volumi della libreria Torres sono entrati a far parte della sua biblioteca privata) e afferma, lapidario: “I libri sono uno strano veleno, dannoso solo se preso in piccole quantità”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2020


venerdì 7 agosto 2020

Da leggere: Ricardo Piglia


Ricardo Piglia


Dove si incrociano finzione e verità

Ad apertura di Critica e Finzione (raccolta di saggi e interviste pubblicata da Mimesis nel 2018), Ricardo Piglia conferma il suo interesse per la “zona indeterminata dove si incrociano finzione e verità. Prima di tutto perché non c’è campo che appartenga soltanto alla finzione. (…) La realtà è intessuta di finzioni”. Il testo è del 1984, ma sembra quasi annunciare un romanzo futuro, ovvero Plata Quemada, apparso tredici anni dopo e da collocare proprio in quello "spazio indecidibile tra verità e falsità" che Piglia scelse come proprio territorio. Quanto caleidoscopica e sofisticata sia la partita che lo scrittore argentino ha giocato in questo noir cupo ed estremo, che sembra rompere con la sperimentazione delle opere precedenti – e che forse ne sta solo azzardando una di altro tipo –, i lettori potranno scoprirlo grazie alla nuova edizione proposta da Sur (Soldi bruciati, pag. 194, e. 15, traduzione di Pino Cacucci), da affrontarsi con l’avvertenza che il “patto di lettura” suggerito nell’Epilogo è alquanto inaffidabile.

A conclusione del romanzo, infatti, l’autore parla di “una storia realmente accaduta” e dei "materiali autentici" come articoli, verbali di interrogatori, relazioni di psichiatri, testimonianze, interviste, intercettazioni, grazie ai quali ha ricostruito il sanguinoso assalto a un portavalori avvenuto nel 1965 in un sobborgo di Buenos Aires e la successiva fuga in Uruguay dei banditi, il cui ultimo rifugio (un appartamento dell’Edificio Liberaij, nel centro di Montevideo) venne assediato dalla polizia per quindici ore. Ma quella di garantire l’assoluta veridicità del racconto – scritto trent’anni dopo i fatti, quando erano ormai il “ricordo perduto di un’esperienza vissuta” –, è in realtà una strategia interna alla poetica di Piglia, che prevede la creazione di testi ibridi, destabilizzanti, pronti a sovvertire forme e generi, insediati in luoghi di confine e in una dialettica costante tra “vero” e “falso”. Come per cambiare retroattivamente la percezione del testo e indirizzare altrove il lettore, Piglia non esita ad aprire nell’Epilogo una serie di falle: tra le più vistose, la citazione delle cronache di un giornalista argentino chiamato Emilio Renzi, ossia l’alter ego dello scrittore, personaggio ricorrente che appare anche in Soldi Bruciati ed è protagonista dei celebri Diari pubblicati tra il 2015 e il 2017.

L’Epilogo, insomma, ci racconta una seconda storia (quella dell’indagine che precede la scrittura e introduce l’autore come detective) ed è finzionale quanto il testo, ricco di magnifiche differenze dai fatti "autentici", puntigliosamente ricostruiti dal giornalista Leonardo Haberkorn nel libro-indagine Liberaij. Soldi bruciati non è dunque un docuthriller come Il caso Satanowsky di Rodolfo Walsh e A sangue freddo di Truman Capote, ma “la versione argentina di una tragedia greca”, dove gli eroi sono delinquenti che vanno incontro al loro destino imbottiti di cocaina e alcol, impugnando pistole e mitragliette. Una tragedia, sì, ma presentata sotto le crude spoglie di un hard-boiled – Piglia lo preferiva alla vocazione per l’ordine del poliziesco classico – rivisto in termini che potremmo definire “locali” e sostenuto da una vasta polifonia di linguaggi e voci, da una perfetta ricomposizione di frammenti e vicende marginali, da una rete di allusioni alla storia politica, sociale ed economica dell’Argentina e dall’affiorare di una tradizione letteraria testimoniata da innumerevoli citazioni sotterranee (Lucio Mansilla e Osvaldo Lamborghini, Esteban Echeverría e José Hernández, e soprattutto Arlt, del quale Piglia ha fatto una lettura critica approfondita e innovatrice).

Accompagnati da un coro di figure femminili non irrilevanti, ma comunque secondarie in una storia essenzialmente “virile”, che si interroga sull’incerta costruzione del ruolo maschile quanto sull’omoerotismo inteso come libera circolazione del desiderio, emergono i protagonisti, ciascuno sigillato nelle sue private paranoie: il Nene Brignone, ragazzo borghese a caccia di fuggevoli incontri omosessuali, trasformato dal carcere in glaciale assassino; Malito, capobanda perfezionista che scompare senza lasciare traccia; il Cuervo Mereles, immerso nella serenità imperturbabile degli oppiacei; il commissario Silva, il cui metodo di indagine si identifica con la tortura e che si precipita in Uruguay per eliminare, insieme ai banditi, le possibili tracce dei loro mandanti; e poi la figura enigmatica e ammaliante del Gaucho Dorda, un campagnolo sfuggito al manicomio, con la testa piena di voci che non tacciono mai e lo inducono a compiere gesti (e delitti) inesplicabili, o a emettere folli sentenze dal sapore biblico.

Nel finale, la scena gli appartiene per intero: il Cuervo e l’amatissimo Nene, suo “gemello” e occasionale amante, sono morti in una sorta di apocalisse bellica, rispondendo al fuoco incessante della polizia; poco prima della fine, inoltre, è Dorda ad avere l’idea di bruciare la montagna di soldi che li ha condotti fin lì e di lanciare le banconote in fiamme dalle finestre del Liberaij, su una folla esterrefatta e furibonda davanti all’olocausto di tanto “denaro innocente”. Massacrato ma non arreso, il Gaucho verrà fatto prigioniero dopo aver recuperato memorie smarrite, parole non dette, immagini che gli restituiscono il passato (il suo e quello antico della pampa da cui proviene), e la storia “realmente accaduta” cederà così il posto al sogno, alla visione, a finzioni assolutamente reali.

Assassini pronti a superare ogni limite, ossessionati dalla droga e dalla libertà totale e immediata offerta dal denaro, Dorda e i suoi compagni sembrano gli unici in grado di compiere un gesto sprezzante come quello di accendere un rogo che mette alla berlina i pilastri simbolici della società (“Rapinare una banca è poca cosa al confronto di fondarne una”, dice l’epigrafe brechtiana del romanzo). E se il grandioso falò conclusivo, insieme alla decisione di resistere fino all’ultimo, dà alla storia una coloritura eroica, la caotica violenza dei fuorilegge e dei loro avversari sembra annunciarne un’altra, più pervasiva e “ordinata”: di lì a pochi mesi l’Argentina avrà un nuovo dittatore, Juan Carlos Onganía, che inaugurerà il suo regime con la feroce "notte dei lunghi bastoni". E poi il massacro di Ezeiza, José López Rega e la Triple A, la guerra sporca dei Generali… Piglia sapeva bene, nel raccontare quel “caso secondario e ormai dimenticato di cronaca nera”, che stava prevedendo il passato e ricordando il futuro.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2020

 

mercoledì 22 luglio 2020

Anniversari e Addii: Juan Marsé



Juan Marsé


Un narratore senza eguali

“Mi dichiaro anticlericale militante, come lo era mio padre; a questo paese la Chiesa ha fatto tanto danno, e continua a farlo… Perché devo pagare di tasca mia questa banda di spudorati, di imbroglioni, i vescovi della Chiesa?”. Da una simile invettiva, che prima o poi tornava ad affiorare nelle rare interviste concesse da Juan Marsé - scomparso a ottantasette anni nella notte di sabato e ultimo narratore della generazione del ‘50, nonché uno dei più grandi del ventesimo secolo - è facile immaginare che ai suoi laicissimi funerali, questo martedì, non ci saranno simboli religiosi. E, probabilmente, neppure bandiere catalane o spagnole, perché Marsé non esitava, specie negli ultimi anni, a dichiarare: “Non sono nazionalista né indipendentista, e di un’identità nazionale sballottata da una parte all’altra non me ne importa un fico secco. Per me fa lo stesso sentirmi spagnolo o catalano, nessuna delle due cose mi riempie di entusiasmo e tanto meno di fervore patriottico”. Una presa di posizione netta (e non diversa da quella di Vázquez Montalbán rispetto al pujolismo), lontana sia dalle esasperazioni identitarie sia dal nazionalismo españolista, ma che nel 2017 gli fruttò l’epiteto di botifler, ossia traditore, da parte di fanatici che mutilarono i suoi libri nelle biblioteche pubbliche. Libri in spagnolo, perché, nonostante il catalano fosse la sua lingua madre, Marsé scriveva in quella che aveva formato il suo immaginario, tra fumetti, cinema e libri: un affronto che i catalanisti non gli hanno mai perdonato.

Mangiapreti e antinazionalista irriducibile, dunque, nonché antifranchista di ferro (ricordava ancora le lacrime sue e del padre Pep, mentre assistevano all’entrata delle truppe “nere” a Barcellona), Marsé non era solo un grande scrittore, ma un uomo di immacolata coerenza, alieno dai compromessi e capace tanto di sottrarsi agli entusiasmi di un “realismo sociale” che un tempo avrebbe potuto trasformarlo nel proprio elefante bianco (un autentico proletario diventato scrittore!), quanto di evitare il circo mediatico nella cui pista si esibisce oggi la letteratura.

Sarebbe inutile, tuttavia, cercare di inchiodarlo allo stereotipo dell’uomo tutto d’un pezzo, pugnace e di sinistra (per cinque anni fu iscritto al partito comunista, che lasciò, dicono, per l’ostracismo decretato nei confronti del suo amico Gil De Biedma, poeta sublime col “difetto” dell’omosessualità), o dell’orgoglioso autodidatta pronto a rifiutare omaggi ufficiali e un seggio all’Accademia di Spagna. Marsé era molto più complicato e sfuggente di quanto le apparenze lasciassero supporre, e la sua intuizione che la realtà esiste solo se la sogniamo o la raccontiamo sembra nascere insieme a lui, con una sorta di fiaba raccontata dalla madre adottiva Alberta Marsé per rendergli meno amaro l’abbandono del padre, scapestrato chauffeur che, morta la moglie, l’aveva dato via appena nato (Juan conosceva benissimo la vera storia della sua adozione, però preferiva l’altra, diceva, perché sembrava una pagina di Dickens).

Si può avere un’infanzia felice in una città “spaventata, schiacciata e grigia”, dove la propria lingua non viene insegnata a scuola ma è relegata alla strada e all’ambito domestico, e la povertà è tale che a tredici anni bisogna lavorare come operaio? Felice, Juanito Marsé lo era; gran lettore di fumetti, giocatore scatenato di pallone e appassionato spettatore di film americani che ritroveremo in quel “raccontare per immagini” che è una delle caratteristiche della sua prosa. Ma era anche attento a ciò che gli accadeva intorno, con quella straordinaria capacità di osservazione che secondo Enrique Vila-Matas è sempre stata una delle sue qualità più evidenti, e disegnava mentalmente una Barcellona fatta dei “suoi” quartieri (Gracia, Horta-Guinardó, Carmel), segnata dal freddo, dalla fame e dalla sconfitta, eppure fonte di storie che sarebbero diventate romanzi irrinunciabili.

Fu la letteratura a strapparlo a una vita che appariva già modellata su quella dei suoi genitori e dei tanti che vivevano nei quartieri operai e nelle baracche affollate di charnegos (cioè di non catalani) arrivati negli anni ‘60 per costruire le fortune industriali della regione, in una Spagna ormai meta di investimenti stranieri e di un turismo playa y sol sempre più intrusivo. E fu l’incoraggiamento di nuovi amici (Paulina Crusat, Carlos Barral, Gil de Biedma) che, nel 1960, lo spinse ad andare a Parigi, lasciando lo stanzone dove lavorava con altri trenta operai, e la casa materna dove la notte scriveva i suoi primi racconti e poi un romanzo, Encerrados con un solo juguete, dallo sguardo più “interno”, più oggettivo e freddo di quello del realismo sociale propugnato dai chicos bien, scrittori e intellettuali che, tornato in Spagna, Marsé aveva ripreso a frequentare.

Di alcuni era amico, di altri un po’ meno, ma sapeva di non appartenere alla loro cerchia e di non volerne essere fagocitato: molti li ritrasse con ironia spietata e un umorismo incapace di sconti già nella sua terza opera, Ultime sere con Teresa (1966). Dopo quel romanzo, oggi un classico, Marsé ne scrisse altri dodici, alcuni dei quali sono indiscutibili capolavori, come Si te dicen que caí (1973), Il mistero di Shangai, 1993), Coda di lucertola, Ronda del Guinardò (1984), e molti mirabili racconti, raccolti dal 2002 in Cuentos completos (benché i suoi libri migliori siano stati tradotti in italiano, molti mancano ancora all’appello, e uno dei suoi testi chiave – per l’appunto Ultime sere con Teresa – è apparso per la prima volta presso Bompiani solo due anni fa).

Fondato su un linguaggio ricco e prezioso, pieno di minuzie, corretto e rivisto all’infinito, e intriso, oltre che di una  disillusione costante, di un’ironia e di un senso dell’umorismo assai rari nel panorama letterario spagnolo, il realismo di Marsé si rivela mutevole e pieno di sorprese, teso com’è verso la continua ansia di rinnovarsi, di tentare nuove strade, di azzardare nuove tecniche, pronte a sostenerlo nel suo compito di fabulatore d’eccezione che non ha mai voluto rinnegare il lato “artigianale” del mestiere (“il miglior narratore che la letteratura spagnola ci abbia dato in parecchi decenni”, dice il critico Ignacio Echevarría), cesellatore di trame complesse e creatore di personaggi che hanno segnato un’epoca, quali il Pijoaparte, protagonista di Ultime sere con Teresa, o Kim, l’eroe imprendibile e sconfitto di Il Mistero di Shangai, romanzo pieno di suggestioni hollywoodiane e di personaggi esilaranti che si sovrappongono alla tragedia.

Marsé ha finito per costruire un universo letterario circoscritto – come lo era quello di Onetti, l’autore che più ha influito su di lui – a un territorio ben preciso, una Barcellona quasi scomparsa, quella della guerra civile, della posguerra, del franchismo e del suo sordido grigiore, del miracolo economico, del destape, ma della quale non ha mai smesso di seguire e individuare i mutamenti sociali, la violenza, l’ipocrisia (nessuno come lui ha saputo “denudare” la borghesia catalana), le tracce della memoria, rivissuta alla luce dell’immaginazione. Una città segreta che ancora oggi continua a vivere sotto la patina irreale di un marchio di successo, invisibile perché nessuno vuole vederla, e che solo scrittori come Marsé e quelli che, come lui, hanno scritto e continuano a scrivere il Grande Romanzo di Barcellona (Vázquez Montalbán, Mendoza, Casavella e altri ancora) possono portare alla luce.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2020