lunedì 28 settembre 2020

Da leggere: José Luis Cancho


José Luis Cancho


Quasi morto e resuscitato

Quando, dopo aver pubblicato quattro romanzi, ha deciso di scrivere di sé e della sua vita, José Luis Cancho avrebbe potuto imboccare strade consuete: la classica autobiografia, la diaristica, il memoir o la sin troppo praticata autofiction, della quale il prolisso narcisismo alla Knausgård rappresenta la versione più estrema. Con I rifugi della memoria (Arkadia, pp. 76, e. 13, ben tradotto da Marino Magliani) lo scrittore spagnolo ha scelto tuttavia un altro percorso, nota Andrés Barba nella prefazione, accostando il libro all’Autoportrait di Edouard Levé e al Mi ricordo di Joe Brainard (Lindau, 2014). Come loro, infatti, anche Cancho azzarda un modo eterodosso di raccontarsi e, anche se a differenza di Levé e Brainard (fotografo il primo e pittore il secondo) non si è mai dedicato alle arti visive, la sua scrittura è così evocativa e ricca di immagini da far assomigliare I rifugi della memoria a un album di schizzi o di istantanee. La prima in cui ci imbattiamo è quella di un corpo che, il 18 gennaio del 1974, precipita dal terzo piano del commissariato di Valladolid: il corpo di José Luis Cancho, studente di ventidue anni, arrestato per l’ennesima volta in quanto militante del Partido del Trabajo de España e membro della Joven Guardia Roja.

Torturato per un giorno e una notte da quattro membri della Brigada Político-Social – la polizia segreta franchista –, Cancho venne creduto morto e gettato dalla finestra per simulare un suicidio, com’era accaduto nel gennaio del 1969 a un altro studente, Enrique Ruano, giusto un mese dopo la defenestrazione di Giuseppe Pinelli (una terribile coincidenza che esprime il clima di un’epoca, un sinistro trait d’union tra una dittatura morente e una democrazia in preda alle convulsioni). A differenza di Ruano e Pinelli, però, Cancho sopravvisse, e, dopo una settimana di coma, sei mesi di immobilità e due anni di galera durante i quali imparò di nuovo a camminare, tornò libero grazie all’amnistia elargita dalla Transizione.

Tratteggiato con frasi prodigiosamente concise che, secondo Barba, ricordano uno di quei misteriosi personaggi di Bernhard capaci di “comprimere in tre parole le osservazioni di tre anni senza spettinarsi”, il frammentato autoritratto di Cancho non può cominciare che da qui, dalla scena capitale della sua quasi-morte, descritta con spassionata oggettività e inevitabilmente legata al carcere e alla militanza, che nel corso della narrazione diventano una sorta di leit-motiv quasi inavvertibile: la quiete necessaria alla stesura di un romanzo ricorda quella dei mesi trascorsi in isolamento, le trame da mettere sulla carta hanno un precedente nelle storie inventate per rispondere agli interrogatori, le identità assunte da clandestino fanno pensare al bisogno di crearsi ciclicamente vite nuove che segnerà il futuro dell’autore…

Esausto, l’ex prigioniero finirà per abbandonare una militanza così totalizzante (ma senza rinnegarla o ridicolizzarla come farà il suo ex compagno Andrés Trapiello, oggi famoso scrittore vagamente revisionista), diventando un maestro di scuola senza vocazione e poi un nomade perso nelle città e nei deserti dell’America latina, per tornare infine a casa e approdare alla letteratura. E solo da scrittore ormai consacrato avrà voglia di ripercorrere le orme confuse che si è lasciato alle spalle, prima che gli scivolino via dalla memoria. Così, scrivendo “senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica”, in una prosa talmente essenziale da avvicinarsi alla poesia, José Luis Cancho ha condensato il racconto di una vita straordinariamente intensa in meno di ottanta pagine, concludendo ogni capitolo con una costellazione di fulminei episodi e incontri, gusti personali, stati d’animo, tratti del carattere, rapidissime confessioni, quasi delle note a piè di pagina sostanzialmente slegate dal testo, secondo una scelta formale spiazzante e suggestiva.

Nell’epilogo, lo scrittore esprime il dubbio di non essersi davvero ricongiunto, nonostante tutto, con il proprio “io reale”, ombra che cerca ostinatamente di trasformarsi in personaggio da romanzo, interrogandoci una volta di più sul rapporto tra finzione e realtà. Quale che sia la risposta, accade raramente di imbattersi in un testo capace di ritrarre con altrettanta acutezza e originalità non solo chi lo ha scritto, ma una generazione di militanti e, insieme, un momento storico (gli ultimi colpi di coda del franchismo, una transizione densa di compromessi, le speranze, le illusioni e le delusioni) narrato attraverso la “morte”, le rinascite, la lunga ricerca e la solitudine di qualcuno che, come dice Tomas Tranströmer nell’epigrafe scelta da Cancho, si porta dentro i suoi volti precedenti “come un albero/contiene i suoi anelli”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020

 

domenica 13 settembre 2020

Da leggere: Norah Lange


Norah Lange


Un oscuro ritratto

Tra le grandi scrittrici argentine dimenticate o sottovalutate, oggi finalmente al centro di studi critici, recuperi editoriali e traduzioni, Norah Lange (nata a Buenos Aires nel 1905) non è del tutto ignota ai lettori italiani, e non solo grazie a una bella versione nella nostra lingua del suo libro più noto, Cuaderno de infancia (Infanzia, Pensa Multimedia 2015), ma anche in quanto oggetto del desiderio di J.L. Borges (un’inclinazione amorosa smentita, però, da Maria Esther de Miguel, biografa della scrittrice ) e moglie di un poeta della statura di Oliverio Girondo, suoi compagni nella breve avventura avanguardista dell’ultraismo.

Unica presenza femminile in un gruppo deciso a battersi per l’innovazione nell’arte e nella letteratura, ma convenzionalmente fedele agli stereotipi di genere, Lange venne “angelicata” d’autorità nel prologo di Borges al suo primo volume di versi – dove è descritta come una spirituale “fanciulla di quindici anni”, anche se all’epoca ne aveva diciannove –, negli scritti di Leopoldo Marechal (“una femminilità delicata pervade il suo libro come un profumo”), nonché nella poesia del sulfureo marito, che la chiama angelnorahcustodio. Dall’anagramma del cognome fino all’aspetto etereo, che ne denunciava l’ascendenza norvegese, tutto sembrava favorire l’infantilizzazione cui la critica maschile era solita sottoporre le autrici di estrazione “rispettabile”: un prezzo che Lange dovette pagare per muovere i primi passi in campo letterario, pubblicando tre raccolte che, scrive Beatriz Sarlo, contenevano soltanto “la poesia accettabile di una ragazza di buona famiglia”.

Dalla crisalide semicelestiale, però, emergerà a poco a poco una sorprendente creatura che, dopo aver tentato negli anni Trenta l’ingresso nella prosa con due romanzi poco riusciti, ma provvisti di una carica erotica che nulla aveva di angelico, finirà per lanciarsi in una nuova e più audace sperimentazione, utilizzando con raffinata sottigliezza i codici del fantastico e del gotico ed evitandone allo stesso tempo le convenzioni più abusate, per trarre dal quotidiano, dall’ovvio, dall’anodino, note via via più inquietanti. Quanto inquietanti, lo si può scoprire leggendo Figure nel salotto, apparso in lingua originale nel 1950, e ora tradotto per la prima volta e con la consueta perizia da Ilide Carmignani (Adelphi, pp. 150, e. 16), che sembra quasi comporre una trilogia con i due romanzi successivi, il magistrale Los dos retratos e El cuarto de vidrio, pubblicato postumo in seno alle Obras completas nel 2006, trentaquattro anni dopo la morte dell’autrice.

Figure nel salotto è un testo enigmatico e cupo, claustrofobico e di un’ambiguità destabilizzante, in cui quasi nulla accade e che tuttavia turba e avvince, inducendo il lettore ad avventurarsi in interpretazioni pressoché inesauribili, il cui arco include la giovanile esaltazione libresca, l’ansia adolescenziale di sottrarsi alle regole familiari, le visioni generate da una possibile follia, la magia degli specchi, l’illusione del doppio, i riferimenti mitici e letterari (parche e streghe, automi hoffmaniani, storie di spettri e di case infestate, ritratti che parlano, piangono, evadono dalla cornice, introducendo ad altri mondi).

Il tutto rimanda a una lettura attenta di Infanzia, memoir del 1937 giustamente celebrato, pieno di ombre e dominato dallo sguardo fisso e divorante di una bambina che osserva, spia, controlla, tenta di impadronirsi dei volti altrui fino a “inghiottirli”, quasi ad annunciare l’estetica del mistero su cui si fonda la scrittura della maturità.

Ispirato, come rivela l’autrice, dal ritratto che delle tre ragazze Brontë eseguì il fratello Branwell, il misuratissimo ed esemplarmente breve Figure nel salotto è prima di tutto un romanzo dello sguardo, il “racconto” di tre volti (la protagonista ne parla come se li dipingesse, e come ritratti, più che come persone, li percepisce sino alla fine), disposti sera dopo sera con identica simmetria in una medesima stanza, su corpi vestiti a lutto, dai gesti rari e quasi meccanici. Le tre donne, che vivono sole, compongono un quadro perpetuamente esposto allo sguardo altrui, non per esibizionismo, ma perché convinte che nessuno lo guardi (o perché sanno, forse, che nessuno può vederlo?). Qualcuno, tuttavia, le ha scoperte alla luce di un lampo, pallide e immobili nel rettangolo della finestra che fa da cornice: qualcuno che da allora si dedicherà a una sorveglianza continua e maniacale, deciso a scoprire chi siano, cosa facciano, a cosa pensino: innocue zitelle, avventuriere, assassine, potenziali suicide, amanti abbandonate?

Le loro giornate sempre uguali, la ragazza ne è certa, nascondono un segreto, una biografia inaspettata che la sua immaginazione va ricreando a proprio capriccio e all’infinito, anche quando riesce a intrufolarsi nella casa così a lungo osservata e a stringere con le sorelle un rapporto infranto, dopo una sua breve assenza, dall’improvvisa comparsa di un cartello che pone la casa in affitto. Le tre sono svanite, e a chi le ha studiate con pazienza da entomologa e occhio da narratrice (spiarle ha significato raccontarle a sé stessa, muoverle come fantocci in una gigantesca casa di bambole, inventarle e inventarsi, aggiungere la parti mancanti, insomma scriverne) non rimane che l’inutile tentativo di perpetuare una specularità ormai infranta: perché anche l’osservatrice è sempre stata, a propria volta, una “figura nel salotto”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020