venerdì 21 agosto 2020

Storie: L'uomo dal milione di libri



 

L’uomo dal milione di libri

In alcuni paesi dell’America latina la parola “gallego” è stata a lungo sinonimo di “español”, e non c’è da stupirsene, perché più del quaranta per cento dei quattro milioni di spagnoli che tra il 1860 e il 1930 arrivarono nel Nuovo Mondo erano partiti dalla Galizia, portando con sé un’indelebile morriña, ovvero un misto di nostalgia e rimpianto. Solo una minima parte di chi lasciava la Spagna scelse gli Stati Uniti: un’emigrazione presto diluita come “una goccia nell’oceano” tra comunità straniere più numerose, dice James Fernández, autore con Luis Argeo di una ricerca sugli Emigrantes invisibles: españoles en EE. UU – 1868-1945, all’origine di una magnifica mostra che si può visitare fino al 20 agosto a Madrid. E innumerevoli particelle di quella “goccia” erano gallegos che si stabilirono a New York, dove organizzarono società di mutuo soccorso, svolsero lavori di ogni tipo e aprirono tavole calde e ristoranti.

Fra i tanti modesti locali dove si servivano lan con grelos e pulpo á feira, ce n’era uno appartenente a un certo Torres, che, arrivato nel 1913 da Samieira, vicino a Pontevedra, alcuni anni dopo tornò in patria per sposarsi e rientrò in America con la moglie, lasciando alle cure dei nonni il bambino nato nel frattempo. Solo nel 1936 i Torres decisero di farsi raggiungere dal figlio, per sottrarlo alla guerra civile, e fu così che il quindicenne Eliseo sbarcò a New York, pronto a diplomarsi e a frequentare l’università; tre anni dopo, però, avrebbe cambiato idea, decidendo di farsi mercante di libri spagnoli, in una città dove le librerie specializzate erano poche e la comunità ispanica andava aumentando.

Più che ai lettori di madrelingua, in realtà, Eliseo mirava alle università e alle scuole, perché lo studio dello spagnolo, introdotto ad Harvard, Princeton e Yale già ai primi dell’Ottocento, negli Stati Uniti del ventesimo secolo non era più appannaggio di una minoranza; l’insegnamento della lingua, ma anche gli studi storici e letterari, si erano diffusi sia per ragioni politiche e commerciali, sia per la presenza di un ristretto e selezionato numero di intellettuali repubblicani invitati dalle Università (unico modo per farli entrare nel paese, perché il governo statunitense non riconobbe gli esuli spagnoli come rifugiati e a volte li trattò da pericolosi sovversivi), che avevano dato nuovo impulso all’ispanismo nordamericano. Importare libri dalla Spagna, però, era davvero difficile, e Torres li faceva arrivare soprattutto dal Messico e dall’Argentina, risparmiando agli istituti universitari lunghe trafile burocratiche.

Gli spazi della sua prima libreria, nella zona nord di Manhattan, e poi della seconda, in Lawrence Avenue, divennero presto insufficienti, stipati com’erano di volumi d’ogni genere: negli anni ’50, infatti, Eliseo poteva vantarsi di avere il più completo assortimento di libri spagnoli e latinoamericani di tutti gli Stati Uniti, e sulle sue fatture era impressa la dicitura Libros de todas las editoras en español.

Aveva cominciato ad acquistare, oltre alle nuove edizioni, anche intere biblioteche e collezioni private, finché l’ultimo proprietario della celebre Las Americas, casa editrice e libreria creata nel 1940 dall’ispanista napoletano Gaetano Massa, ne mise in vendita l’intero vastissimo fondo, ed Eliseo, che sembrava ansioso di non lasciarsi sfuggire il più piccolo pezzo di carta stampato in spagnolo, lo comprò.

Torres era ormai proprietario di almeno un milione di libri (o forse più), che sistemò in un enorme edificio di mattoni all’angolo di Garrison Avenue, acquistato, pare, al prezzo simbolico di un dollaro. Situato in una delle più desolate zone del Bronx, era stato una fabbrica di lampade e aveva quattro piani, quaranta finestre che non venivano mai aperte e una porta di metallo nero senza insegna, targa o campanello. Bussare energicamente era il solo modo per avere accesso a un luogo che lo scrittore spagnolo José María Conget descrive così: “Come un transatlantico incagliato nel Bronx, con la carta quale unico equipaggio, sembrava lo sfondo di un sogno di Borges: la grotta di Alì Babà di tutti i tesori letterari della nostra lingua”.

A parte gli uffici di Torres e di Martha, l’unica impiegata, ogni piano era occupato da scaffali metallici alti fino al soffitto che formavano lunghi corridoi, pieni di libri pubblicati a partire dagli anni venti, di prime edizioni di tutti gli autori di lingua spagnola del novecento (quelle degli esuli repubblicani formavano un’esaustiva collezione a sé: la libreria era, in questo senso, una sorta di Arca che ospitava tutto quanto era stato censurato o proibito dal franchismo), di opere rarissime, di riviste introvabili. E c’erano anche il centinaio di eleganti volumi della casa editrice Eliseo Torres & Sons, diretta da Emilio González López, che scelse saggi sulla letteratura spagnola e ispanoamericana per la raffinata collana Torres Library of Literary Studies, inaugurata dagli Escritos desconocidos de José Martí, a cura di Carlos Ripoll.

La libreria, il cui indirizzo passava confidenzialmente di bocca in bocca, rappresentava insomma una fonte di scoperte, incanti e sorprese per studiosi, bibliofili e lettori accaniti, sempre bene accetti, e anche per altri mercanti, accolti invece con diffidenza. Il sivigliano Abelardo Linares, “cacciatore di libri” per la sua libreria antiquaria Renacimiento, fu bandito da un Eliseo ormai anziano perché aveva fatto acquisti per diecimila dollari, mostrandosi riprovevolmente avido (“Se si ripresenta, non farlo entrare”, ordinò alla fedele Martha, che filtrava gli ingressi).

Intorno alle eccentricità di Torres sono fioriti aneddoti di ogni genere, veri e falsi, ma sempre suggestivi, che ne hanno fatto il protagonista di un romanzo mai scritto. Raccontavano, per esempio, che con gli anni fosse diventato sempre meno libraio e sempre più un collezionista restìo a vendere, o addirittura un bibliomane – anche se non funesto come quello ritratto da Flaubert nel racconto Bibliomanie – tormentato dal “furore d’aver libri” e di accumularli all’infinito. E si diceva, inoltre, che trascorresse molte serate e quasi tutti i week end nella sua fortezza deserta, passeggiando tra gli scaffali come uno gnomo a guardia del proprio tesoro, o che stabilisse i prezzi a capriccio, secondo criteri imperscrutabili.

Soledad Gallego-Díaz, inviata di El País, lo intervistò nell’aprile del 1993, già malato (morì pochi mesi dopo), ma lucido e intento a riflettere su quel che ne sarebbe stato, dopo la sua scomparsa, del fantasmagorico patrimonio cartaceo che aveva messo insieme in cinquant’anni di incrollabile fedeltà alla lingua spagnola e alla sua letteratura. I quattro figli non volevano occuparsene, università e biblioteche avevano rifiutato per mancanza di spazio il dono di parte dei volumi, e vendere la libreria così com’era sembrava impossibile. “Non ha paura che tutti questi libri finiscano venduti a peso?”, gli chiese Gallego-Díaz, e la tranquilla risposta fu: “No. In fin dei conti durante la guerra civile si bruciarono tanti libri solo perché la gente potesse scaldarsi in inverno. È la vita”. Eliseo Torres sembrava dare per scontato che lui e la sua creatura sarebbero scomparsi insieme (“Chi può volere così tanti libri?”) come se l’una non potesse esistere senza l’altro. Ma la storia meritava un finale diverso, e lo ebbe.

Il proscritto Abelardo Linares (oltre che libraio, famoso poeta, sofisticato editore di narrativa e poesia, colto bibliofilo), appena saputo che gli eredi intendevano vendere l’edificio e liberarsi del contenuto, si precipitò a New York e convinse la vedova di Torres ad accettare un insolito accordo: avrebbe gestito gratuitamente la libreria per un anno, cercando di realizzare una determinata cifra destinata agli eredi, che gli avrebbero poi ceduto i volumi rimasti.

Mentre catalogava quello che Conget aveva definito “un fondo senza fondo”, Linares riuscì a vendere quasi duecentomila libri, consegnò la cifra pattuita e si portò via il resto: duecentocinquanta tonnellate di carta stampata chiuse in container e imbarcate alla volta della Spagna. A Siviglia, Linares – che ora vende via internet – ha trasferito i volumi di Torres e i propri in tre immensi magazzini fuori città. Adesso è lui l’uomo dal milione di libri, che passeggia tra gli scaffali, ogni tanto si scopre riluttante a cedere qualche esemplare (quattro o cinquemila volumi della libreria Torres sono entrati a far parte della sua biblioteca privata) e afferma, lapidario: “I libri sono uno strano veleno, dannoso solo se preso in piccole quantità”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2020


venerdì 7 agosto 2020

Da leggere: Ricardo Piglia


Ricardo Piglia


Dove si incrociano finzione e verità

Ad apertura di Critica e Finzione (raccolta di saggi e interviste pubblicata da Mimesis nel 2018), Ricardo Piglia conferma il suo interesse per la “zona indeterminata dove si incrociano finzione e verità. Prima di tutto perché non c’è campo che appartenga soltanto alla finzione. (…) La realtà è intessuta di finzioni”. Il testo è del 1984, ma sembra quasi annunciare un romanzo futuro, ovvero Plata Quemada, apparso tredici anni dopo e da collocare proprio in quello "spazio indecidibile tra verità e falsità" che Piglia scelse come proprio territorio. Quanto caleidoscopica e sofisticata sia la partita che lo scrittore argentino ha giocato in questo noir cupo ed estremo, che sembra rompere con la sperimentazione delle opere precedenti – e che forse ne sta solo azzardando una di altro tipo –, i lettori potranno scoprirlo grazie alla nuova edizione proposta da Sur (Soldi bruciati, pag. 194, e. 15, traduzione di Pino Cacucci), da affrontarsi con l’avvertenza che il “patto di lettura” suggerito nell’Epilogo è alquanto inaffidabile.

A conclusione del romanzo, infatti, l’autore parla di “una storia realmente accaduta” e dei "materiali autentici" come articoli, verbali di interrogatori, relazioni di psichiatri, testimonianze, interviste, intercettazioni, grazie ai quali ha ricostruito il sanguinoso assalto a un portavalori avvenuto nel 1965 in un sobborgo di Buenos Aires e la successiva fuga in Uruguay dei banditi, il cui ultimo rifugio (un appartamento dell’Edificio Liberaij, nel centro di Montevideo) venne assediato dalla polizia per quindici ore. Ma quella di garantire l’assoluta veridicità del racconto – scritto trent’anni dopo i fatti, quando erano ormai il “ricordo perduto di un’esperienza vissuta” –, è in realtà una strategia interna alla poetica di Piglia, che prevede la creazione di testi ibridi, destabilizzanti, pronti a sovvertire forme e generi, insediati in luoghi di confine e in una dialettica costante tra “vero” e “falso”. Come per cambiare retroattivamente la percezione del testo e indirizzare altrove il lettore, Piglia non esita ad aprire nell’Epilogo una serie di falle: tra le più vistose, la citazione delle cronache di un giornalista argentino chiamato Emilio Renzi, ossia l’alter ego dello scrittore, personaggio ricorrente che appare anche in Soldi Bruciati ed è protagonista dei celebri Diari pubblicati tra il 2015 e il 2017.

L’Epilogo, insomma, ci racconta una seconda storia (quella dell’indagine che precede la scrittura e introduce l’autore come detective) ed è finzionale quanto il testo, ricco di magnifiche differenze dai fatti "autentici", puntigliosamente ricostruiti dal giornalista Leonardo Haberkorn nel libro-indagine Liberaij. Soldi bruciati non è dunque un docuthriller come Il caso Satanowsky di Rodolfo Walsh e A sangue freddo di Truman Capote, ma “la versione argentina di una tragedia greca”, dove gli eroi sono delinquenti che vanno incontro al loro destino imbottiti di cocaina e alcol, impugnando pistole e mitragliette. Una tragedia, sì, ma presentata sotto le crude spoglie di un hard-boiled – Piglia lo preferiva alla vocazione per l’ordine del poliziesco classico – rivisto in termini che potremmo definire “locali” e sostenuto da una vasta polifonia di linguaggi e voci, da una perfetta ricomposizione di frammenti e vicende marginali, da una rete di allusioni alla storia politica, sociale ed economica dell’Argentina e dall’affiorare di una tradizione letteraria testimoniata da innumerevoli citazioni sotterranee (Lucio Mansilla e Osvaldo Lamborghini, Esteban Echeverría e José Hernández, e soprattutto Arlt, del quale Piglia ha fatto una lettura critica approfondita e innovatrice).

Accompagnati da un coro di figure femminili non irrilevanti, ma comunque secondarie in una storia essenzialmente “virile”, che si interroga sull’incerta costruzione del ruolo maschile quanto sull’omoerotismo inteso come libera circolazione del desiderio, emergono i protagonisti, ciascuno sigillato nelle sue private paranoie: il Nene Brignone, ragazzo borghese a caccia di fuggevoli incontri omosessuali, trasformato dal carcere in glaciale assassino; Malito, capobanda perfezionista che scompare senza lasciare traccia; il Cuervo Mereles, immerso nella serenità imperturbabile degli oppiacei; il commissario Silva, il cui metodo di indagine si identifica con la tortura e che si precipita in Uruguay per eliminare, insieme ai banditi, le possibili tracce dei loro mandanti; e poi la figura enigmatica e ammaliante del Gaucho Dorda, un campagnolo sfuggito al manicomio, con la testa piena di voci che non tacciono mai e lo inducono a compiere gesti (e delitti) inesplicabili, o a emettere folli sentenze dal sapore biblico.

Nel finale, la scena gli appartiene per intero: il Cuervo e l’amatissimo Nene, suo “gemello” e occasionale amante, sono morti in una sorta di apocalisse bellica, rispondendo al fuoco incessante della polizia; poco prima della fine, inoltre, è Dorda ad avere l’idea di bruciare la montagna di soldi che li ha condotti fin lì e di lanciare le banconote in fiamme dalle finestre del Liberaij, su una folla esterrefatta e furibonda davanti all’olocausto di tanto “denaro innocente”. Massacrato ma non arreso, il Gaucho verrà fatto prigioniero dopo aver recuperato memorie smarrite, parole non dette, immagini che gli restituiscono il passato (il suo e quello antico della pampa da cui proviene), e la storia “realmente accaduta” cederà così il posto al sogno, alla visione, a finzioni assolutamente reali.

Assassini pronti a superare ogni limite, ossessionati dalla droga e dalla libertà totale e immediata offerta dal denaro, Dorda e i suoi compagni sembrano gli unici in grado di compiere un gesto sprezzante come quello di accendere un rogo che mette alla berlina i pilastri simbolici della società (“Rapinare una banca è poca cosa al confronto di fondarne una”, dice l’epigrafe brechtiana del romanzo). E se il grandioso falò conclusivo, insieme alla decisione di resistere fino all’ultimo, dà alla storia una coloritura eroica, la caotica violenza dei fuorilegge e dei loro avversari sembra annunciarne un’altra, più pervasiva e “ordinata”: di lì a pochi mesi l’Argentina avrà un nuovo dittatore, Juan Carlos Onganía, che inaugurerà il suo regime con la feroce "notte dei lunghi bastoni". E poi il massacro di Ezeiza, José López Rega e la Triple A, la guerra sporca dei Generali… Piglia sapeva bene, nel raccontare quel “caso secondario e ormai dimenticato di cronaca nera”, che stava prevedendo il passato e ricordando il futuro.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2020