martedì 30 marzo 2021

Anniversari e addii: Carlos Busqued

 

Carlos Busqued

Unopera esigua, ma perfetta

Lunedì 29 marzo è morto Carlos Busqued, in seguito a quello che viene sibillinamente definito dai giornali argentini e spagnoli “un incidente domestico”. Qualunque sia la causa della sua morte, se ne va a cinquant’anni l’autore di uno dei libri più significativi, intensi e originali sull’ultima dittatura argentina, affrontata nel suo romanzo d’esordio Sotto questo sole tremendo (una recensione dell’edizione italiana si può leggere tra i post del 2014, in questo blog) in modo non esplicito, ma “laterale”, attraverso un’inequivocabile e trasparente “parlare d’altro”.

Busqued era nato nel 1970, all’epoca del golpe aveva sei anni e sfiorava i tredici quando il regime dei generali si è rovinosamente concluso; il suo romanzo – uno tra i più belli apparsi negli ultimi vent’anni in Argentina – appartiene dunque alla cosiddetta “letteratura dei figli”, segnati in profondità dalle conseguenze di una tragedia che continua ad allungare la sua ombra su ogni aspetto della vita nazionale. E il suo magnifico noir, costruito e scritto in modo così magistrale, così crudele e così capace di sconfinare a ogni passo in uno humor che è stretto parente dell’orrore, basta da solo a consacrarlo come un grande scrittore, uno di quelli che la storia della letteratura non può non ricordare, anche quando, come Busqued, lasciano dietro di sé solo una manciata di racconti e due romanzi.

Un’opera esigua, ma perfetta.
 

mercoledì 24 marzo 2021

Da leggere: Juan Benet

 


Juan Benet

 

Un magnifico tentativo

Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso la narrativa spagnola era dominata dal realismo sociale, spesso più attento alla dimensione della denuncia che alla qualità letteraria, come testimonia una produzione narrativa di considerevole abbondanza; alcuni autori, giovani e meno giovani, preferirono tuttavia non inscriversi in questa tendenza e diedero inizio a un rinnovamento destinato a dispiegarsi per intero nei decenni successivi. Juan Benet è stato, fra questi, forse il più brillante e influente: ingegnere madrileno, oltre a progettare strade, dighe e ponti per il Ministero delle Opere Pubbliche coltivò una tenace vocazione letteraria, disegnando la propria rigorosa poetica nel saggio La inspiración y el estilo, scritto quando era un esordiente con un’unica antologia di racconti al suo attivo.

Sin dagli inizi la narrativa di Benet, scomparso a sessantasei anni nel 1993, si identificò con un territorio immaginario, una zona di deserti, boschi e montagne descritta con minuzia maniacale già nel primo romanzo, del 1968, Tornerai a Región (Amos edizioni 2015) che inaugura uno stile di rara potenza, connotato da una sintassi labirintica e sorretto da un intrico di simboli e da un lessico fastoso. L’universo oscuro di Región, luogo mitico la cui accidentata geografia corrisponde a un destino di violenza e rovina, sembra contenere l’insieme dei personaggi e degli eventi che per Benet rappresentano la Spagna del ventesimo secolo (compreso il trauma della guerra civile affrontato tramite metafore e allegorie), oltre a temi più universali, che pongono personaggi e lettori di fronte alla tirannia del caso, alla ominosa presenza del sacro e alla inevitabile sconfitta.

Raramente – ha scritto il critico Ignacio Echeverría – “è dato contemplare un’opera dalla struttura altrettanto compatta e dai motivi così ricorrenti" come quella di Benet, giustamente accostato a Faulkner e a Proust e considerato uno scrittore dalla prosa ardua e complessa. Proprio per questo, nel 1980 suscitò un certo stupore l’apparizione di El aire de un crimen, pubblicato subito dopo il grandioso Saúl ante Samuel (una vera “cattedrale” letteraria, la cui stesura aveva richiesto alcuni anni) e definito dall’autore un romanzo d’azione “per cosí dire hammettiano”, nato dopo un’amichevole sfida a produrre un testo finalmente “comprensibile”. Lo stesso Benet avrebbe poi ricordato, in un articolo per la rivista “Cambio”, il “tentativo di adattare il mio modo di scrivere a un canone narrativo dal quale mi ero deliberatamente allontanato nei miei romanzi precedenti; non così in alcuni racconti”.

Tradotto in italiano per la prima volta da Jaime Riera Rerhen e corredato dell’ottima prefazione di Elide Pittarello, L’aria di un crimine (Einaudi, pp. 232 e. 19,00) sottolinea ancora oggi la riuscita e il valore di quel “tentativo” che si collega alle lontane incursioni dell’autore nel  poliziesco, rintracciabili in racconti come Una línea incompleta (quasi una parodia di Conan Doyle) e Obiter dictum, o in novelle come Sub rosa, e allo stesso tempo si inserisce a pieno titolo e senza cedimenti nel corpus dell’opera di Juan Benet.

Anche L’aria di un crimine si svolge a Región, in un paesetto chiamato Bocentellas e immerso in un’atmosfera di sonnolenta decadenza, dove il cadavere di uno sconosciuto viene abbandonato all’alba accanto alla fontana della piazza per essere poi conservato dentro una enorme botte di acquavite, in attesa che un magistrato decida cosa farne; a quello che con ogni evidenza è un omicidio si aggiungono poi la fuga di due reclute dal vicino forte-prigione di San Mamud, l’arrivo di un gangster azzimato i cui piedi sembrano non toccare terra e i sordidi maneggi di un riccone. Tutto lascerebbe supporre l’inizio di una o più indagini, ma l’unico detective disponibile è il giovane capitano Medina (comandante del forte e idealista ormai avviato al disincanto), che si limita a investigare sulla sparizione delle reclute senza trovare tracce né ricevere risposte attendibili, perché dai bizzarri personaggi interrogati arrivano soltanto frasi surreali, vaneggiamenti sul passato, sentenze tra il mistico e il filosofico. Sotto la quieta superficie della vita paesana, intanto, covano inganni e corruzione, si consumano vendette e stupri feroci, hanno luogo un nuovo omicidio e perfino uno scambio di cadaveri, crimini i cui moventi “sono classici, il denaro e il sesso, ma se poi approdano alla violenza più́ cruda è per effetto del caso, il solo deus ex machina che Juan Benet immette nella sua narrativa”, come nota Pittarello nella prefazione.

In L’aria di un crimine la scrittura si fa più accessibile, mentre i lunghi monologhi lasciano il posto ai dialoghi, le ossessioni descrittive e le divagazioni parafilosofiche vengono ridotte al minimo, il tono ironico e la parodia si accentuano fino a raggiungere il culmine nell’ultimo esilarante capitolo, e la trama, di solito nebulosa e sfuggente, risulta più definita. È indubbio, però, che l’autore evita di tradire il suo mondo narrativo e stabilisce una evidente linea di continuità tra questo e altri suoi romanzi. Come sempre, infatti, Benet adotta un finale aperto, sottolineando così che a interessargli è il processo narrativo e non la ricerca della soluzione, ragion d’essere di qualsiasi poliziesco; inoltre mette in scena alcuni personaggi già presenti nelle varie vicende ambientate a Región, creando una rete di rimandi e allusioni testuali, e com’è suo solito priva il narratore dell’onniscienza, offrendogli in cambio dubbi, incertezze, inquietudine. Non rinuncia, infine, alla presenza del numinoso e dell’inspiegabile, alla frammentarietà e al “disordine temporale”, in un testo dove tutto è in movimento.

Anche L’aria di un crimine si svolge a Región, in un paesetto chiamato Bocentellas e immerso in un’atmosfera di sonnolenta decadenza, dove il cadavere di uno sconosciuto viene abbandonato all’alba accanto alla fontana della piazza per essere poi conservato dentro una enorme botte di acquavite, in attesa che un magistrato decida cosa farne; a quello che con ogni evidenza è un omicidio si aggiungono poi la fuga di due reclute dal vicino forte-prigione di San Mamud, l’arrivo di un gangster azzimato i cui piedi sembrano non toccare terra e i sordidi maneggi di un riccone. Tutto lascerebbe supporre l’inizio di una o più indagini, ma l’unico detective disponibile è il giovane capitano Medina (comandante del forte e idealista ormai avviato al disincanto), che si limita a investigare sulla sparizione delle reclute senza trovare tracce né ricevere risposte attendibili, perché dai bizzarri personaggi interrogati arrivano soltanto frasi surreali, vaneggiamenti sul passato, sentenze tra il mistico e il filosofico. Sotto la quieta superficie della vita paesana, intanto, covano inganni e corruzione, si consumano vendette e stupri feroci, hanno luogo un nuovo omicidio e perfino uno scambio di cadaveri, crimini i cui moventi “sono classici, il denaro e il sesso, ma se poi approdano alla violenza più́ cruda è per effetto del caso, il solo deus ex machina che Juan Benet immette nella sua narrativa”, come nota Pittarello nella prefazione.

In L’aria di un crimine la scrittura si fa più accessibile, mentre i lunghi monologhi lasciano il posto ai dialoghi, le ossessioni descrittive e le divagazioni parafilosofiche vengono ridotte al minimo, il tono ironico e la parodia si accentuano fino a raggiungere il culmine nell’ultimo esilarante capitolo, e la trama, di solito nebulosa e sfuggente, risulta più definita. È indubbio, però, che l’autore evita di tradire il suo mondo narrativo e stabilisce una evidente linea di continuità tra questo e altri suoi romanzi. Come sempre, infatti, Benet adotta un finale aperto, sottolineando così che a interessargli è il processo narrativo e non la ricerca della soluzione, ragion d’essere di qualsiasi poliziesco; inoltre mette in scena alcuni personaggi già presenti nelle varie vicende ambientate a Región, creando una rete di rimandi e allusioni testuali, e com’è suo solito priva il narratore dell’onniscienza, offrendogli in cambio dubbi, incertezze, inquietudine. Non rinuncia, infine, alla presenza del numinoso e dell’inspiegabile, alla frammentarietà e al “disordine temporale”, in un testo dove tutto è in movimento.

Proprio come l’argentino Juan José Saer nel suo unico e anomalo romanzo giallo L’indagine (La Nuova Frontiera 2014), Benet frantuma e ricompone la classica struttura del poliziesco, articolandolo in modo nuovo e sorprendente e allontanandolo dalla scoperta della (o delle) verità, quasi a sottolineare che la natura del reale è inconoscibile e che la razionalità è destinata alla sconfitta, nonostante l’onesto capitano Medina si sforzi di combattere in suo nome.

Può non essere inutile, invece, la battaglia del lettore che vuole sapere una volta per tutte “come va a finire” e intende strappare al romanzo la soluzione dell’enigma. Basterebbe stare al gioco dell’autore, ovvero seguirne l’invito sottinteso e provocatorio: farsi detective, scoprire che nel corso del romanzo il passato e il presente sono stati giustapposti e confusi senza preavviso né spiegazioni, scovare gli indizi disseminati ovunque, riannodare i capi lasciati volutamente sciolti e conquistare un finale che, è quasi superfluo dirlo, con ogni probabilità non sarà il medesimo per tutti.


 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2021

sabato 20 marzo 2021

Da leggere: Héctor Abad Faciolince

 

Héctor Abad Faciolince


Un tesoro ritrovato

Al centro della fotografia, tra il marciapiede e la strada, c’è il corpo di un uomo coperto da un lenzuolo insanguinato; intorno, le figure inginocchiate dei familiari accorsi dopo l’agguato di sicari che appartengono ai gruppi paramilitari responsabili dello sterminio di almeno cinquemila membri del partito di sinistra Unión Patriótica. Siamo a Medellín, è il 25 agosto del 1987 e l’uomo si chiama Héctor Abad Gómez, medico e professore, che, minacciato più volte per la sua attività a favore dei diritti umani e per il costante sforzo di migliorare le condizioni sanitarie dei più poveri, non ha voluto esiliarsi né tacere.

Dal bianco e nero un po’ sgranato emerge in primo piano un ragazzo attonito e sconvolto, il figlio della vittima appena rientrato dall’Italia (dove tornerà l’anno seguente, per restarvi fino al 1992) e destinato a diventare uno degli scrittori colombiani più interessanti e autorevoli, che quasi vent’anni dopo pubblicherà un romanzo sul padre e sceglierà come titolo il primo verso di un sonetto firmato JLB – le iniziali di Jorge Luis Borges – trovato nella tasca dell’ucciso: Ya somos el olvido que seremos.

Dopo il grande successo del romanzo (L’oblio che saremo, Einaudi 2014), dal quale il regista spagnolo David Trueba ha tratto di recente un film, quei versi provocano però una polemica vagamente pretestuosa: più d’uno fa presente che non sono rintracciabili nelle raccolte di poesie dello scrittore argentino e neppure nelle sue Opere complete, e che si tratta perciò di un’attribuzione sbagliata o di un’invenzione intenzionale. Héctor Abad Faciolince decide così di scoprire chi è davvero l’autore del sonetto e in che modo suo padre ne è venuto in possesso, e dà inizio a un complessa ricerca poi narrata in Una poesia in tasca, racconto inserito nel 2010 nel trittico Traiciones de la memoria e oggi ottimamente tradotto da Monica Bedana per Lindau (pp.86, e.12).

Un’impresa filologica, quella narrata da Abad, ma anche un’avventura che ha richiesto tempo, viaggi (da Medellín a Mendoza, a Buenos Aires, a Parigi), lunghe indagini d’archivio, ha fatto nascere amicizie e interpellato studiosi, critici, scrittori. A poco a poco, in quello che all’inizio sembrava un desiderio del tutto personale, affiorano temi più generali: chi decide sulla qualità dell’opera letteraria, e in che modo? Fino a che punto il giudizio viene influenzato dal prestigio dell’autore? Uno scrittore è contrassegnato sempre e comunque da un “marchio di fabbrica” che lo rende riconoscibile, o è lo sguardo del critico a crearlo?

All’inizio diversi studiosi ed esperti, nonché la stessa Maria Kodama, che dètta capricciosamente legge sull’opera di Borges, ritengono il sonetto un semplice apocrifo, e un bizzarro poeta colombiano sostiene addirittura di esserne l’autore, impantanandosi poi in versioni sempre più contraddittorie e fantasiose. E finalmente, dopo i pareri negativi e le false piste, una scoperta improvvisa avvia Abad e la sua rete di eterogenei assistenti verso prove inoppugnabili: non solo la poesia (letta, come si scoprirà, da Abad padre durante un programma radiofonico) è un inedito di Borges, ma il percorso fortunoso che l’ha portata fino alle tasche di un uomo assassinato rappresenta di per sé materia di racconto.

Una poesia in tasca ci appare dunque come una sorta di poliziesco letterario, ma tocca anche altri generi, dal racconto iperrealista alla fiaba (richiamata più volte dall’autore stesso): il sonetto è il premio che attende l’eroe al termine del viaggio, gli aiutanti magici sono coloro che, sparsi per il mondo, imprimono alla storia svolte positive, non mancano creature ostili e ingannatrici, e non è certo difficile immaginare Maria Kodama nelle vesti della bizzosa Duchessa di “Alice”. Tutto confluisce, infine, in una riflessione sulla mutevolezza e gli inganni della memoria, dando vita a un vero conte philosophique, o forse disegnando la mappa di un tesoro ritrovato che aggiunge un nuovo tassello all’evocazione della figura paterna. Testo letterario nato dall’inseguimento di un altro testo, Una poesia in tasca suggerisce al lettore anche un’ultima tentazione, quella di leggerlo come un racconto di Borges o un suo scherzo postumo. Perché non c’è dubbio che a lui, maestro “dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee”, una storia come questa sarebbe piaciuta moltissimo.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di marzo del 2021

domenica 7 marzo 2021

Da leggere: Jorge Ibargüengoitia

 


 Jorge Ibargüengoitia


Una storia quasi vera

Né Edgard Allan Poe, né un altro scrittore capace di inventare le storie più truculente, avrebbe mai potuto scrivere un racconto pieno di malvagità e perversione come quello che hanno redatto con sangue, lacrime e veleno Delfina e María de Jesús González Valenzuela, sorelle incredibilmente bestiali, note nel mondo della malavita come le Poquianchis. Queste donne hanno superato le idee e i metodi dei nazisti!.

A metà degli anni sessanta, affermazioni del genere si potevano leggere su buona parte della stampa messicana e in particolare sulla rivista Alarma!, che aveva aumentato vertiginosamente le tirature grazie alle due sataniche sfruttatrici del vizio, proprietarie di tre bordelli tra lo Stato di Guanjuato e quello di Jalisco. Le Poquianchis (ovvero puttane) compravano o rapivano ragazzine che costringevano a prostituirsi, sottoponendole a una disciplina quasi militare e ad aborti brutali, per poi rivenderle quando le giudicavano troppo vecchie. Dopo anni di lucrosa attività, però, la prostituzione venne di colpo proibita da un governatore ambizioso e le sorelle nascosero le donne in un rancho isolato, in attesa di tempi migliori; là, in quanto improduttive, le affamarono e tormentarono per mesi, finché una riuscì a fuggire e la polizia liberò un gruppo di ragazze scheletriche, scoprendo per di più un cimitero clandestino in cui erano sepolte dozzine di prostitute morte per i motivi più diversi, dalla fame ai pestaggi, dalle fucilate alla mancanza di cure mediche.

Il processo alle Poquianchis fu una manna per i giornali che, tuffandosi nel mare dell’iperbole fabulatoria, trasformarono la vicenda in un colossale Grand Guignol di cui si trova ancora traccia nella cultura popolare, ma anche in film, documentari, studi accademici, libri-inchiesta. E mentre i giornali dispiegavano un repertorio di nefandezze (si insinuò perfino che le sorelle fossero adoratrici del diavolo) e ricordavano compuntamente i lettori l’importanza dei valori morali, il caso divenne oggetto di disputa politica, in quanto intreccio di corruzione, traffico di influenze e collusioni con settori della polizia e dell’amministrazione pubblica.

Fu a tutto questo che si ispirò Jorge Ibargüengoitia, cui dobbiamo alcuni fra i migliori romanzi latinoamericani del Novecento (altri ne avrebbe scritti, se non forse morto nel 1983, a cinquantacinque anni, in un grave incidente aereo), per il suo Le morte, che torna dopo molti anni in libreria (La Nuova Frontiera, traduzione di Angelo Morino, pp.176, e.15), a confermare la singolarità di questo autore messicano, per molti versi in anticipo sui tempi e capace di costruire macchine narrative invariabilmente perfette.

In un articolo per la rivista Vuelta Ibargüengoitia scrisse, a proposito di Le morte: Sulle bugie dette dalla stampa e le verità che dimenticò di dire si potrebbe scrivere un altro libro. Il tema mi ha interessato per la repulsione che mi provocava: la storia era orribile, la reazione della gente era stupida, quello che dicevano i giornali era così idiota da sfiorare il sublime….

Trovare la voce giusta per narrare una storia del genere non era facile, e, anche se Le morte apparve nel 1977, lo scrittore accumulò per quasi un decennio materiali e appunti, tanto da introdurre in un’altra sua opera – Estas ruinas que ves, del 1975 – un personaggio deciso a scrivere un libro sulle Poquianchis. Scelse, alla fine, un procedimento annunciato già nell’epigrafe (Alcuni dei fatti qui narrati sono reali. Tutti i personaggi sono immaginari), pensata per sottolineare che Le morte non è un romanzo-verità o una cronaca, ma il suo opposto: parte infatti da una vicenda autentica per leggerla secondo un’altra ottica e all’occorrenza modificarla (le sorelle diventano Angelica e Serafina Baladro, il Guanajuato si trasforma in Plan de Abajo, vengono introdotti personaggi immaginari), e demolire attraverso la finzione letteraria quella che si è addensata intorno alla realtà.

A partire dalla testimonianza di un fornaio sopravvissuto a un’assurda spedizione punitiva, ci inoltriamo nella crudelissima “normalità” di un mondo in cui nulla sfugge a un ridicolo atroce – il Casino del Danzón, per esempio, viene inaugurato tra bandiere messicane e slogan patriottici nel salone-bar che evoca il fondo del mare, con razze di gesso e squali di gomma appesi al soffitto –, e perfino il processo appare così arbitrario da assomigliare a una parodia, un vago e incoerente simulacro di giustizia, in cui l’avvocato difensore dichiara che, se fosse per lui, condannerebbe le sue clienti alla pena di morte.

Le sorelle (due donnette religiosissime, dall’aspetto di beghine) in realtà non hanno mai ucciso con le proprie mani, ma al di là dell’omicidio è un altro il delitto che interpella la società intera (i padri che vendono le figlie, i cittadini modello che frequentano le prostitute, i corrotti che guardano da un’altra parte, i giornali che si avventano sulla vicenda e il pubblico che vuole più cadaveri) e la rende complice: disporre degli esseri umani come di una proprietà da far fruttare, in sintonia con un’impeccabile logica mercantile. Le Baladro non sono sadiche serial killer, come ancora oggi vengono dipinte, ma modeste donne d’affari che si muovono in base al calcolo di costi e benefici; i loro libri di magia nera sono quelli contabili, l’obiettivo è il successo economico fondato su una mano d’opera annichilita e truffata, corpi “a perdere” che, quando non servono più, vengono trattati come rifiuti tossici da smaltire di nascosto.

Il romanzo è composto da testimonianze, monologhi, rapporti di polizia, titoli e trafiletti di giornale, documenti processuali presentati in un ordine non cronologico, ma frammentario: voci diverse che dialogano tra loro, permettendo a chi legge di notare contraddizioni e incongruenze e azzardare una ricostruzione personale dei fatti. A disporre i pezzi del rompicapo, un narratore che non si presenta mai come onnisciente e non esprime opinioni né giudizi morali, lasciando che la storia si spieghi da sola.

Alla mescolanza di materiali, voci e toni si unisce quella dei generi, che proietta il testo verso l’estetica postmoderna e al tempo stesso sembra smentirla. Le morte, traboccante com’è di cadaveri e gesti efferati, scivola infatti verso il noir e l’horror ma fa sorridere fin dalle prime pagine, adotta alcuni aspetti formali del poliziesco ma non contiene investigazioni né misteri, si presenta come realistico ma è dominato da un sapiente uso del grottesco, che mette in questione sia le convenzioni e i limiti del discorso giudiziario, sia il linguaggio morboso e sensazionale dei giornali scandalistici.

Humor e ironia, che nel romanzo si colorano di nero e sono resi più pungenti da una scrittura limpida, distante e spassionata, rendono sopportabile l’orrore senza negarlo e colpiscono immancabilmente i bersagli comuni a tutta l’opera di Ibargüengoitia: la doppia morale pubblica e privata, l’ipocrisia, la corruzione delle istituzioni, della polizia, di un sistema politico e giudiziario al servizio degli interessi di una élite, la violenza che segna da sempre il Messico, il lato perverso del buon senso, le grandi zone d’ombra in cui le donne corrono rischi inauditi (un tema divenuto, in questi anni, tra i più importanti della letteratura latinoamericana).

Non c’è dubbio che il romanzo sappia sinistramente e magistralmente divertire, ma il suo umorismo corrosivo e pessimista (che accomuna Ibargüengoitia a Swift, Waugh e Chesterton) non intende farsi beffe di situazioni e personaggi, quanto prendere di mira le certezze che giustificano l’abuso. Proprio per questo, si potrebbe concludere che Le morte è il romanzo più “serio” tra quelli dell’autore messicano, che forse aveva ragione nel rifiutare l’eterna e secondo lui riduttiva etichetta di umorista: “I testi che ho scritto, buoni o cattivi, sono gli unici che posso scrivere. Se sono brillanti è perché sono brillante, se sono arbitrari è perché sono arbitrario, e se sono umoristici è perché vedo le cose in questo modo, il che non è una virtù né un difetto ma una peculiarità. Nient’altro”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2021

martedì 2 marzo 2021

Da leggere: Mario Levrero

 


Mario Levrero


Kafka a Montevideo

In una delle conversazioni registrate nel corso degli anni e poi pubblicate dall’amico Elvio Gandolfo, Mario Levrero assegna una data precisa al suo esordio di scrittore: il primo luglio del 1966, giorno in cui terminò La ciudad, il primo testo che avrebbe deciso di non cestinare. Quando lo aveva cominciato era talmente immerso nella lettura di Kafka da non poterne prescindere: “Ho cercato di imitarlo, volevo essere Kafka (…). Ci ho provato, e non ho neppure cercato di nasconderlo. In seguito quest’influenza si è molto attenuata, non ho mai più tentato di scrivere come un altro o di essere un altro”. Aderire così profondamente a un modello ineguagliabile fece sì che il ventiseienne scrittore provasse un curioso senso di estraneità nei confronti del romanzo; forse per questo decise di non firmarlo per esteso, e da Jorge Mario Varlotta Levrero divenne una volta per tutte Mario Levrero.

L’opera e il suo autore nacquero dunque insieme, anche se il quasi-pseudonimo comparve per la prima volta sulla plaquette “Gelatina”, racconto in cui un’amorfa massa gelatinosa inghiotte via via uomini ed edifici, apparso nel 1968 in appendice a un’effimera rivista. La città (ora in libreria nella traduzione di Cinzia Imperio per La Nuova Frontiera, pp.160, e.15,00) fu infatti pubblicato quattro anni dopo la sua fulminea stesura (Levrero lo scrisse in due settimane) e venne infine inserito, con i romanzi brevi París e El lugar, in una trilogia definita “involontaria”, perché solo a posteriori l’autore si rese conto che le tre opere, pur differenti tra loro, avevano in comune una cupa coloritura urbana.

Se è vero che il romanzo fa ampio ricorso all’assurdo, ad atmosfere claustrofobiche, ad ambienti di immensa desolazione governati da logiche incomprensibili, all’intervento di forze misteriose che controllano il destino dei personaggi, all’incombere di edifici che ricordano in qualche modo Il Castello, trasmutato in una labirintica e luccicante stazione di servizio, man mano che ci si inoltra nel testo è possibile accorgersi che la filiazione kafkiana rischia di suggerire una lettura fin troppo riduttiva, mettendo in ombra altre ed eterogenee influenze, che col tempo diverranno più evidenti, senza tuttavia alterare l’unicità di Levrero. Già in La città, infatti, è possibile individuare la linea quasi impercettibile che lo collega ad autori altrettanto unici ed inclassificabili, da Felisberto Hernández a Onetti e, non ultimo, a Lewis Carroll (il protagonista della Città non somiglia forse un’Alice più conciliante e arrendevole, ma altrettanto stupefatta, piombata a capofitto in un “buco nero” traboccante di allegorie?).

Pur senza sottrarsi all’ombra di Kafka, la cui presenza si manifesta già nell’epigrafe tratta da Aforismi e frammenti, il romanzo non è il pastiche di un principiante entusiasta, scritto e concepito “alla maniera di…”, ma il punto di partenza di una ricerca che, attraverso fasi diverse e sempre brillanti, si concluderà con un capolavoro postumo, Il romanzo luminoso (Calabuig, 2014), una delle opere capitali della letteratura in lingua spagnola di questo secolo, paradossalmente incentrato sull’impossibilità di scrivere (o forse, meno paradossalmente, di vivere).

La narrazione comincia in medias res, quando l’innominato protagonista (del quale non conosceremo l’aspetto, la professione e l’età, e che ci appare pronto a lasciarsi trascinare dagli eventi senza opporre troppa resistenza) entra per la prima volta nella casa umida e fatiscente in cui si è trasferito, e poi si avventura all’esterno per fare acquisti. Ma è notte, piove a dirotto e l’uomo si allontana, non sa più dov’è, si perde e chiede aiuto a un camionista, ritrovandosi in viaggio con un guidatore silenzioso e una maligna donnina, finché, al mattino, il veicolo si ferma nel nulla della pianura pampeana e i due passeggeri vengono brutalmente scaricati. Invece di tornare a casa, il protagonista se ne è incredibilmente allontanato, per raggiungere un miserabile paesetto chiamato “la città”.

A prima vista tutto appare normale, eppure nulla lo è, tra le poche case dominate da un’enorme e inutile stazione di servizio, il cui gestore ospita il nuovo venuto e cerca di convincerlo a rimanere, offrendogli lavoro a nome di una tentacolare Impresa che impone al villaggio il suo inappellabile regolamento e promette da anni un radioso futuro. I pochi abitanti vestiti con logore tute da meccanico, le rare e inquietanti figure di donna, gli edifici che sembrano più vasti all’interno che all’esterno, gli incongrui negozietti, possiedono la stessa insensata e appiccicosa qualità dei sogni, e il protagonista, sempre più perplesso, rischia di restarvi invischiato, anche se alla fine un guizzo di ottimismo dell’autore gli consentirà di trovare una via d’uscita, facendolo cadere in “un sonno denso, profondo, nero, come un mare immenso e tiepido, senza immagini, senza parole, senza pensieri”.

L’elemento onirico, onnipresente in Levrero, gioca sin da questo primo romanzo il ruolo fondamentale che l’autore gli assegna in tutte le sue opere, quello di mettere in luce l’assurdità del reale e la sua estrema incertezza, perché per Levrero i sogni sono “una parte della realtà, intrecciata impercettibilmente al resto”, deformata e soggetta a oscillazioni spazio-temporali ma non per questo meno autentica. Non deve sorprendere, quindi, che lo scrittore si rifiutasse di includere i suoi romanzi nella letteratura fantastica (o, in modo ancora più improprio, nella fantascienza) e respingesse presunte ascendenze surrealiste; La città e l’intera trilogia, come i mirabili racconti (Cuentos Completos, Literatura Random House 2019) e buona parte dei romanzi, sono intensamente metaforici e puntano all’esplorazione dei limiti dell’Io, dei labirinti interiori, anche là dove l’autore preferisce ricorrere, come nei suoi irridenti “polizieschi”, alla più sfrenata parodia, oppure si dedica, come nei testi ultimi, alla minuta annotazione di una quotidianità che non ha più bisogno di essere inventata o ricreata.

La naturalezza e il linguaggio semplice e intensamente visivo che caratterizzano quest’opera prima si evolveranno fino a raggiungere l’ipnotica complessità del Romanzo luminoso, ma in La città Levrero si mostra già in grado di intraprendere un viaggio attraverso la scrittura e le sue infinite possibilità, usandola come un filtro per svelare e leggere ogni sfaccettatura della realtà, in tutte le sue forme. Stabilisce, inoltre, alcune costanti, dalle presenze femminili elusive e provocatorie, all’esplosione improvvisa di una violenza quasi surreale, fino alla rappresentazione della città come figura illeggibile e ostile, sulla quale i protagonisti proiettano conflitti, paure e frustrazioni, rendendola simile a uno specchio mutevole e sinistro. Una città che è, kafkianamente, spazio metaforico e simbolico, labirinto senza uscita apparente in cui vigono regole incomprensibili e controllo assoluto, ma che svela anche la sua natura più concreta: un luogo che ha smesso di essere casa o rifugio dove è possibile abitare ed esistere, per tendere a chi la attraversa un’infinita sere di trappole, proponendosi come un enigma non risolvibile. Ed è forse questo l’aspetto che, al di là degli ipnotici giochi narrativi destinati a manipolare e disintegrare la logica del mondo empirico, rende nostro contemporaneo il primo romanzo di Levrero.

 

Scheda: Un uomo tra parentesi

Un uomo pieno di fobie, interessato alla parapsicologia, all’ipnosi, alla scrittura automatica e alla psicanalisi. Un lettore compulsivo di romanzi polizieschi, un sedentario che non amava viaggiare, un hacker astuto, un perenne squattrinato che si guadagnava da vivere scrivendo per i giornali, creando cruciverba, sceneggiando fumetti, tenendo laboratori di scrittura. Un solitario che nei suoi ultimi anni si era fatto eremita nel cuore della metropoli, Montevideo, dov’era nato nel 1940 e dove sarebbe morto troppo presto, a sessantaquattro anni. E soprattutto uno scrittore eccezionale, un “irregolare” che in vita fu letto con passione da un pubblico ristretto, ma entusiasta della sua magnifica alterità. Qualcuno la cui dedizione alla letteratura era assoluta, ma che in cambio non si aspettava nulla, afferma Mauro Libertella, autore di “Un hombre entre parentesis. Retrato de Mario Levrero”, apparso nella collana Vidas ajenas, diretta da Leila Guerriero per le Ediciones UDP. Più che una biografia, Libertella costruisce con cura un profilo attendibile che attinge alle voci della curatrice letteraria ed ex moglie dello scrittore, Alicia Hoppe, dei figli, degli allievi, degli amici più cari – tra loro Elvio Gandolfo, curatore della preziosa raccolta di conversazioni “Mario Levrero. Un silencio menos” (Editorial Mansalva) – e infine di alcuni tra i tanti critici che in questi anni si sono dedicati allo studio e all’interpretazione di un’opera il cui valore è stato universalmente riconosciuto solo dopo la morte dell’autore. A tutto questo si aggiunge lo sguardo curioso e profondamente interessato di un giovane scrittore, l’argentino Libertella, che si sente interpellato non solo dai testi di Levrero, ma anche dalla sua scelta di tenersi ai margini dello “spettacolo letterario” e di ignorare ostentatamente le parole magiche (“vendibile” e “visibilità”) capaci di assicurargli un più proficuo rapporto con il mondo editoriale.

 

 Questi articoli sono apparsi sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2021