giovedì 9 dicembre 2021

Da leggere: Elvira Navarro

 


Elvira Navarro



Le incrinature della realtà 

“Il talento letterario è un dono naturale di questa autrice, che ha scritto un primo libro classico e feroce, ammirevolmente trasgressore: la sottile, quasi nascosta, autentica avanguardia della sua generazione”. È con queste parole che Enrique Vila-Matas segnalò, nel 2007, la pubblicazione di La ciudad en invierno, breve romanzo d’esordio di Elvira Navarro proposto da Caballo de Troya, autentico vivaio di nuovi scrittori governato da Constantino Bértolo, editor leggendario. Da allora Navarro, che è nata a Pontevedra nel 1978 ma vive da anni a Madrid, ha prodotto altri tre romanzi, La ciudad feliz (2009), il notevole e pluripremiato La lavoratrice (apparso in Spagna nel 2014, è uscito in Italia presso Liberaria nel 2019), e Los últimos días de Adelaida García Morales, tutti accolti con grande favore dalla critica.

Anche il suo ultimo libro, una raccolta di racconti intitolata La isla de los conejos, è degno di nota e, attraverso una scrittura più che mai sobria posta al servizio di trame spiazzanti e suggestive, conferma alcune delle caratteristiche sottolineate da Vila-Matas, come il gusto per la trasgressione o per una ferocia impalpabile e sotterranea. Chi ha letto La lavoratrice, inoltre, ritroverà nella recentissima edizione italiana dei racconti (L’isola dei conigli, traduzione di Sara Papini, pp. 160, e. 16,50) alcuni elementi che si possono ormai definire come costanti dell’intera opera di Navarro, ovvero le svolte fulminee e impreviste della narrazione e il frequente affacciarsi di temi quali la malattia mentale, la precarietà e lo sfruttamento, travasati in metafore inquietanti.

Tutti i protagonisti degli undici racconti sembrano in procinto di venire risucchiati all’interno di impercettibili incrinature della realtà, celate in spazi marginali e desolati come sordide pensioni, isolette pantanose, quartieri suburbani, case occupate: una periferia del territorio cui corrispondono ossessivi labirinti interiori e rapporti di coppia o di lavoro tanto opprimenti da poter essere spezzati solo con la fuga o con la mutazione del corpo, proiettato senza spiegazioni verso una grottesca animalità.

Tra derive oniriche e lo spalancarsi di abissi improvvisi incontriamo così un falso inventore il cui capriccio introduce una popolazione di conigli in una piccola isola deserta del Guadalquivir, causando l’orrorifica alterazione dell’ecosistema; e poi un uomo che forse si trasformerà in insetto, in una storia meno kafkiana di quanto sembri e vicina piuttosto a David Cronenberg, una cuoca d’albergo che conclude la sua sfibrante giornata con sogni infestati dagli incubi altrui, o una studentessa straniera che si perde nella banlieue parigina mentre cerca un luogo in apparenza inesistente dove presentare certi documenti.

Profondamente perturbanti, i racconti aderiscono solo in parte all’estetica e alle norme del fantastico (tranne Stricnina, in cui una ragazza vede crescere dal proprio orecchio un arto nuovo e ferino) e sembrano sfruttare tutte le possibilità offerte dal realismo alla rappresentazione dell’oscurità che invade esistenze intrappolate in conflitti irrisolti, incertezze, disagio e illusioni. Perché, come sottolinea Navarro in un’intervista, “la realtà non è che consenso su ciò che chiamiamo reale. Il codice realista non descrive la realtà, ma la costruisce. In questo senso è una proposta di finzione, e basta un po’ d’ansia per farci apparire minacciosa la normalità”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2021

lunedì 6 dicembre 2021

Da leggere: Edgardo Scott

 


Edgardo Scott




La genesi dell’oscurità

Autore di due romanzi, due raccolte di racconti e alcuni saggi tra i quali spicca lo squisito Caminante: flâneurs, paseantes, vagabundos, peregrinos (Ediciones Godot, 2017), l’argentino Edgardo Scott è ancora poco noto in Italia: un vero peccato, perché la sua esigente ricerca formale, legata a un’identità di lettore quanto mai colto e attento, ma anche a uno sguardo acuto e spesso polemico sui fenomeni sociali e la politica, propone percorsi stimolanti a chi non si avvicina alla letteratura solo attraverso il presunto canone stabilito dal mercato.

La bella traduzione del secondo romanzo di Scott da parte di Alessandro Gianetti, pubblicata da Arkadia (Lutto, pp. 160, e. 14) e l’incontro previsto per lunedì sei dicembre a Più libri più liberi sono perciò l’occasione per conoscere da vicino un autore che è anche uno psicoanalista di formazione lacaniana, e in quanto tale ci rimanda a una sorta di tradizione argentina sulla pratica parallela della letteratura e della psicanalisi da parte di scrittori e poeti tra i quali è d’obbligo citare Luis Gusmán (presente non a caso nell’epigrafie di Lutto), Germán García, Osvaldo Lamborghini e altri ancora.

Il paesaggio del romanzo (non un semplice fondale ma quasi un co-protagonista) è quello dello sterminato Conurbano bonaerense, dove l’autore è nato nel 1978 e dove trascorre l’intera vita di Alberto detto Chiche, proprietario di un negozio di elettrodomestici che un giorno viene assaltato e svaligiato da rapinatori armati. Chiche non esita a sparare, e nell’imprevisto scontro a fuoco muoiono sua moglie e uno dei banditi, trasformando il protagonista in un uomo solo che si rifugia nella rassicurante monotonia di abitudini immutabili. Chiche brucia la spazzatura ogni sabato, va al cimitero tutti i mesi, cresce come può la figlia adolescente, a scadenze regolari affitta film in videocassetta e commenta i fatti di cronaca con un amico, si trova un’amante da incontrare una volta alla settimana: un’esistenza racchiusa in un orizzonte limitatissimo – la casa, il negozio, poche strade – e nel recinto di crescenti ossessioni, come quella per los negros (il termine, reso dal traduttore con “zingari”, non indica il colore della pelle ma la marginalità sottoproletaria) che vivono nel miserabile quartiere abusivo oltre la ferrovia.

Dietro i gesti ripetuti all’infinito si nasconde, però, una corrente sotterranea che finirà per spezzare il cerchio del lutto mai elaborato, suggellando l’andamento circolare di un romanzo in cui forma e contenuto appaiono in perfetta sintonia e inducono a pensare alle considerazioni di Ricardo Piglia sull’esistenza, in seno al romanzo breve, di uno spazio vuoto, un segreto che agisce in permanenza sulla trama e impone al lettore non tanto di interpretare, quanto di narrare ciò che volutamente manca. Proprio questo fa Scott, aprendo e chiudendo il romanzo con due scene drammatiche e violente tra le quali si dipanano sessantatré capitoli brevi e brevissimi dai titoli sempre uguali, che rimandano a una routine in apparenza priva di eventi e al lento scorrere delle stagioni e degli anni. Sono i frammenti del quotidiano, i dettagli minimi registrati da una distaccata e concisa voce narrante, a disegnare il percorso quasi inconsapevole di Chiche verso un finale della cui ineluttabilità ci si rende conto solo alla fine, quando potremo tirare le fila del non detto e renderci conto di come l’autore sia riuscito a mostrarci, con magistrale reticenza, la genesi dell’oscurità che invade a poco a poco un uomo qualunque.

Se nel suo primo romanzo (El exceso, del 2012) l’autore aveva elaborato un ritratto corale della società argentina negli anni ’90, sospinta verso la catastrofe dal neoliberismo estremo della presidenza di Carlos Menem, qui si rifà allo stesso periodo – non ancora Storia, ma passato prossimo le cui tracce sono ancora percepibili – attraverso la vicenda di un singolo individuo agitato da forze arcaiche (l’idea di virilità e di coraggio, il bisogno di vendetta) e allo stesso tempo modellato dalla paura dell’altro e dal bisogno di sicurezza, furiosamente dilatati da media e politica fino ad armare la mano della gente “perbene” e a trasformarla nei mostri della porta accanto.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2021

mercoledì 1 dicembre 2021

Anniversari e addii: Almudena Grandes

 


Almudena Grandes



L’arma della memoria

Poco più di un mese fa aveva rivelato il motivo che la teneva lontana dai frequenti e affollati incontri con i suoi lettori: un tumore diagnosticato un anno prima, che era sicura di poter sconfiggere e che, invece, sabato l’ha portata via a sessantuno anni. Se n’è andata così Almudena Grandes, amatissima da quell’ampia parte di pubblico spagnolo estranea all’aggressività di una destra che, diceva la scrittrice madrilena, “reagisce sempre come se il potere non l’avesse perso, ma gliel’avessero rubato”, procreando per partenogenesi nuove leader quali Isabel Díaz Ayuso e Cayetana Álvarez de Toledo, “giovani, attraenti, brillanti e soprattutto cattive, disposte a mentire, cospirare, influire e far danno”, ha segnalato Grandes in una delle sue ultime rubriche su El País.

Celebre per il grande successo ottenuto nel 1989 con Le età di Lulù – romanzo d’esordio tradotto in venti paesi e poi divenuto un film molto discusso –, l’autrice era infatti tenacemente di sinistra, sempre impegnata in battaglie politiche e civili, e non esitava a pronunciarsi contro i “mostri che il Ventunesimo secolo ci ha restituito in imballaggi nuovi di zecca, che aspirano a depistare e ingannare la gente e a convincerla di essere qualcosa di diverso. Ma non è vero, e il miglior modo di scoprirlo, l’arma più efficace contro queste maschere, è la memoria”.

La certezza che qualsiasi reazione al ritorno in forze dell’estrema destra deve basarsi su una memoria onesta e profonda (“che non riguarda il passato, ma il presente e soprattutto il futuro, perché se non sappiamo da dove veniamo non possiamo sapere cosa vogliamo essere”) aveva spinto Grandes a cambiare completamente la prospettiva della sua opera letteraria, inizialmente dedicata a esplorare con audacia gli anni Ottanta e Novanta con romanzi quali Atlante di geografia umana del 1998 e Troppo amore del 2004 (entrambi pubblicati da Guanda, editore italiano di tutte le sue opere). Nel 2007 aveva compiuto una svolta decisa verso la narrativa a tema sociale e storico con Cuore di ghiaccio, sulla storia di due famiglie dalla Repubblica ai primi anni Duemila, per poi misurarsi con un progetto intitolato Episodi di una guerra interminabile: sei romanzi sugli sconfitti della guerra civile, i militanti anonimi, i guerriglieri sconosciuti, gli uomini e le donne che misero in atto forme diverse di resistenza o semplicemente riuscirono a sopravvivere e a mantenere intatti i propri valori nella terribile solitudine di un paese dove si poteva essere “a piede libero, però mai liberi”.

Per narrare la Spagna della guerra civile e quella degli anni ’50, quando si fucilava meno, ma la paura era una seconda pelle, Grandes ha fatto ricorso alla sua formazione di storica – che emerge nelle note finali –, compiendo ricerche minuziose e ispirandosi apertamente al suo nume tutelare Benito Pérez Galdós, l’autore degli Episodios Nacionales, quarantasei romanzi sulla storia spagnola scritti tra il 1872 e il 1912 (dal suo esilio messicano, il poeta Luis Cernuda scrisse che l’unica Spagna che riconosceva come patria era quella creata da Galdós), al cui modello si rifanno anche i sei titoli di Max Aub sulla fine della Repubblica raccolti nel ciclo El laberinto magico.

Come lui, Grandes ha mescolato realtà e finzione, figure storiche e protagonisti inventati, mettendo una rigorosa documentazione al servizio di trame densissime, popolate da una folla di personaggi (I pazienti del dottor García ne conta 207) e dispiegate in volumi che a volte superano le mille pagine. E come Galdós anche lei ha scelto di raccontare la storia spagnola dal basso, componendo un enorme affresco in cui la gente comune appare in primo piano, con la sua difficile quotidianità, la sua solitudine, le sue rinunce e le sue piccole storie d’amore, così da illuminare la vita e la storia dei dimenticati.

Pensati per affrontare, attraverso storie capaci di avvincere, commuovere, emozionare, eventi e temi della storia nazionale troppo a lungo ignorati e rimossi, e soprattutto per dare a chi legge alcuni strumenti per capire meglio il presente, gli Episodi si ricollegano non solo a Galdós e al realismo classico, ma a certa fluviale narrativa popolare ottocentesca: un linguaggio semplice e comprensibile a tutti, lunghe frasi, infiniti dettagli, rinuncia a qualsiasi sperimentazione stilistica, frequente ricorso a risorse narrative tipiche del feuilleton o del melodramma sentimentale. Il tutto funzionale non solo al recupero della memoria in quanto radice ineludibile del presente, in un paese dove, diceva Grandes, “si è incentivato l’oblio come infallibile ricetta di progresso”, ma anche alla denuncia di problemi e ingiustizie vecchi e nuovi, perché “scrivere è prendere posizione sul mondo. La scrittura in sé stessa è un atto ideologico”.

Inaugurato nel 2010 da Inés e l’allegria, su una giovane comunista arrestata nel 1939 e sulla sua fuga per raggiungere i guerriglieri che dalla Francia entravano clandestinamente in Spagna per combattere il franchismo, il ciclo procede lungo un arco temporale che arriva fino agli anni ’50 con La figlia ideale (il titolo spagnolo, più suggestivo, è La madre de Frankenstein), apparso nel 2020, che prende spunto dalla storia vera di Aurora Rodríguez Carballeira, ricca signora femminista, repubblicana, coltissima e folle che seguendo un suo personale piano eugenetico mise al mondo una “figlia perfetta” dall’intelligenza prodigiosa, destinata a salvare l’umanità e uccisa dalla madre quando volle sfuggire al suo controllo e rendersi indipendente.

Forse il più riuscito tra gli Episodi – e certamente il più disseminato di citazioni galdosiane, ma anche di rimandi a Victor Hugo, letto con passione da una delle protagoniste femminili – La figlia ideale mette in scena una Spagna immersa in un silenzio cimiteriale, dove la complicità tra Chiesa e dittatura crea un mercato di bambini sottratti alle madri “rosse” o povere, gestisce manicomi lager, cura l’omosessualità con la lobotomia… Tre storie si intrecciano: quella di Aurora, quella di uno psichiatra ex fuoruscito e osteggiato dal regime e quella della sfortunata infermiera María, così da inserire destini individuali in un panorama collettivo, rappresentato con una ricchezza di notizie e testimonianze tanto ampie precise da assumere quasi una coloritura didattica.

Aurora, rinchiusa fino alla morte nel manicomio femminile di Ciempozuelos, dove passava il tempo confezionando inquietanti bambole di stoffa provviste di vello pubico, fu giudicata pazza non solo per il suo gesto, ma in quanto donna evoluta e intellettuale di sconfinate letture (“Una donna che legge senza controllo? Ecco il risultato”, proclamò l’accusa). Ma la sua follia non trovava forse riscontro nel mondo esterno cupo e annichilito, in cui tutto ciò che era peccato era anche un crimine (e i peccati erano infiniti e infinitamente vari), mentre le donne, sottoposte a un giogo pesantissimo, avevano solo il diritto di scegliere il colore dei propri vestiti?

Gli Episodi avrebbero dovuto concludersi con il romanzo Mariano en el Bidasoa, sesto e ultimo della serie, ma Grandes non ha potuto lasciare che tracce e appunti relativi a una storia ambientata negli anni ’60, quelli del miracolo economico. Ai suoi lettori, che in questi giorni hanno inondato la rete di messaggi addolorati e commossi, la Editorial Tusquets ha però qualcosa da proporre: un Episodio del futuro, una trama distopica che l’autrice ha scritto di getto durante il lockdown e che parla di una Spagna dove si è installata una dittatura ultracapitalista, un’immensa industria privata appartenente ai padroni delle grandi imprese, e dove c’è, tuttavia, chi resiste. Perché, diceva Almudena Grandes, “nei miei romanzi c’è sempre chi si oppone a una dittatura”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2021

giovedì 25 novembre 2021

Da leggere: Nona Fernández

 


Nona Fernández



Infinitamente grande, infinitamente piccolo

Patricio Guzmán, ottantenne documentarista cileno cui dobbiamo la memorabile trilogia La Batalla de Chile e il notevole La memoria del agua, in una recente intervista a El País ha fatto presente che “Ogni creatore ha un tema ossessivo, che lo riempie. Per alcuni è una città o una persona, per me è la memoria di questo paese”. La stessa cosa potrebbe dire Nona Fernández, attrice, commediografa e soprattutto una delle migliori scrittrici latinoamericane di oggi, assai più giovane di Guzmán (è nata a Santiago del Cile nel 1971) ma come lui in lotta con la desmemoria, la terribile smemoratezza che in questi giorni ha portato un pinochetista di ritorno come Antonio Kast al ballottaggio per la presidenza della Repubblica.

La scrittura di Fernández, sia destinata al teatro o si dispieghi in romanzi o in novelle, mette sempre in primo piano il ruolo di una memoria che per anni si è cercato di sterilizzare con l’insistente invito a voltare pagina e ignorare le cicatrici, accompagnato dal costante negazionismo della destra e dall’appropriazione istituzionale del lutto collettivo, travasato in stanche cerimonie ufficiali. Per avventurarsi in quella voragine tenebrosa che sono gli anni della dittatura (esplorata, per fortuna, da scrittori come Pedro Lemebel e Diamela Eltit, solo per citarne due fra i più noti nel nostro paese, come da molti altri, spesso appartenenti alla “generazione dei figli”) Fernández parte da esperienze personali, si serve di un’immaginazione vivacissima che a volte assume tinte surreali o gotiche e fa uso elementi di pop legati a cinema, televisione, fumetti, musica.

Ritroviamo questo procedimento anche in Voyager, edito in Cile nel 2019, approdato in Italia nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto e appena uscito presso gran vía (pp. 138, e. 14): un testo che non appartiene alla narrativa pura e che difficilmente si può definire un saggio o una cronaca, ma si presenta come ibrido e indefinibile (sempre che ci sia bisogno di applicargli un’etichetta), attingendo senza esitazioni a tutti e tre i generi. Una proposta, insomma, che ignora volutamente limiti formali e temporali per affrontare il tema della memoria da molteplici angolazioni, mentre il titolo rimanda, non a caso, alle sonde spaziali lanciate negli anni ’70 dalla Nasa per esplorare il sistema solare (si stima che saranno attive almeno fino al 2025), equipaggiate in modo da “registrare” brandelli di universo e portare un breve messaggio fatto di simboli e cifre a possibili presenze aliene.

A bordo di un Voyager immateriale, infatti, Fernández viaggia in un cosmo dove trovano spazio la dimensione intima e quotidiana, il mito greco, l’astronomia, l’astrologia, la scienza medica, sogni e incubi, la storia cilena recente, foto di famiglia e l’elenco delle innumerevoli, assurde dichiarazioni di una stupidità decisa a “trattenerci nell’orizzonte di eventi del grande buco nero in cui siamo sul punto di naufragare” (per esempio la terra che è piatta, il cancro “che si cura col veleno di una rana”, l’Olocausto che non è mai avvenuto, le donne “che tramano piani per mortificare gli uomini”, il riscaldamento globale che non esiste). E poi il discorso del liceale Dante (figlio dell’autrice), invitato a commemorare il Plebiscito contro la dittatura con un discorso prontamente censurato, perché non offre sponde agli intolleranti dai quali troppo si è tollerato, i ricordi d’infanzia e quelli di una nazione intera, il video su cui scorrono le puntate in bianco e nero di Cosmo, serie divulgativa dell’astrofisico americano Carl Sagan (uno dei padri delle Voyager) capace di offrire a una “bambina del Sud” la possibilità di intraprendere un viaggio di conoscenza “verso un’altra realtà possibile, lontano da sparatorie e coprifuochi”.

Fernández incatena liberamente, con grande naturalezza e con sottile rigore, associazioni e digressioni pronte a formare una costruzione solida e perfetta che poggia sulla prima pietra di un incipit in cui l’anziana madre di Nona si sottopone a un esame neurologico per scoprire la causa di improvvisi svenimenti accompagnati da perdita di memoria, e viene invitata dal medico a ricordare qualcosa di piacevole; mentre lei ripensa alla nascita della sua bambina, la figlia vede apparire sul monitor una lampeggiante, luminosa costellazione di neuroni che la induce immediatamente ad accostare cosmo e cervello umano, l’infinito e l’infinitamente piccolo. Un collegamento dal quale nascerà una spirale di racconti, dati e riflessioni che, per mezzo di una scrittura come sempre incantevole, stabiliscono una continua tensione tra l’uomo e l’universo, tra l’immaginazione e la menzogna volontaria e involontaria, tra l’identità personale e la storia collettiva – innanzitutto quella non ufficiale – mentre “la luce del passato illumina il nostro presente” e la memoria, inclusa quella del corpo, così potente e così spesso inascoltata, definisce ciò che siamo e ci proietta verso il futuro.

Nella ricca, turbinante galassia di immagini proposta da Voyager, spiccano quella di un matriarcato consapevole, ironico e solidale (Fernández, la madre che costruisce la propria vita fuori dalle regole patriarcali e senza appoggio maschile, la nonna che scaglia furiosa il grembiule contro il televisore quando compaiono Pinochet e il suo ideologo Jaime Guzmán), quasi un annuncio del battagliero femminismo futuro, e un’altra infinitamente preziosa: il deserto di Atacama, affollato di suggestioni, di silenzi parlanti, di presenze fantasmatiche come quelle dei ventisei prigionieri politici uccisi il diciannove ottobre del 1973 dalla Carovana della Morte, sepolti nella sabbia e poi esumati e forse gettati in mare perché nessuno potesse ritrovarli. Una costellazione di corpi cui ne corrisponde un’altra, la Constelación de los caídos, che su proposta di Amnesty International avrebbe dovuto portare i nomi dei caduti, rinominando ventisei stelle visibili dal deserto, il miglior luogo al mondo per osservare il cielo. Nona Fernández è stata la “madrina” di una stella che, se il progetto fosse andato a buon fine, si sarebbe chiamata Mario Arguelles Toro come uno degli uccisi, un dirigente socialista di trentaquattro anni che si guadagnava la vita guidando un taxi, e la cui vedova si ostina a pretenderne le ossa: di lei, di loro, del giovane astronomo che scoppia a piangere mentre li commemora nel gelo notturno del deserto, Voyager ci racconta con asciutta ed efficace mancanza di retorica.

Non si può non ricordare, infine, che sebbene sia stato scritto nei mesi precedenti all’estallido – l’esplosione sociale dell’ottobre 2019 che ha imposto la necessità di una nuova Costituzione – il libro è apparso in Cile proprio in coincidenza con la rivolta, ed è difficile separarne la lettura dalle speranze e dall’indignazione espresse nel corso di un’immensa protesta, al grido di “non era depressione, era capitalismo”, contro quello che Fernández definisce “un neoliberismo abusante”. È davvero tempo, insomma, che il Cile riesca a staccarsi, come un autentico Voyager, dall’ancoraggio fin troppo solido e duraturo allo spazio della dittatura.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2021

lunedì 1 novembre 2021

Da leggere: Camila Sosa Villada


Camila Sosa Villada


 


Il corpo desiderante come opera d’arte 

Destinato alle scrittrici di lingua spagnola, il Premio Sor Juana Inés de la Cruz viene assegnato in Messico da quasi vent’anni e tra le opere che lo hanno vinto ci sono quelle di Elena Garro, Gioconda Belli, Lina Meruane, Nona Fernández: autrici molto diverse, ma accomunate da un’indiscutibile qualità letteraria. Nel 2020 il riconoscimento è andato (a sorpresa, ma non troppo) a Las malas dell’argentina Camila Sosa Villada, un romanzo di immediata fortuna che viene ora tradotto in otto paesi, compreso il nostro, dove le edizioni Sur lo presentano ai lettori nell’accurata versione di Giulia Zavagna (Le cattive, pp. 224, e. 16,50), che si è misurata efficacemente con un linguaggio denso e complesso.

Nata nel 1982 in un paesetto vicino a Cordoba e oggi nota attrice di teatro, commediografa e cantante, Sosa Villada aveva già pubblicato un volume di versi e un testo sospeso tra saggio e narrativa, in cui affronta il proprio rapporto con la scrittura intensamente praticata sin da bambina. Le cattive è dunque espressione di un talento multiforme, che sfugge alle etichette e va ben oltre la testimonianza, la cronaca o l’autobiografia (il percorso di vita dell’autrice coincide con quello della protagonista, che porta il suo nome: l’infanzia povera e violenta, la prostituzione, le coordinate geografiche e familiari), per trovare nella finzione lo strumento più adatto a restituirci la realtà, cucendo i tasselli del testo con una scrittura a volte cruda e concisa, a volte immaginosa, in cui si fondono echi del lessico trans, del neobarroso di Néstor Perlongher (poeta e fondatore, negli anni ’70, del Frente de Liberación Homosexual) e del lirismo feroce di Pedro Lemebel.

È tra la fine dello scorso secolo e l’inizio del nuovo che Camila, la voce narrante, si trasferisce a Cordoba per sfuggire alla brutalità di un padre che vorrebbe un figlio “virile”, e quando comincia a prostituirsi per sopravvivere scopre le trans del Parque Sarmiento riunite intorno alla possente Zia Encarna, trans venuta d’oltremare e pronta a tutto per le “figlie” che sostiene, punisce, perdona e ospita nella sua grande casa. Le loro storie si intrecciano a quella di Camila grazie a continui salti temporali che ci riportano ai giorni in cui la protagonista si chiamava Cristian e dopo la scuola era costretta a girare per le strade vendendo gelati, o, da adolescente, si travestiva di nascosto prima delle sue incaute uscite notturne, presagio dell’oscurità che domina il parco e governa la vita delle trans: la luminosità diurna, infatti, è un privilegio negato a chi col suo solo apparire attira insulti e aggressioni.

L’ostilità della luce (resa evidente dai lampioni installati per combattere la prostituzione, o dai lampeggianti della polizia) fa sì che di giorno le trans vivano nel riverbero del video che trasmette telenovelas o degli specchi davanti ai quali misurano la propria femminilità. Tanto più significativa appare, quindi, la decisione di chiamare Splendore degli Occhi il neonato che Zia Encarna trova fra i rovi del parco, che decide di adottare e che attirerà la tragedia, quando i vicini scopriranno lo “scandalo” della sua presenza in un nido di travestite. Grazie all’appassionato amore per il piccolo, il romanzo mette in scena forme di parentela fuori dagli schemi e modi di stringere legami differenti da quelli mediati dal sangue e dalla genetica: una maternità fondata sull’affetto e la cura, fisicamente incapace di partorire, ma non di concepire e generare il nuovo. A questa maternità elettiva si contrappongono crudelmente l’orfanezza, l’espulsione precoce dalle famiglie d’origine, la furia della “normalità” che circonda di una livida aureola l’esistenza delle trans, il cui tempo è terribilmente breve. “Cuantas muertas mas?” è la domanda che echeggia nelle loro manifestazioni e che Sosa Villada insedia nel testo raccontando la morte delle compagne uccise, suicide, divorate dall’Aids. Nemmeno la religione sembra disposta a tollerarle, e per questo, forse, si rifugiano in culti bizzarri o nella devozione per i santitos “non ufficiali” come la Defunta Correa, perita nel deserto e capace di allattare il suo bambino anche da morta (e Sosa Villada insinua: il bebè del parco non potrebbe essere il figlio della Defunta, del quale più nulla si è saputo?).

Accanto a personaggi e situazioni durissimi e realistici (la sprezzante ipocrisia dei clienti, i soprusi estremi della polizia che stupra ed esige mazzette, l’affermazione di un’identità derisa e negata), nell’universo finzionale del romanzo ne intervengono altri che rimandano al fantastico: uomini senza testa, neonati chiaroveggenti, eterne giovinezze come quella di Zia Encarna, che ha centosettantotto gloriosi anni. Il corpo torturato e desiderante delle travas, sempre in primo piano, ci si presenta come un’audace opera d’arte sempre in divenire, sempre rielaborata e modificata, e i frequenti richiami al mondo animale sono metafora della trasformazione: la sordomuta Maria mette le piume, rimpicciolisce, diventa un uccellino; Natalí assume la forma di una lupa a ogni plenilunio. Presenze che sembrano nascere, più che da una rilettura del realismo magico, dalla narrativa orale e popolare che è arrivata all’autrice attraverso le zie contadine o il folklore urbano.

Nonostante arrivi da una sopravvissuta all’invisibile campo di concentramento in cui le trans sono costrette a vivere, il racconto rifugge dal vittimismo e dal lamento: nell’appropriarsi del linguaggio, Camila reclama un territorio dal quale manifestare apertamente la desolazione e la collera, esercitare l’ironia, svelare le menzogne, rendere visibile il danno, travasare fierezza nei più logori insulti (scriveva Lohana Berkins: “Abbiamo deciso di dare nuovi significati alla parola travesti e di legarla alla lotta, alla resistenza, alla dignità e alla felicità”) e farlo in forme dichiaratamente artistiche e letterarie, senza rinunciare al significato politico nel senso più ampio del termine e dando un peso speciale al non detto, al silenzio che disegna l’inesprimibile.

Non ha caso Sosa Villada dice, nel discorso di accettazione del premio: “Il mio è un libro complice perché anestetizza la colpa di una società che voleva il mio cadavere e quello di molte altre, e che ancora li vuole. È un libro che copre una mancanza della cultura ed è complice perché non racconta neppure il dieci per cento dell’orrore che è stato essere travesti venticinque anni fa. A quell’età, spaesata come una pantera nel cuore della città. Non è possibile scrivere di quegli anni, e questo è il segreto del romanzo, ciò che lo rende accessibile al dolore e alla parola. Tutto il resto rimane in silenzio ed è in ogni pagina. Perché il libro smetta di essere complice con il genocidio trans, devo essere onesta con voi. Sono una scrittrice incapace di parlare di quegli anni, di quello che c’era nell’aria e che ancora non posso descrivere”.
 

***
 
Scheda
 

“Chi se lo sarebbe aspettato, dieci anni fa, che a una ragazza trans come me avrebbero dato un premio che porta il nome di una suora, e per un libro come Las malas!” dice Camila Sosa Villada. Già, chi se lo sarebbe aspettato, dieci o venti anni fa, che il mondo del travestismo argentino, condannato a un’emarginazione così assoluta da somigliare a una cancellazione, sarebbe diventato produttore di cultura, con scrittrici e artiste come Susy Shock, poetessa e cantante, o Naty Menstrual, autrice del più che notevole libro di racconti Continuadísimo, o saggiste come Marlene Wayar, che è stata direttrice di El Teje, prima rivista trans pubblicata dal 2007 al 2012. E poi iniziative come il Bachillerato Popular Travesti-Trans Mocha Celis, la prima scuola trans del mondo, che offre la possibilità di conseguire un titolo di studio a persone costrette alla prostituzione perché rifiutate dalla famiglia e dalla scuola, e la Cátedra Trava presso l’Università di Buenos Aires (un corso libero, gratuito e itinerante gestito dal Movimento Popular La Dignidad), e, ancora, l’Archivo de la Memoria Trans, collettivo che costruisce e rivendica la memoria tramite foto e video. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il movimento iniziato nei primi anni ’90, quando le travas decisero di prendere in mano il proprio destino scendendo nelle strade, irrompendo nello spazio pubblico, stabilendo alleanze per demolire la disuguaglianza legata “all’identità di genere, la sessualità, la razza, la classe sociale, l’etnia, l’età, l’ideologia in contesti differenti” come ha sottolineato una delle leader del movimento, Lohana Berkins, scomparsa nel 2016, come scomparsa è Diana Sacayán, comunista e piquetera uccisa in un crimine d’odio. È grazie a questa enorme mobilitazione e alla sponda che ha trovato nei governi di Nestor Kirchner e Cristina Fernández che l’Argentina ha oggi una legislazione avanzatissima, composta dalla Ley de Matrimonio igualitario del 2010, la Ley de Género del 2012 e quella approvata nel 2020 sul “cupo laboral” per riservare almeno l’1% dei posti di lavoro pubblici alle trans “che possiedano le condizioni di idoneità per l’incarico”. Anche se il processo è lento e pieno di ostacoli e le leggi finiscono spesso per risultare una semplice manifestazione di buona volontà, la nuova situazione giuridica offre almeno un minimo di protezione a chi è sempre stato sottoposto all’arbitrio più brutale. Una lotta che guarda al futuro, come fa notare Sosa Villada: “Sappiamo che nascono e nasceranno altre come noi, e non vogliamo che subiscano quello che abbiamo subìto”.

 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021

Da leggere: Diamela Eltit

 


Diamela Eltit



Ma le ossa resistono 

“Mai ci fu tanto affetto doloroso/mai il lontano aggredì tanto vicino/ mai e poi mai il fuoco/meglio un ruolo giocò di freddo morto!”, si legge in I nove mostri di César Vallejo, poesia del 1939 sulla sofferenza del corpo come riflesso e conseguenza dell’ingiustizia sociale, e non è certo un caso che Diamela Eltit ne abbia tratto il titolo per l’ottavo dei suoi undici romanzi, ora pubblicato da gran vía nell’eccellente traduzione di Raul Schenardi (Mai e poi mai il fuoco, pp. 160, e. 16). I versi di Vallejo, infatti, sono profondamente affini a quella “poetica del dolore” di cui Eltit ha posto le basi negli anni Settanta con le sue performances per il Colectivo Acciones de Arte, poi abbandonate a favore di una pratica letteraria altrettanto intensa e potente, che mira all’esplorazione della violenza esercitata prima dalla dittatura militare e poi dal mercato sui soggetti subalterni, espropriati dell’identità e del linguaggio.

Nel romanzo, apparso per la prima volta in Cile nel 2007, sono ben riconoscibili sia l’influenza della neoavanguardia e di uno sperimentalismo cui l’autrice non ha mai rinunciato, sia la coerenza che, pur con registri, tematiche e strategie testuali differenti, connota una scrittura fondata su un’esigente ricerca estetica e su un progetto politico via via più radicale. Come in una pièce di Beckett (uno tra gli autori favoriti di Eltit) ci viene presentata una coppia chiusa in una stanza dove l’esistenza si svolge secondo piccoli e intangibili rituali, un guscio miserabile dove si annidano il disfacimento dell’ideologia, dei corpi, degli affetti, mentre lo spazio della città, teatro di violenze nuove e nuovi allarmi, è percepito come una minaccia dagli abitanti della casa-tana, ormai divenuti un tutt’uno con essa.

Nonostante la dittatura sia finita da tempo, i due personaggi senza nome (un ex leader della sinistra e una militante agguerrita, insieme sin da quando erano giovanissimi) continuano a vivere in una sorta di spartana clandestinità, schiacciati dalla disillusione ed estranei al nuovo secolo e alla società neoliberale coltivata in vitro dal regime di Pinochet e rigogliosamente cresciuta dopo la sua fine. L’ingrato compito di avventurarsi all’esterno tocca a lei, responsabile della sopravvivenza, mentre lui non si alza quasi più da un letto che non è luogo del desiderio o del riposo, ma un nascondiglio dove gli antichi amanti si disputano ogni centimetro, tra i fantasmi dei compagni morti sdraiati sul pavimento, appoggiati alle pareti, seduti sul bordo del materasso, pronti ad annuire o disapprovare, oppure a esibire le stimmate della tortura.

La stanza finisce così per rassomigliare a una Comala ben più tragica e inquietante di quella del Pedro Paramo di Juan Rulfo, e proprio queste presenze spettrali, insieme alle visioni paranoidi che inducono la protagonista a narrare di un assassinio (il suo) avvenuto in anni lontani per mano del compagno, alimentano l’ambiguità fitta di simboli e allegorie che Eltit abitualmente coltiva, insinuando dubbi sulla natura e la consistenza della realtà: forse i personaggi sono soltanto ombre, forse lo spazio che occupano è tomba segreta, una delle tante occultate dalla dittatura?

Tra i due è la donna a rifiutare di arrendersi del tutto, mai stanca di analizzare le cause della sconfitta e di rivivere il modo in cui ha preso forma: legge e cita con ferrea fedeltà Il Capitale (metatesto onnipresente) per trovare appoggio ai propri argomenti, ricostruisce volti e voci dei militanti scomparsi, continua a evocare il figlio, probabilmente concepito durante uno stupro in carcere e morto bambino perché portarlo in ospedale avrebbe significato infrangere la clandestinità e mettere in pericolo la cellula, l’ultima tra le tante fondate, organizzate e disciolte. La sua memoria non fruga nelle atrocità della dittatura, ma nelle strategie politiche che fra tutti hanno contribuito a elaborare e nelle loro conseguenze, sommando contraddizioni, vuoti, digressioni deliranti che l’autrice utilizza per mettere in discussione tanto il discorso del romanzo realista sulla post-dittatura quanto l’epica che circonda l’utopia rivoluzionaria, la cui estinzione filtra dalle lacune di una perenne incertezza temporale. La voce narrante non sa dire se certi eventi sono accaduti dieci, cento o mille anni prima, perché l’accumularsi delle catastrofi ha in qualche modo cancellato il tempo, mescolando un passato pieno di falle e zone buie a un presente nebuloso, scandito dalle necessità del corpo e dall’avvicinarsi della morte.

Priva di una trama vera e propria, la narrazione accosta ricordi, squarci onirici e frammenti di quotidianità: un torrente di parole e immagini, un monologo spezzato da rari tentativi di dialogo e affidato a una voce che affonda nel caos. Anche se l’uomo, chiuso in un’afasia piena di rancore, dalla sordida trincea del letto la invita al silenzio e rifiuta ogni tentativo di condivisione, la protagonista non intende tacere e ricorre al desueto vocabolario della militanza, scomparso insieme a coloro che l’hanno usato per lunghissimi dibattiti su un futuro mai raggiunto e per strenue rese dei conti interne. E la tormentata rievocazione di lei non manca di sottolineare come e fino a che punto il corpo e l’identità delle donne siano stati sottoposti alla normatività maschile, interiorizzata anche da una sinistra in lotta contro la dittatura: dinamiche subìte e insieme accettate con disciplinata ma non inconsapevole complicità.

Come sempre nella narrativa di Eltit, anche in Mai e poi mai il fuoco si rivela centrale il tema del corpo, che campeggia in ogni pagina: i mille dolori fisici elencati nel lungo cahier de doléance dei protagonisti, il parto in clandestinità, la malattia e la morte del figlio, sacrificato all’esistenza di un gruppo destinato a disgregarsi di lì a poco, fino agli sfioramenti involontari sul sudicio materasso di gommapiuma, all’ avido ingozzarsi di lui, alla mano paralizzata dai crampi, ai piedi che strisciano sul selciato. Tutto il romanzo, poi, è attraversato da allusioni e riferimenti alla cellula intesa come frazione del movimento clandestino e come unità minima della vita, che richiamano la dialettica tra corpo biologico e corpo politico, entrambi modellati dal contesto sociale ed economico, nonché inesauribile campo di battaglia per il potere.

Pura, terrificante corporeità sono inoltre gli anziani ridotti a carcasse impotenti che lei, per guadagnare qualche soldo, lava e ripulisce ogni settimana, vezzeggiandoli come bambini. Gli arti anchilosati, le piaghe, gli odori, gli sguardi appannati descritti con minuzia (una vera e propria parentesi iperrealista nel flusso allucinato del monologo), fanno da contrappunto al disgregarsi della cellula e alla fine dell’illusione. Sotto la carne in disfacimento, però, restano le ossa, altro elemento ricorrente nell’opera di Eltit, simboli di un corpo dissidente che riemerge con ostinazione, bucando la memoria e affermando la possibilità di resistere.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021

domenica 17 ottobre 2021

Da leggere: Andrea Abreu

 


Andrea Abreu



Alle pendici del vulcano 

Parlare di Pancia d’asino (Ponte alle Grazie, pp. 160, e. 15), romanzo d’esordio di Andrea Abreu che in Spagna ha riscosso un successo considerevole quanto imprevisto, significa innanzitutto rispondere a una domanda: fino a che punto si può rendere in un’altra lingua un libro in apparenza intraducibile? Perché a distinguere Panza de burro (questo il titolo originale con cui è apparso presso Barret, piccolo editore sivigliano) è in primo luogo l’uso del linguaggio, impregnato di neologismi, vocaboli scritti come si pronunciano, onomatopee, volontari errori di grammatica e sintassi, anglicismi, saltuaria rinuncia alla punteggiatura e soprattutto localismi. Una versione libera e personale, insomma, della “parlata” di un paesetto delle isole Canarie, che rimanda all’infanzia dell’autrice (nata nel 1995 in un borgo arrampicato sulle pendici del vulcano di Tenerife) e che ha affascinato i lettori spagnoli.

Un testo del genere, basato su una voce aliena alle convenzioni e alle norme della lingua, rappresenta per qualsiasi traduttore una sfida che Ilide Carmignani ha saputo raccogliere, restituendoci attraverso un lavoro minuzioso e creativo buona parte del sapore di una prosa che non si limita a raccontare, ma individua un’epoca (l’inizio degli anni duemila) e un contesto sociale, culturale e geografico. Poco importa che questa scrittura “orale” non sia cosa nuova, ma si ispiri per ammissione della stessa autrice a romanziere latinoamericane come Rita Indiana, Pilar Quintana o Aurora Venturini , o al canario Víctor Ramírez, perché Abreu ha saputo trovare un tono proprio e immediatamente riconoscibile, al tempo stesso sboccato e immaginoso, crudo e lirico, pieno di umorismo e di malinconia.

Diario dell’estate condivisa da due ragazzine che affrontano il tumultuoso passaggio dall’infanzia all’adolescenza, Pancia d’asino narra in prima persona il rapporto intenso e diseguale tra Isora, audace e impudica, avida di esperienze e di cibo (ma che si procura il vomito dopo ogni abbuffata), e la timida e incerta narratrice senza nome, che l’amica chiama “shit” come per sottolineare la comune attenzione alle secrezioni e agli umori più segreti di una fisicità “sporca” e disinibita. Isora comanda, shit obbedisce ciecamente: quello che la lega all’amica, infatti, è in realtà un primo amore fatto di ammirazione, gelosia, sperimentazioni sessuali, masturbazioni condivise, invidia e venerazione per il corpo dell’altra, descritto e adorato in ogni dettaglio, dal seno nascente alle unghie orlate di sporco alla “patata” su cui già cresce un vello che Isora rade con ostinazione.

La scoperta del sesso (simboleggiata in qualche modo dalle fantasie di shit sull’eruzione del vulcano e sul fiume di lava che potrebbe travolgere ogni cosa) è il filo conduttore del romanzo, e, se è vero che la letteratura contemporanea è piena di appassionate amicizie femminili e adolescenziali (dall’inquietante e raffinato Lo dice Harriet di Beryl Bainbridge al recente Mandibula di Monica Ojeda), va detto che Pancia d’Asino possiede una sua indubbia originalità grazie ai personaggi sapientemente modellati dall’autrice e a un suggestivo quadro d’ambiente, che emerge dall’andare e venire tra case giocattolo dai colori accesi, campi e dirupi, lontano dalle spiagge riservate ai turisti, sotto il tetto di nuvole sospinto contro il vulcano dagli alisei e simile alla pancia argentea di un asino. Un paesaggio che fa da sfondo a vagabondaggi, a piccole avventure, all’assenza dei genitori che lavorano giù in basso, alla presenza implacabile delle vecchie rimaste in paese, che tramandano usanze e leggende, tolgono il malocchio e rivelano nei lineamenti l’eredità dei Guanches, antichi abitatori delle isole.

L’universo rurale e quasi arcaico che si sovrappone all’immagine di una Tenerife da cartolina non è, tuttavia, isolato come sembra. Ne siano consapevoli o no, le ragazzine sono parte di un mondo più vasto con cui condividono le barbie, i Pokémon, certi consumi, serie tv, canzoni, l’internet offerto dal Centro culturale. E questi assaggi ed echi di un mondo globale, questi brandelli di modernità, contribuiscono a dare al romanzo una dimensione di straniante autenticità e un’indubbia coloritura politica, visti e agiti come sono a partire dalla marginalità e dall’esclusione in cui vivono Isora e shit.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021


mercoledì 13 ottobre 2021

Da tradurre: Miguel Martínez del Arco

 


Miguel Martínez del Arco



L’allegria come orizzonte 

Figlia di una ragazza madre analfabeta, unica della sua famiglia ad arrivare fino alle soglie dell’università, comunista sin da giovanissima, imprigionata a ventun anni, uscita dalle carceri franchiste a quaranta, compagna per sempre di Ángel Martínez, dirigente sindacale di cui si innamorò durante il loro comune processo (tra tutti e due scontarono complessivamente quarantaquattro anni), Manoli del Arco è stata una militante fino all’ultimo giorno della sua vita, che ha incluso fughe rocambolesche, false identità, resistenza mai piegata, costante attività politica e sociale. Ed è stata anche una madre, perché nonostante le lesioni all’utero provocate dalla tortura, una volta ritrovato il suo compagno ha avuto un figlio che ha trascorso l’infanzia e la prima adolescenza in una Spagna mai stanca di perseguitare i suoi genitori, usciti di prigione solo per “entrare in un carcere più grande”, almeno fino a una Transizione ipocritamente pacificatrice.

Manoli è scomparsa nel 2006 a ottantasei anni, e in questi giorni suo figlio, il sociologo Miguel Martínez del Arco, ha presentato a Madrid Memoria del frío (Hoja de lata, pp. 448, e. 22.90, prefazione di Edurne Portela), un poderoso romanzo-verità sulla storia della madre ispirato dalle cinquemila lettere che i genitori si scambiarono da carcere a carcere, e in cui trova ampio spazio la comunità di prigioniere pronte a creare, nel luogo in cui venivano umiliate, affamate, vessate, legami di sorellanza e mutuo appoggio, escogitando stratagemmi per comunicare con l’esterno, studiando e discutendo, condividendo ogni cosa. “Femministe, lo sapessero o no”, dice Miguel, che dedica il libro “Alla memoria di mia madre e delle sue amiche/compagne che hanno resistito al franchismo e ci hanno lasciato in eredità la capacità di ridere”. Perché oltre alla “disobbedienza, la ribellione, l’opposizione all’ordine esistente, la possibilità di migliorare, la cura, la lotta contro l’ignoranza e l’ingiustizia”, a connotare queste formidabili donne è stato lo sguardo verso il futuro, avendo “l’allegria come orizzonte”. Ricordare che tutto questo è davvero accaduto, al di là di una memoria ufficiale omissiva, stanca e imbalsamata, sembra oggi un dovere ineludibile, in una Spagna che (proprio come il nostro paese) non ha mai fatto i conti fino in fondo con il passato.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021



Da leggere: Julián López


Julián López


 


Una madre diversa dalle altre 

Un bambino con i capelli rossi (unica eredità di un padre mai conosciuto, la cui assenza lascia immaginare un precoce abbandono) e una giovane madre incantevole e misteriosa, che condividono una solitudine a due nel loro modesto appartamento di Buenos Aires, a metà degli anni ’70: ecco i protagonisti di Una ragazza molto bella, primo romanzo del poeta Julián López ora tradotto da Sara Papini per Alessandro Polidoro Editore (pp. 172, e. 16), che va presentando un’ottima e meditata scelta di scrittori latinoamericani contemporanei.

Un libro indimenticabile, l’ha definito la grande scrittrice e cronista argentina Maria Moreno, e con ragione, perché López riesce non solo a evocare un’epoca con densa brevità e attraverso la somma di innumerevoli dettagli, ma anche a innovare il racconto di un tema già trattato infinite volte, e soprattutto a ricostruire il rapporto tra una madre diversa dalle altre e un figlio che, divenuto adulto, si affida allo sguardo dei suoi sette anni per riordinare i ricordi degli ultimi mesi trascorsi con lei.

– Mia madre era una ragazza molto bella, mia madre mi amava – ripete più e più volte il narratore: una reiterazione che riafferma il vincolo d’amore, ma rinnova anche l’ansia e l’incertezza. Rapito nella costante osservazione di una “ragazza” che non si annulla in una maternità ciecamente servizievole, ma gli spiega che i libri “fanno la differenza” e gli manda allegre cartoline per fantasticare su viaggi mai avvenuti, il figlio intuisce che entrambi vivono in un tempo irreale e sospeso, sa che la madre non esiste solo per lui, che nella sua vita c’è dell’altro, un segreto in cui si nasconde un vago annuncio di catastrofe.

Tra l’azzurra luminosità dell’Orto Botanico, il grigiore opalino della nebbia, la penombra delle stanze, le rare visite dello zio e l’affettuosa presenza della vicina Elvira, matura ex cantante di tango, non risuonano mai parole come guerriglia, repressione, politica, militanza. Il bambino non le conosce, perciò il narratore le esclude, così come evita, grazie a un uso frequente dell’ellissi, la rappresentazione diretta della violenza (l’irruzione dei militari, la devastazione dell’appartamento, il sequestro della madre), ma non tralascia di costellare il testo di tracce spesso nascoste in simboli e metafore.

La foto del Che sulla parete, la picana distrattamente nominata dallo zio durante una gita in campagna, il passaggio di un convoglio militare, il terrore di non veder riapparire la madre quando si tuffa, gli animali crudelmente uccisi, la scalinata sulla scogliera che porta al vuoto di un precipizio, certe piccole frasi della “ragazza bella”, le sue lacrime quando la tv parla di Monte Chingolo (luogo della sanguinosa sconfitta dell’Ejército Revolucionario del Pueblo nel dicembre del 1975): nessuna immagine, nessun accenno è casuale. Il vuoto tra la scomparsa della madre e l’età adulta è, invece, qualcosa che il narratore non intende riempire, nemmeno adesso che ha deciso di scrivere per “respirare”, per smettere di essere soltanto il figlio di una desaparecida, spezzato dall’enorme peso di un’eredità che gli è stata imposta.

Il romanzo ha molto in comune con un vasto corpus narrativo, consolidato e spesso pregevole, i cui autori sono i figli di vittime della dittatura che rifiutano la letteratura testimoniale e propongono altre forme di rappresentazione del trauma, come lo humor nero, l’irriverenza, il fantastico, il collage di residui e frammenti (foto, lettere, ricordi altrui), l’abbandono degli stereotipi eroici, uno sguardo legato all’immaginario infantile e all’intimità. Una visione laterale e “dal basso” che López condivide, ma con alcune differenze; la più evidente sta nel fatto che, pur avendo perso la madre da bambino e a pochi mesi dal golpe, l’autore non è figlio di una desaparecida e innesta la propria esperienza dell’orfanezza in quello che è ormai divenuto quasi un genere a sé e che si fonda abitualmente sul dato autobiografico. Forse è anche per questo che, nota Moreno, il figlio non scrive per evocare la vita di una vittima, ma “per far esistere la madre sotto la luce del suo sguardo amoroso”.

Nel racconto non c’è ombra di recriminazione o rancore per le scelte della “ragazza bella” e per il suo definitivo e involontario abbandono, ed emerge piuttosto il desiderio di restituirle la corporeità che le è stata violentemente sottratta. Da qui l’insistenza sulla sua bellezza, sul colore e la densità della chioma, sul calore del contatto, sull’odore, sulla grazia sensuale del corpo materno: un potere di seduzione che il narratore sottolinea introducendo una citazione di La caricia perdida di Alfonsina Storni (la poesia preferita dalla madre) in cui la donna appare come soggetto desiderante e responsabile del proprio destino.

Tutto questo López l’ha travasato in un realismo lirico così limpido da cancellare qualsiasi sospetto di banalità o di retorica, e nel ritmo misurato e ipnotico di una prosa che, come Viktor B. Šklovskij consigliava in un suo libretto tradotto più da vent’anni fa da Pia Pera (Il mestiere dello scrittore e la sua tecnica, 1999), richiede di essere letta “lentamente, con calma, senza saltare, soffermandosi”. Perché, sottolinea Šklovskij, “Non ce ne sono poi troppi di libri buoni, di libri che bisogna assolutamente leggere”. E Una ragazza molto bella è senz’altro fra quelli.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021

lunedì 11 ottobre 2021

Da leggere: Mariana Enríquez

 


Mariana Enríquez



Un maelström narrativo 

Algo está pasando (Sta succedendo qualcosa) è il titolo di un articolo apparso nel mese di giugno sulla rivista Lengua, così felicemente approfondito da richiedere la pubblicazione in tre puntate. Leila Guerriero, notissima autrice di crónicas ma anche editor sperimentato, si è servita di questo spazio per esaminare “una costellazione di autrici dalle voci potenti, che provengono dalla stessa zona” – ovvero l’America latina – e della loro crescente fortuna editoriale in patria e all’estero, accompagnata da “un’alluvione di premi internazionali e una tempesta di recensioni elogiative”, e talvolta da un discreto successo di vendite, come quello che ha premiato, per esempio, l’indubbia qualità degli ultimi romanzi di Valeria Luiselli e Guadalupe Nettel, entrambe messicane.

Tra i nomi che ricorrono più spesso tra i molti citati nella minuziosa indagine di Guerriero c’è, inevitabilmente, quello dell’argentina Mariana Enríquez, scrittrice singolarissima (ma anche giornalista culturale, crónista, biografa di Silvina Ocampo) il cui ultimo romanzo, oltre a fare incetta di premi e a venire tradotto in venti paesi, sembra lanciare con fiduciosa noncuranza una sfida a lettori e critici, ammaliati e sopraffatti da un racconto monstre che sfugge a ogni definizione e sembra riassumere e dilatare tutta la produzione precedente dell’autrice, finora nota ai lettori italiani per la magnifica antologia di racconti Le cose che abbiamo perso nel fuoco, pubblicata da Marsilio nel 2017.

Apparso nel 2019 presso Alfaguara, il romanzo in questione arriva adesso in libreria nell’eccellente traduzione di Fabio Cremonesi (Marsilio, pp. 720, e. 22) esibendo un titolo tratto da un verso di Emily Dickinson, La nostra parte di notte, e una trama di solida architettura suddivisa in sei parti che, senza attenersi all’ordine cronologico, si dipana durante la dittatura militare e la presidenza Menem, con ampie incursioni nel XIX secolo, nell’orgiastica swinging London degli anni ’60 e nell’Africa coloniale. Ciascuna parte rimanda alle altre ma possiede caratteristiche proprie, articolata com’è intorno a punti di vista differenti, espressi quasi sempre da una nitida terza persona che a volte cede il passo alla prima (è il caso, per esempio, del ben orchestrato reportage di una giornalista o dei ricordi di Rosario, compagna del protagonista) e connotati da uno stile preciso, da una diversa “coloritura” del terrore e dall’aggancio alla realtà, testimoniato dal richiamo a vicende effettivamente accadute, ma anche dal rapporto stabilito tra il fantastico più estremo e la banalità quotidiana.

La storia dell’Ordine, una setta composta da famiglie dell’oligarchia che perseguono la vita eterna attraverso il culto di un dio oscuro e vorace, procede in parallelo a quella dell’Argentina e se ne nutre, nascondendosi dietro i crimini della dittatura e generando al pari di essa fantasmi senza pace, sparizioni, segreti: fondato sul dolore e la mutilazione, L’Ordine pratica il rapimento di bambini, la tortura di corpi offerti in sacrificio, la semi-schiavitù dei medium che, per chiamare il dio, bruciano in fretta la propria vita. La dittatura e la sua capacità di produrre una memoria atroce quanto inesauribile si infiltrano dunque nel romanzo e sembrano fare da collante alle mille storie e agli innumerevoli personaggi di La nostra parte di notte, a cominciare dai protagonisti Juan (eroe byroniano sospeso tra il Bene e il Male) e suo figlio Gaspar, oppressi da un terribile dono ereditario e incalzati dall’Ordine.

Una lettura del romanzo in chiave politica nasce spontanea, e a rafforzarla affiorano le allusioni a una condizione infantile disperata o all’emarginazione di intere classi sociali imposta dal modello neoliberista. Eppure sarebbe riduttivo decifrare La nostra parte di notte solo in base alla sua capacità di esplorare in modo eterodosso le ferite di una società, anche se la sotterranea presenza del discorso politico risulta in qualche modo naturale, quasi ovvia, nell’opera di chi come Enríquez è nato alla vigilia di un colpo di Stato e ha trascorso l’infanzia alla sua ombra (non è la stessa cosa, sottolinea l’autrice, trovare delle ossa in un’abbazia medioevale o nell’Argentina di oggi). Il romanzo, infatti, è anche un viaggio alla ricerca dell’identità, una saga familiare, una rappresentazione del rapporto padre-figlio, un discorso su tutte le forme del desiderio e su corpi ridotti a scarto e rifiuto, sfruttati, usati, violati, corpi mostruosi e temibili, corpi esausti e malati, metamorfici e in rivolta.

Non va dimenticato, infine, che il romanzo manifesta orgogliosamente la sua appartenenza al genere e che del genere sfrutta con abilità ogni meccanismo, convenzione e sfumatura, mescolando infiniti ed eterogenei riferimenti letterari (da Stephen King a Shirley Jackson, da Henry James a Ballard, da Clive Barker fino a Rimbaud, William Blake, Alejandra Pizarnik ed Ernesto Sabato, per citarne soltanto alcuni) con i rimandi alla pittura romantica o surrealista, la poesia, il rock, i comics, il cinema, la religiosità popolare dei santitos, la magia, la fiaba. Un testo in cui Enríquez ha convogliato gli esiti di un percorso profondamente personale, costruito a partire da una ricerca costante e da sconfinate letture, ma che prescinde da una semplice ars combinatoria: La nostra parte di notte, autentico maelström pronto a inghiottire il lettore, prende da tutti e non ruba a nessuno, perché ogni suggestione, ogni immagine, ogni materiale viene restituito in forma ancora riconoscibile eppure del tutto originale, fino a farci sospettare che quanto ci viene proposto non sia il rinnovamento, ma piuttosto la rifondazione di un genere.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021

lunedì 27 settembre 2021

Da leggere: Lina Meruane

 


Lina Meruane



Dal cosmo al corpo 

Racconta Lina Meruane che quando cominciò a pubblicare, una ventina di anni fa, le grandi scrittrici cilene della prima metà del novecento (mai riconosciute fino in fondo, a parte l’icona quasi sacra del Nobel Gabriela Mistral) erano state “nascoste sotto il tappeto”, mentre quelle della generazione successiva avevano dovuto misurarsi con il cupo silenzio imposto dalla dittatura. Alle autrici nate alla vigilia del golpe è toccato invece farsi largo in un contesto dove le donne avevano ancora scarso spazio, riuscendo comunque a imporsi come punto di riferimento per i lettori, per la critica e per la schiera di giovani e giovanissime scrittrici latinoamericane oggi alla conquista di un successo sempre crescente.

È appunto tra queste “magnifiche cinquantenni” della letteratura cilena (tra le altre, Nona Fernández e Alejandra Costamagna, note anche nel nostro paese) che si colloca Meruane, la cui scrittura continua a evolversi in modo sorprendente e a sperimentare stili e fraseggi nuovi, senza però distogliere lo sguardo dai personaggi femminili e dai temi che da sempre sono al centro della sua attenzione, in primo luogo quello della malattia, sostenuto da forti radici autobiografiche. Da quando aveva sei anni, infatti, Meruane convive con una forma di diabete che le ha danneggiato la vista (per i suoi genitori, una coppia di medici, è stata allo stesso tempo figlia e paziente) ed è cresciuta in una casa dove i dialoghi e le discussioni degli adulti componevano un racconto appassionante quanto un poliziesco, con i sintomi in luogo di indizi e la diagnosi giusta come soluzione dell’enigma.

L’autrice ha poi trasferito questo singolare retroterra e il bagaglio linguistico che lo accompagna in saggi come Viajes Virales (2012), sull’Aids nella letteratura latinoamericana, o il recentissimo Zona ciega, tres ensayos sobre visión y ceguera, appena pubblicato da Penguin Random House, e soprattutto in alcuni romanzi che sembrano comporre una trilogia sul corpo e i suoi cedimenti: Fruta podrida, del 2007, Sangue negli occhi, edito in Italia nel 2013 da La Nuova Frontiera, e Sistema nervoso, ora tradotto per lo stesso editore da Elisa Tramontin (pp. 250, e. 17,90 ). Se Fruta podrida parla di una giovane diabetica che rifiuta con ostinazione di curarsi, Sangue negli occhi narra l’improvvisa cecità di una donna che pretende dalla medicina la certezza della guarigione, mentre in Sistema nervoso la protagonista e la sua famiglia sono immersi in un continuo negoziato con le proprie patologie, affrontate da punti di vista differenti (l’occhio clinico, l’assoluta noncuranza, l’ipocondria, la negazione), mentre la malattia diviene una sorta di codice intimo, di lingua degli affetti.

Tutto ha inizio quando una giovane astrofisica, in un luogo chiamato “paese del presente” e facilmente identificabile con gli Stati Uniti, invoca l’arrivo di una malattia non troppo grave che le consenta di prendersi una pausa dall’insegnamento e concludere l’eterna stesura della sua tesi di dottorato, finanziata all’insaputa di tutti dal padre che, insieme al resto della famiglia, vive nel lontano “paese del passato” (il Cile?). Un desiderio insolito, quasi indicibile, in un mondo votato al culto della salute: ammalarsi per avere più tempo, un tempo solo per sé, sempre negato da quella che Byung-Chul Han ha definito “società della stanchezza”.

E il desiderio si realizza prontamente: spalla e braccio diventano insensibili e inerti, il corpo dell’ammalata viene affidato a macchine onniveggenti, scrutato e palpato da specialisti diversi. Le diagnosi sono talmente vaghe e incerte da imporre un rassicurante rientro nel paese del passato (riconvertito dal ritorno in quello “del presente”, secondo un gioco temporale rilanciato di continuo), mentre il romanzo si avvia a sovvertire buona parte delle convenzioni legate all’antico e solido rapporto tra letteratura e malattia.

Dal sistema solare studiato dalla protagonista siamo così proiettati nel sistema del corpo e in quello familiare, descritto a partire dalle storie cliniche dei suoi membri, mai indicati con un nome proprio: accanto a Lei, l’astrofisica, c’è uno scorbutico Lui, etnologo che si occupa di antiche ossa; il Padre è un medico in pensione costretto a una lunga degenza in un miserevole ospedale pubblico, la Madre (in realtà una matrigna, perché quella biologica è morta di parto); è una ginecologa che ha sconfitto il cancro; il Primogenito è il fratello maggiore che continua a procurarsi incidenti, esprimendo con fratture e ferite il suo costante furore… Intorno a loro, intanto, si muove il corpo rivoltoso del “paese del passato”, sul quale si leggono le incancellabili cicatrici della dittatura, ma anche quelle provocate da una democrazia insufficiente e incompleta (non a caso il primo fra i tre saggi di Zona ciega, intitolato Matar el ojo, parla delle quasi quattrocento persone che, durante le grandi manifestazioni popolari del 2019, le pallottole dell’esercito cileno hanno colpito agli occhi, rendendole parzialmente o del tutto cieche).

Meruane sembra aver scelto i segni e i codici della malattia per mettere in relazione il corpo individuale e quello collettivo, collegando una serie di sistemi (fisici, sociali, economici, politici) che si incrociano, si sovrappongono o si specchiano l’uno nell’altro, lasciando affiorare questioni cruciali: per esempio la percezione, nel “paese del presente”, dei corpi migranti come malattie letali da espellere o annientare; la progressiva distruzione del pianeta, anch’esso corpo vivo e malato; la violenza contro il corpo femminile all’interno di un sistema tenacemente patriarcale; la riflessione sullo sguardo scientifico sempre più parcellizzato; il modo in cui la classe sociale e il censo consentono o negano l’accesso alla cura.

A questa densità di argomenti si aggiungono l’oscillare continuo della memoria e un intreccio di simboli, metafore, sfumature e allusioni che solo una tecnica narrativa quanto mai solida e raffinata può tenere insieme senza sbavature e senza sforzo apparente; il romanzo ha una struttura complessa, ma Meruane riesce a renderlo lieve grazie a una suddivisione in frammenti attraversati da ironie, paradossi, lampi di umorismo nero e segnati dallo sporadico irrompere di parole in corsivo a gruppi di tre, affini ma non necessariamente collegate, che la critica cilena Lorena Amaro propone di leggere come “sinapsi nervose”.

Potremmo interpretarle, però, anche come lapsus rivelatori, come infinitesimali flussi di coscienza, come cellule inoculate nelle frasi per formare impercettibili protuberanze, cisti o nei sulla “pelle” della scrittura, a dimostrazione del fatto che romanzo e malattia sono intenti a contagiarsi reciprocamente, contribuendo ad aprire una crepa sottile nell’immagine utopica di un corpo inattaccabile e perfetto, e ricordandoci che in fondo, come dice un personaggio del romanzo, “lo strano è vivere”.

 

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Scheda 

Quando Lina Meruane si stabilì a New York, dove oggi insegna all’Università, non poteva sapere che di lì a poco ci sarebbe stato l’attacco alle Torri Gemelle e neppure che, subito dopo, alla sua identità di scrittrice e studiosa cilena se ne sarebbe sovrapposta un’altra, almeno negli Stati Uniti. I suoi nonni paterni, infatti, erano tra le migliaia di palestinesi cristiano-ortodossi che tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento emigrarono in Cile, prima per sfuggire alla decadenza dell’impero ottomano e poi perché travolti dalla Nakba, la catastrofe dell’esodo forzato dopo la nascita di Israele. Oggi i cileni di origine palestinese sono più di 500.000: scienziati, calciatori, industriali, artisti, politici come il comunista Danil Jadue, registi come Miguel Littín, grandi scrittrici come Diamela Eltit… E come Lina Meruane, che, scoprendo di poter essere considerata una “immigrante araba potenzialmente sospetta”, nel 2012 decise di visitare un luogo dove non era mai stata, noto solo attraverso rari brandelli di memorie familiari. Frutto di quel non facile incontro con una realtà durissima sono due libri insoliti e di profondo interesse, Volverse Palestina, a metà tra il saggio e la cronaca, e Palestina, por ejemplo, prima incursione dell’autrice nella poesia, entrambi pubblicati da Penguin Random House. In nessuno dei due si trova traccia di rivendicazioni identitarie o del desiderio di recuperare radici perdute; a trasparire è invece un’assunzione di responsabilità nei confronti del presente e la volontà di affrontare, come ha sottolineato Meruane in un’intervista: “… un problema politico che mi riguarda e mi sfida a farmi carico di quel che sta accadendo laggiù”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021