lunedì 31 maggio 2021

Da leggere: Lola Larra

 


Lola Larra


I misteri di Colonia Dignidad 

Il suo vero nome è Claudia Larraguibel, ma ha scelto lo pseudonimo di Lola Larra, noto anche ai lettori italiani grazie a un fortunato libro per adolescenti, A sud dell’Alameda. Diario di un’occupazione, proposto nel 2018 da Edicola Ediciones, cui si deve ora la pubblicazione di Sprinters (pp. 275, e. 18,90, traduzione di Marta Rota Nuñez), un nuovo testo di Larra costruito con notevole maestria e frutto di un’approfondita indagine su Colonia Dignidad, fondata nel 1961 dal medico nazista Paul Schäfer nella precordigliera di Parral, in Cile, remotissima terra promessa per i seguaci della setta da lui creata nel 1954, pronti a obbedirgli ciecamente ma ignari dell’accusa di pedofilia che lo aveva spinto a trascinarli lontano dalla Germania.

Nata a Santiago de Chile nel 1968, Larra ha trascorso molti anni in Venezuela, dove la sua famiglia si era rifugiata dopo il golpe di Pinochet, ma nel 1995 si è trasferita a Madrid, è diventata giornalista e solo nel 2006 è tornata definitivamente in Cile e ha concluso la sua inchiesta sulla Colonia, cominciata anni prima. Consapevole dell’esistenza di un’infinità di ricerche, documentari e reportage sull’argomento, per affrontare la vicenda ha scelto la via della narrativa, disseminandola però di documenti (testimonianze, atti giudiziari, verbali di polizia) e delle immagini di Rodrigo Elgueta, che compongono lo story board di un ipotetico film sulla fuga di due giovani dalla Colonia, così da affiancare una trama secondaria a quella principale.

Sprinters è dunque un romanzo che non disdegna il ricorso a formati diversi e intreccia con grande naturalezza finzione e realtà, enigmi mai risolti e atmosfere degne delle più feroci fiabe dei Grimm, articolandosi intorno alla morte di Hartmut Munch, otto anni, sepolto sotto una lapide senza nome dopo un misterioso “incidente”. La vera protagonista, tuttavia, non è la sua piccola ombra sfuggente, ma la severa Lutgarda, personaggio di invenzione in cui si incarna il danno profondo provocato da Schäfer, che nello scenario andino aveva costruito una perfetta anti-utopia, un regno privato con l’apparenza di un idilliaco villaggio bavarese.

È significativo che Larra abbia posto un personaggio femminile al centro del suo romanzo, perché nella Colonia le donne erano sagome indistinte e quasi invisibili, schiacciate dal disprezzo maschile, usate come bestie da lavoro, costrette ad abortire se restavano incinte, subito separate dai figli se riuscivano ad averne, raramente date in sposa a uomini scelti dal capo e, a volte, promosse a custodi e aguzzine delle altre. Lutgarda ha però saputo maturare una sua dignità, è intelligente e perspicace, non del tutto spezzata benché un’amarezza profonda l’abbia indotta a rimanere nella Colonia anche dopo l’arresto di Schäfer: ha conosciuto l’orrore, ma diffida del mondo esterno, non lo capisce e sa che non sarebbe capita. Come tutti coloro che sono rimasti, non saprebbe del resto dove andare: gli ex coloni parlano male lo spagnolo, sono poveri, anziani, poco istruiti, e si aggrappano con ostinazione a quell’unico luogo familiare.

Grazie allo sguardo e ai ricordi di Lutgarda, ma anche al vivace racconto in prima persona di una giornalista che assomiglia molto a Larra, il passato della Colonia rivive con l’inquietante precisione di una distopia “nera”. Isolamento assoluto, guardie armate, recinzioni e telecamere, psicofarmaci per domare i ribelli, pestaggi, torture, ma anche la certezza di essere al servizio di Dio garantivano l’obbedienza di uomini, donne e bambini pronti a lavorare dodici ore al giorno in cambio di una cuccetta nei dormitori e di poco cibo, mentre il capo e i suoi “gerarchi” fondavano un impero economico composto da alberghi, catene di ristoranti ed enormi estensioni di terreno. I contatti tra uomini e donne erano proibiti, si somministravano sostanze per annullare la libido, ed era anche attraverso il controllo assoluto del corpo e della sessualità dei coloni che Schäfer riusciva a proporsi come unico oggetto e soggetto di affettività, così da poter abusare liberamente di una corte di bambini tra gli otto e i quattordici anni, gli “sprinters”, sempre di corsa per eseguire i suoi ordini ed educati ad accogliere le sue carezze.

Non tutti i ragazzi erano di origine tedesca: molti, “adottati” con le buone o con l’inganno, erano figli dei poverissimi contadini locali e venivano sottoposti a un’assimilazione radicale grazie all’apprendimento del tedesco, a un nuovo nome e al rispetto di regole ferree. Hartmut, però, era tra i pochi nati nella Colonia, e Lutgarda non ha mai dimenticato l’attimo in cui, nascosta fra gli alberi del bosco, lo ha visto accasciarsi durante una battuta di caccia, colpito da qualcuno che sparava all’impazzata: Schäfer, oppure Mamo Contreras, capo dei servizi segreti di Pinochet e ospite abituale del villaggio? Nessuno aveva osato accusarli, ma la ragazzina di un tempo non ha mai smesso di interrogarsi su quel bambino ucciso e sul segreto che forse li unisce, e per scoprire la verità cerca l’aiuto della riluttante giornalista che, nonostante incomprensioni e dubbi, la accompagnerà verso il colpo di scena finale.

Nel frattempo Lutgarda offrirà all’estranea, ormai sua alleata, altri tasselli del passato di Colonia Dignidad, la cui efficiente crudeltà aveva trovato in Cile un buon terreno in cui mettere radici. Nonostante le molte voci che parlavano di abusi e sfruttamento (prima fra tutte, nel 1968, quella del senatore Patricio Alwyn, le cui accuse vennero rigettate o insabbiate dal governo) nessuno pensò mai di intervenire contro quel prospero insediamento dove regnavano un ordine e una disciplina invidiabili, e non c’è da stupirsi che Schäfer, stretto alleato dell’organizzazione paramilitare di estrema destra Patria y Libertad, abbia accolto il golpe di Pinochet con entusiasmo, tanto da ospitare un campo di prigionia e tortura dove furono uccisi e fatti sparire centinaia di oppositori. Secondo il giornalista Fredrich Heller, autore di due libri sull’argomento, è anche probabile che i cileni, con la collaborazione dei tedeschi, intendessero produrre nella Colonia armi non convenzionali da usare in caso di guerra con l’Argentina: che sia vero o no, è certo che nel villaggio fu ritrovato un enorme quantitativo di armi, puntigliosamente elencate da Larra, che accosta il documento ai ricordi di Lutgarda, imprecisi ma inequivocabili.

Solo nel 1991, quando Alwyn divenne presidente, Schäfer vide incrinarsi la sua impunità e qualche anno dopo fu costretto a fuggire in Argentina, aiutato da una vasta rete di amicizie e complicità. Ci vollero otto anni per catturarlo e processarlo, e ne aveva ottantanove quando morì in un carcere cileno, nel 2010. Agli ex coloni come Lutgarda non rimasero che il silenzio e l’indifferenza: dopo aver protetto e incoraggiato la Colonia per quarant’anni, il Cile si limitò a ignorarli, ed è anche delle loro storie che Sprinters ci parla, evocando lo spaesamento di quei Kaspar Hauser che non avevano mai maneggiato denaro, letto un giornale, preso un treno, usato un telefono, proiettati di colpo in un mondo ignoto e finalmente coscienti di quanto avevano subito.

Oggi la Colonia, abitata dai pochi anziani che non hanno osato lasciarla, è un centro turistico ribattezzato Villa Baviera, e si dice che gli attuali dirigenti continuino ad avere contatti con gli antichi gerarchi, quasi tutti impuniti. Benché ci sia chi lavora per rendere giustizia alle 240 vittime di Schäfer ancora in vita, tutto procede con estrema lentezza, e forse non si tratta di un caso, visto che l’attuale ministro della Giustizia cileno è Hernán Larraín, uno degli “Amici della Colonia” (associazione di cui facevano parte anche Evelyn Matthei, ex candidata alla presidenza della Repubblica, e l’ex ministro degli Interni Andrés Chadwick), a suo tempo pronto a dichiarare che Schäfer era vittima di una montatura. Se in Germania il caso, ignorato per anni, ha suscitato una certa eco, è soprattutto grazie a un modesto film del 2015, Colonia di Florian Gallenberger, che ha spinto il governo tedesco a creare nel 2017 una commissione binazionale per il risarcimento degli ex coloni e a desecretare numerosi documenti, anche se mancano quelli più importanti, relativi agli anni della dittatura. I misteri di Colonia Dignidad, insomma, sono ancora lontani dall’essere del tutto svelati.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2021


lunedì 17 maggio 2021

Da leggere: Martha Dillon

 


Martha Dillon



Un libro bellissimo e travolgente 

“Mia madre era desaparecida. Ora non più”. È con questa frase che si potrebbe riassumere Aparecida di Martha Dillon (pp. 225,e. 16), pubblicato in Argentina nel 2015 e oggi edito da gran vía nell’ottima traduzione di Camilla Cattarulla, autrice anche dell’accuratissima e approfondita prefazione.

Giornalista e sceneggiatrice che ha diretto per il quotidiano Pagina/12 il supplemento Soy, dedicato all’universo LBGTQ, e che ora si occupa di Las 12, inserto femminista del medesimo giornale, Dillon è una delle fondatrici del movimento Ni Una Menos e membro di HIJos (Hijos y Hjas por la Identidad y la Justicia contra el Olvido Y el Silencio), associazione dei figli di ex prigionieri politici e desaparecidos, vittime dell’ultima dittatura militare. Una militanza che si dispiega per intero in questo libro difficile da classificare, costruito combinando strategie testuali diverse e generi differenti, dall’autobiografia alla cronaca, dal giornalismo investigativo al diario intimo, sino a sfiorare il saggio sulla storia politica e sociale di un paese tormentato: un discorso ibrido in cui si fondono la concretezza dell’inchiesta sul campo, l’asettica crudeltà dei verbali di polizia, i termini della medicina legale, il gergo glaciale della burocrazia funeraria, l’elegia e il lamento, i rapidi appunti che inseriscono tra i dodici capitoli immagini oniriche e poetiche.

Storie di vita, ricordi d’infanzia, la lunga ricerca di una madre perduta, tutto confluisce verso quell’unica frase: “Mia madre era desaparecida. Ora non più”. Perché Aparecida parla di un’assenza riempita all’improvviso dall’ Equipe Argentina di Antropologia Forense cui si deve l’identificazione di quattro ossa e un cranio, tutto ciò che resta della madre di Dillon, Marta Taboada, avvocata e militante del Frente Revolucionario 17 Octubre, sequestrata nell’ottobre del 1976 nella casa in cui si era nascosta con i suoi figli e, dopo quattro mesi di detenzione e torture, assassinata su un marciapiede di Buenos Aires insieme a quattro compagni di prigionia (un’esecuzione che la polizia avrebbe mascherato da “scontro a fuoco” con un gruppo di terroristi).

Il libro comincia da lì, dalla certezza che le ossa ritrovate nel cimitero di San Martín, chiuse in un sacco e confuse con altre, appartengono davvero a Marta Taboada; una notizia che sorprende la figlia mentre è in viaggio dall’altra parte del mondo, in Spagna, insieme alla moglie Albertina e al loro bambino Furio, concepito con “immensa passione e una vaschetta di seme” fornito da un amico di entrambe, che da quel momento diverrà un padre a tutti gli effetti (Furio ha tre genitori e tre cognomi, il primo caso di tripla filiazione riconosciuto da un tribunale argentino).

A partire da questo evento così tenacemente desiderato e perseguito Dillon intraprende un percorso altalenante tra presente e passato, seguendo fili che si intrecciano fino a confondersi. Il primo è il racconto dettagliato del recupero e dell’identificazione dei resti, continuamente interrotto dal ricordo di una madre amatissima, della sua bellezza e vitalità, della sua ansia di giustizia mescolata alla capacità di sfidare le regole di una società ancora patriarcale e di infrangere la morale sessuale dell’epoca, appannaggio sia della dittatura che dell’intatto maschilismo degli oppositori. Ovunque, infine, si insinua la storia personale dell’autrice, il rapporto difficile col padre e con la nuova famiglia di lui, quello impacciato con i fratelli più piccoli che della madre non hanno quasi memoria, episodi infantili, gli stretti legami di oggi con una vasta cerchia di donne, i figli e i nipoti, la convivenza con l’HIV che le è stato diagnosticato nel ’94 e che è oggetto di un altro suo libro – Vivir con virus, del 2004 –, le nozze con la cineasta Albertina Carri (anche lei figlia di desaparecidos), avvenuto nel giorno in cui entrava in vigore la legge sul “matrimonio igualitario” (nozze in nero che si incrociano con il corteo funebre di Néstor Kirchner, colui che le aveva rese possibili).

A legare il tutto, le complesse conseguenze pubbliche e private della “apparizione”, che segna allo stesso tempo una fine e un inizio e comporta un altro modo di vivere ed elaborare il lutto, ora che esiste un luogo in cui inscrivere il dolore e la morte.

Leitmotiv del libro sono le ossa: quelle di animali morti sulla spiaggia, presto inghiottite dalla sabbia, o di scheletri umani ricomposti nella loro interezza, oppure minuscole schegge, scatole piene di costole e femori, e soprattutto le ossa materne, che Dillon racchiude in una piccola bara sovraccarica di ornamenti preparata insieme alle amiche più care, “sorelle” che si riuniscono intorno a quell’ultimo giaciglio come una congrega di streghe benefiche, pronte a elargire ciascuna il suo dono. Ossa che, prima di venire onorate con un funerale pubblico destinato ad affermare una memoria collettiva e condivisa, si possono toccare, accarezzare, baciare.

Le ossa non sono che l’ultimo e depuratissimo aspetto di una carnalità fusionale, di una corporeità che trasuda da ogni pagina di Aparecida e consente di rinnovare un abbraccio mai dimenticato e di trasmetterlo a discendenti, amici, donne amate. Il corpo incompleto eppure presente dell’aparecida si impone, conferma la propria dimensione politica, trionfa sulla cancellazione e l’annientamento voluti dalla macchina dittatoriale, spande desiderio, proclama la propria dissidenza, si reincarna in vite future e finisce per trasformarsi nel testo stesso che Dillon va scrivendo, un testo che culla, tocca, accoglie.

La ricerca e la ricostruzione dei resti di Marta Taboada si fondono con i frammenti della vita di sua figlia e, stabilendo una linea di continuità tra due generazioni di donne, le trasmettono una passione militante diversa dalla propria eppure altrettanto intensa, motore di nuove leggi che cancellano l’impunità e affermano nuovi diritti, rivolgendo lo sguardo ai diritti umani, al femminismo, alla differenza sessuale, a nuovi modelli di famiglia e di affettività cui Dillon si riferisce di continuo e con orgoglio. Sin dalle prime pagine di Aparecida l’autrice riconfigura la militanza della madre alla luce delle proprie scelte, sottolineando sempre il rispetto per quelle di lei e l’adesione alla sua eredità, ovvero a un’etica materna che, pur riaffermando vincoli e legami, esclude l’annullamento di sé e innesta nella sfera pubblica la quotidianità dei gesti di cura e degli affetti.

Tra gli esponenti della cosiddetta “letteratura dei figli” che, come ricorda Camilla Cattarulla, a partire dal nuovo millennio ha visto l’avvento di “una nuova tipologia di autori, con la costituzione di un eterogeno corpus di finzioni che presenta il punto di vista (sul passato e/o sul presente) dei figli degli oppositori del regime, siano essi desaparecidos, esiliati o prigionieri politici”, non sono molti quelli che hanno saputo compiere un simile lavoro di “ricucitura” tra presente e passato, mettendo da parte rivendicazioni, sarcasmi o rancori. E nessuno, forse, ha mostrato una comprensione così profonda ed empatica per una maternità che continuamente si fonde o si allinea con quella della narratrice (madre a sua volta), conferendo al racconto uno slancio gioioso verso il futuro.

Aparecida, infatti, sembra possedere una qualità risanatrice che diventa quasi palpabile nel capitolo sulla preparazione della bara, in cui si percepisce l’eco del “barocco” letterario latinoamericano e del suo recupero della creatività popolare, pronta ad accostare vita e morte con assoluta naturalezza. Tra gli ornamenti della cassa destinata a contenere le ossa, piccola e bianca come quella di un bambino, c’è perfino una “Evita Montonera” dai capelli ingioiellati, a evocare il mito di una resurrezione impossibile, e sembra quasi di vedere allungarsi sulla festosa estetica queer scelta da Dillon le ombre di Pedro Lemebel e del poeta argentino Néstor Perlongher, il cui poema Hay cadaveres è non a caso esplicitamente citato nel testo (un ulteriore e pertinente collegamento con gli anni ’70, visto che Perlongher fu tra i fondatori del presto dissolto Frente de Liberación Homosexual).

Alcuni studi affermano che Aparecida ha inserito nella letteratura dei figli una prospettiva di genere, e non si può che essere d’accordo. Ma si potrebbe aggiungere che il libro di Marta Dillon, bellissimo e travolgente, rappresenta anche una svolta nel modo di confrontarsi con il durissimo passato dell’Argentina e, soprattutto, di re-immaginare il suo presente.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2021