giovedì 24 giugno 2021

Da leggere: Cristina Morales

 


Cristina Morales


Quattro donne irriducibili

Andalusa emigrata a Barcellona, anarchica e femminista, avvocato che ha scelto di non esercitare per dedicarsi alla letteratura e alla danza, Cristina Morales è di difficile collocazione nel panorama della narrativa spagnola contemporanea, innanzitutto per la sua adesione a un’estetica dissidente che fa del linguaggio uno strumento di lotta ed esprime una rivolta beffarda contro ogni manifestazione del potere, compresa la cosiddetta “nuova politica”, pronta ad appropriarsi dei messaggi critici e a svuotarli di significato.

Sin dal suo esordio, avvenuto nel 2008, i critici l’hanno indicata come “una virtuosa della scrittura”, la cui produzione (un libro di racconti, tre romanzi e una eterodossa versione della vita di Santa Teresa d’Avila) è caratterizzata dal rifiuto delle convenzioni letterarie e di una narrativa che non si mostri capace di intervenire interviene sul nostro modo di vedere il mondo: giudizio del quale i lettori italiani potranno misurare l’esattezza grazie all’arrivo in libreria dell’ultimo romanzo di Morales (Lettura facile, Guanda, pag. 406, e. 19, traduzione di Roberta Arrigoni), costruito a partire da improvvise virate stilistiche, cambi di tono e materiali diversi, che in Spagna ha suscitato polemiche e conosciuto un imprevisto successo.

Lettura Facile racconta la storia di quattro donne della stessa famiglia con diversi livelli di disabilità intellettiva che vivono in un appartamento offerto e sorvegliato dalle istituzioni pubbliche di una Barcellona lontana dalla consueta immagine turistica, dove okupas, emarginati privi di risorse e una controcultura tenacemente decisa a resistere convivono con le rivendicazioni e la propaganda della borghesia indipendentista. Uno scenario tutt’altro che neutro, insomma, dove l’autrice (nata a Granada nel 1985) ha scoperto la propria identità di migrante tra migliaia di altri, provenienti da lontananze ben più remote.

Articolato intorno a un procedimento giudiziario e a una fuga, Lettura facile lascia ampio spazio alla prima persona delle cugine Nati, Marga, Àngels e Patri, per nulla disposte a lasciarsi addomesticare e pronte a mettere in questione la società in cui vivono, rivendicando il diritto di respingerne le norme e di essere ciò che sono: protagoniste irresistibili le cui voci si alternano, esibendo un’incontinenza verbale che si avventa contro il discorso del sistema e allo stesso tempo censura il suo opposto, ovvero un silenzio che stabilisce i confini del dicibile. Ciascuna di loro ha i requisiti per apparire una vittima o una caricatura, ma l’autrice si guarda bene dal presentarle come tali e ne sottolinea piuttosto l’intrepida e sempre rinnovata insubordinazione, che interpella il lettore ed esige una sua presa di posizione.

Nati, l’unica ad aver studiato, soffre di una misteriosa “sindrome dei pannelli scorrevoli” che a tratti la trasforma in “guerrigliera bastardista” (esplicito riferimento all’anarcofemminista boliviana María Galindo, citata nel testo come in epigrafe, che propone di sostituire il termine “bastardo” al più neutro “meticcio”) e innesta un furore delirante nella sua critica lucida e sboccata della morale imposta, del sistema patriarcale che impregna tutto, del neoliberismo che tutto corrompe, delle lezioni di danza “integrata” che dovrebbero imporre a membra e menti irregolari un’armonia prestabilita, suscitando la sua rabbia di ballerina decisa a esplorare senza remore il proprio corpo e quelli altrui.

La placida Marga è colei che scatena il conflitto al centro della trama, perché la sua ipersessualità ha indotto le assistenti sociali a proporne la sterilizzazione forzata, spingendola a occupare con l’aiuto degli anarchici un appartamento diroccato, pur di vivere in piena indipendenza. Di Patri ascoltiamo le fluviali dichiarazioni alla giudice che deve decidere la sorte di Marga, mentre Àngels si industria a rievocare su WhatsApp il passato del gruppo: l’infanzia in un paesetto, i parenti avidi e opportunisti, l’internamento e la clausura nei centri per disabili dove si impone la disciplina per mezzo dei farmaci, e infine il modo in cui le cugine ne sono uscite per approdare all’alloggio della Barceloneta.

Inevitabile, davanti a figure come queste, il rimando a testi quali L’urlo e il furore di Faulkner, o Las primas dell’argentina Aurora Venturini, la cui protagonista è una disabile mentale che impara a scrivere per raccontarsi, o ancora, per ammissione dell’autrice, Tonto, muerto, bastardo e invisible di Juan José Millás e Fiori per Algernon di Daniel Keyes, fino a Makoki, serie a fumetti degli anni ‘80 di Gallardo e Mediavilla su un picaro in fuga dal manicomio, che a sua volta richiama l’antieroe di Il mistero della cripta stregata di Eduardo Mendoza, catapultato dall’istituzione psichiatrica in una Barcellona sordida e oscura. Diversamente dagli autori citati, però, Morales imbocca in modo esplicito la via del romanzo politico, trasformandolo in un sabba quasi carnevalesco e rinunciando a ogni dogmatismo per adottare una comicità che non ne sminuisce la forza critica.

La prosa di Morales è demolitrice, intenzionalmente eccessiva e abilissima nell’adottare registri differenti, dalla confessione al sarcasmo alla rabbia alla parodia, ma anche nel mescolare generi diversi, come le fanzine libertarie (punto di riferimento ineludibile per l’autrice, che ne riproduce integralmente una proprio nel cuore del romanzo), il pamphlet, il saggio (alcune teorie rifanno all’esperienza con il collettivo di danza Iniciativa Sexual Femenina), i verbali giudiziari insieme glaciali e ridicoli, gli atti delle assemblee anarchiche che registrano con ironia il candore puerile di certi dibattiti, ma confermano la possibilità di un agire solidale.

Nell’alternarsi di generi e voci che interrompono e fratturano la trama, così da favorire brechtianamente il distanziamento del lettore dai personaggi e obbligarlo a concentrarsi sul senso del discorso, spiccano le memorie di Àngels, fedeli al metodo “lettura facile” creato negli anni ’60 per garantire a chi abbia difficoltà di lettura l’accessibilità dei testi (il catalogo degli adattamenti disponibili è ampio e va dal documento legale a Virginia Woolf), rendendoli diretti e concisi, eliminando le astrazioni e servendosi di un vocabolario basico o spiegando ogni termine complesso.

Questo stile nudo, che scarnifica la realtà (e che Angels, pur usandolo, mette in questione come un ulteriore tipo di tutela), sembra opporsi alle torrenziali e sboccate invettive di Nati, ma in realtà le completa e segna pause esilaranti e tristissime nel complesso montaggio di un romanzo altrimenti denso e carnale, che sembra suggerire la “corporeità” del testo. E proprio il corpo dissidente e desiderante è uno dei temi principali di Lettura facile, le cui pagine trasudano fluidi, secrezioni, odori, contatti fisici e amplessi che si insinuano nelle crepe del sistema e mirano a ridefinire il limite, oppure a dissolverlo.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2021

Da tradurre: Adolfo Bioy Casares

 



Storia di un angelo vendicatore

Era il 19 marzo 1978 quando Adolfo Bioy Casares scrisse nel suo diario: “… Silvina mi annuncia la morte di Johnny Wilcock. Vado a piangere in bagno: Johnny è morto a Lubriano, di infarto, proprio mentre leggeva un libro sull’infarto cardiaco. Penso che dovrei scrivere i miei ricordi di Johnny. L’idea di non vederlo più e di non parlare più con lui mi rattrista molto”. Con questa annotazione si concludono tanto la storia della lunga e intensa amicizia tra la coppia Bioy Casares-Ocampo e Juan Rodolfo Wilcock, quanto il nuovo libro che il curatore delle opere di Bioy, Daniel Martino, ha costruito a partire dai diari del grande scrittore argentino scomparso nel 1999, insieme al quale aveva compilato le oltre milleseicento pagine di quell’insostituibile testimonianza che è Borges (Editorial Destino 2006).

Intitolata semplicemente Wilcock (Emecé, pp. 236) e appena uscita in Argentina, l’opera è modellata proprio su questo monumentale precedente e oltre ai brani di diario include lettere e numerose fotografie scattate da Bioy e Silvina, disegnando un prezioso ritratto dello scrittore, poeta, traduttore, drammaturgo e critico che, nato in Argentina nel 1919, si trasferì in Italia nel 1957 e scrisse in italiano buona parte di un’ opera fuori del comune, cui è dedicato il recente L’eternità immutabile, raccolta di saggi a cura di Roberto Deidier e Giorgio Nisini (Quodlibet, pp.148).

Il “montaggio” di Daniel Martino, oltre a far luce sulla giovinezza di Wilcock, ce ne restituisce il carattere singolare, l’intransigenza, i giudizi sferzanti, l’intelligenza affilata, e mostra anche il rapido mutare del giudizio di Bioy, in un primo momento negativo (“Wilcock è avido, fosco, sdegnoso”). Nonostante i due apparissero così diversi (Bioy solare e seduttivo, Wilcock pungente e mercuriale, un vero “angelo vendicatore”) sarebbero diventati, dice Martino, “quasi fratelli”, accomunati dalla visione della realtà come caos e dall’ossessione per la mortalità: “Johnny vuole affannosamente sopravvivere, morire il meno possibile…” scrive Bioy nel ’67. “Conserva tutto ciò che ha scritto (…) anche le brutte copie e le brutte copie delle brutte copie. Forse lascia i materiali di tutto ciò che via via è stato, perché nulla manchi all’ora di ricostituirlo e resuscitarlo”. A “ricostituirlo” e, in un certo senso, a riportarlo nella patria cui aveva voltato le spalle, provvedono ora i diari e le lettere di Bioy Casares.

 

 

Questa nota è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2021


lunedì 14 giugno 2021

Da leggere: Luisa Carnés

 


 Luisa Carnés



Ieri come oggi, le operaie della ristorazione

Se ci atteniamo alla cronologia, Luisa Carnés (nata a Madrid nel 1908) dovrebbe far parte della Generazione del ‘27 in cui si inscrivono tra gli altri García Lorca, Dalí e Rafael Alberti, ma sappiamo che non aveva alcun legame con quel gruppo eterogeneo e con le donne straordinarie che ne facevano parte: presenze femminili poi sottovalutate o cancellate e tornate di recente alla ribalta grazie al libro di Tània Balló Las sinsombrero, il cui titolo si rifà al comportamento "scandaloso" di due giovani pittrici, Maruja Mallo e Margarita Manso, insultate dai passanti madrileni quando decisero di togliersi ostentatamente il cappello in piena Puerta del Sol, dicendo che opprimeva la mente e soffocava le idee.

Carnés, in effetti, aveva poco in comune con quelle formidabili ragazze di buona famiglia: “Perché Luisa è operaia, non borghese. Quelle del ‘27 fanno poesia, mentre Luisa scrive romanzi sociali”, osserva David Becerra (autore di El realismo social en Espana. Historia de un olvido, acuto saggio del 2017); il gesto provocatorio di Mallo e Manso non poteva appartenere a una come lei, che aveva lasciato la scuola a undici anni per fare l’apprendista in un laboratorio di modisteria: i cappelli Luisa li confezionava, e la sua disordinata formazione da autodidatta se l’era guadagnata divorando libri e riviste nei rari momenti liberi.

Lavorando di giorno e scrivendo di notte, ancora giovanissima era riuscita a pubblicare i primi racconti e a conquistarsi un posto di dattilografa in una casa editrice, che le cambiò la vita. Là, infatti, non solo conobbe il disegnatore Ramón Pujol (suo futuro marito e autore del celebre manifesto repubblicano ¡No pasarán!), ma pubblicò un secondo romanzo e prese a collaborare con giornali e riviste. Il giornalismo non tardò a diventare il suo mestiere e a partire dal 1930 Luisa scrisse per testate importanti, approdando infine alla redazione di Mundo Obrero, l’organo del Partito Comunista cui nel frattempo aveva aderito. Anche durante l’esilio in Messico (raggiunto alla fine della guerra civile insieme al suo nuovo compagno) si guadagnò da vivere come giornalista senza però abbandonare la narrativa, finché nel 1964 morì in un incidente d’auto, dopo aver festeggiato l’8 marzo con altre esiliate. Aveva cinquantanove anni, e, nonostante lasciasse un’opera apprezzata dai critici e composta da dieci romanzi, una settantina di racconti e centinaia di cronache, venne rapidamente dimenticata.

Un’invisibilità, la sua, suggellata dalla morte in esilio, ma che secondo Becerra deriva soprattutto dall’essere donna e comunista e dall’ambiguità della Transizione, che non si curò di recuperare ciò che la dittatura aveva “censurato totalmente o parzialmente”. Per lungo tempo ignorata o citata a piè di pagina, proprio come le sinsombrero oggi considerate “imprescindibili”, Luisa Carnés è stata riscoperta qualche anno fa grazie allo storico Antonio Plaza e alla riedizione di un romanzo del 1930, Tea rooms. Mujeres obreras (novela-reportaje), ora proposto in italiano da Alegre nella collana Working class (Tea rooms. Operaie della ristorazione, traduzione di Alberto Prunetti, pp.175, e.15): una potente narrazione corale ambientata in una sala da tè e centrata su Matilde, orgogliosa ragazza di periferia e alter ego dell’autrice, che per qualche tempo lavorò come cameriera in una pasticceria madrilena.

Sin dalle prime pagine, lo sguardo sempre più consapevole della protagonista smaschera una società divisa tra “chi prende l’ascensore e chi deve usare le scale di servizio”, denunciando il pesante carico di lavoro domestico che opprime le donne, l’imposizione del matrimonio e della maternità, gli aborti clandestini, la fame che spinge alla prostituzione, il ruolo della Chiesa, la repressione delle proteste operaie, la persecuzione degli oppositori (tra i personaggi c’è anche un mite gelataio italiano, padre di un ragazzo ucciso dai fascisti), la disoccupazione, l’estrema precarietà e l’assenza di diritti per chi lavora. Per molti aspetti, quindi, Tea room coincide con la cosiddetta narrativa sociale della preguerra, ma impone la sua differenza grazie al combattivo piglio femminista presente anche negli articoli in cui l’autrice sottolineava la trasversalità del patriarcato, affermava che le donne dovevano emanciparsi “da ogni influenza, che si tratti della volontà del padre, del marito, del padrone della fabbrica, del capo ufficio” e ne rivendicava il diritto all’istruzione, al voto, alla libertà di movimento e di intervento in qualsiasi ambito.

L’altra costante della narrazione sono le lotte operaie, che fanno da sfondo alla trama e penetrano nel microcosmo della sala da tè – teatrino in cui è possibile rappresentare tutte le classi sociali – attraverso pensieri, dialoghi, impressioni; pochissime le scene “in esterni”, perché Carnés, a partire dalla propria esperienza diretta, descrive il mondo con gli occhi di chi lo guarda dall’interno del locale, mentre l’aprirsi e chiudersi delle porte fornisce una colonna sonora di rumori e voci improvvisi e spezzati. Basta la dicitura “romanzo-reportage” del titolo originale, che nessuna delle edizioni attuali riporta, ad annunciare in modo esplicito la precisione naturalista con cui vengono disegnati tanto la quotidianità delle lavoratrici (l’immondo spogliatoio, il salario miserabile, la fatica, le paure e i sogni) quanto i personaggi, incluse le comparse più effimere: il travestito, la mantenuta, la sottomessa moglie borghese, la romantica sventata che finirà sul tavolo di una mammana, la dura e corrotta responsabile del personale. Oggettivo ma non imparziale e per nulla intenzionato a esserlo, perché Carnés rivendica apertamente l’utopia comunista, Tea room evita le tentazioni moraleggianti e si affida a una prosa tagliente, piena di dettagli e notazioni visive che lo rendono simile a un murale popolato di vivaci figurine o a un’affollata inquadratura cinematografica.

Al di là del valore letterario, il romanzo va visto come un’efficace testimonianza sulla condizione femminile e sul turbolento periodo che precedette la Seconda Repubblica spagnola, ma anche come uno specchio inquietante nel quale riconoscersi, tanto che Marta Sanz, una delle migliori scrittrici spagnole, non manca di farne presente l’attualità: oggi come ieri, infatti, “le pratiche capitaliste automatizzano i comportamenti e la società si divide in ricchi, poveri e presuntuose classi medie inconsapevoli della propria precarietà”.



Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2021

 

 

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Che cosa c’entra Luisa Carnés con il calcio balilla, detto anche biliardino o futbolín? In apparenza niente, finché non si scopre che in Messico le sue opere furono pubblicate dal suo fedele amico Alejandro Finisterre, alias Alexandre de Fisterra, alias Alejandro Campos Ramírez, nato in Galizia nel 1919. La sua vita rocambolesca, che include una laurea in filosofia presa a Parigi, un dirottamento aereo, una lunga attività di agitatore culturale e una stagione come ballerino di tip tap, l’ha raccontata Alessandro Spataro nella graphic novel Biliardino (BAO 2015), in cui si dà conto dell’invenzione di un gioco amatissimo, attribuita dagli spagnoli a questo avventuroso poeta-scrittore-editore. L’idea del futbolín nacque durante la guerra civile, mentre Finisterre era ricoverato all’ospedale di Montserrat e vedeva ogni giorno bambini mutilati dalle bombe, che non avrebbero mai più giocato a calcio; nonostante avesse depositato un brevetto nel 1937, però, smarrì i documenti e dalla sua invenzione non ricavò un soldo, ma si rifece con quella di un ingegnoso volta-pagine a pedale per pianisti. In Messico, dove trascorse gli anni dell’esilio, fondò una casa editrice che aveva in catalogo non solo i libri di Carnés, ma quelli di buona parte dei rifugiati spagnoli. Diffondere e sostenere la letteratura dell’esilio, una volta rientrato in Spagna, fu per lui una missione, e prima di morire nel 2007 fece in tempo ad assistere al primo, timido risveglio di interesse per l’opera di Luisa.