lunedì 27 settembre 2021

Da leggere: Lina Meruane

 


Lina Meruane



Dal cosmo al corpo 

Racconta Lina Meruane che quando cominciò a pubblicare, una ventina di anni fa, le grandi scrittrici cilene della prima metà del novecento (mai riconosciute fino in fondo, a parte l’icona quasi sacra del Nobel Gabriela Mistral) erano state “nascoste sotto il tappeto”, mentre quelle della generazione successiva avevano dovuto misurarsi con il cupo silenzio imposto dalla dittatura. Alle autrici nate alla vigilia del golpe è toccato invece farsi largo in un contesto dove le donne avevano ancora scarso spazio, riuscendo comunque a imporsi come punto di riferimento per i lettori, per la critica e per la schiera di giovani e giovanissime scrittrici latinoamericane oggi alla conquista di un successo sempre crescente.

È appunto tra queste “magnifiche cinquantenni” della letteratura cilena (tra le altre, Nona Fernández e Alejandra Costamagna, note anche nel nostro paese) che si colloca Meruane, la cui scrittura continua a evolversi in modo sorprendente e a sperimentare stili e fraseggi nuovi, senza però distogliere lo sguardo dai personaggi femminili e dai temi che da sempre sono al centro della sua attenzione, in primo luogo quello della malattia, sostenuto da forti radici autobiografiche. Da quando aveva sei anni, infatti, Meruane convive con una forma di diabete che le ha danneggiato la vista (per i suoi genitori, una coppia di medici, è stata allo stesso tempo figlia e paziente) ed è cresciuta in una casa dove i dialoghi e le discussioni degli adulti componevano un racconto appassionante quanto un poliziesco, con i sintomi in luogo di indizi e la diagnosi giusta come soluzione dell’enigma.

L’autrice ha poi trasferito questo singolare retroterra e il bagaglio linguistico che lo accompagna in saggi come Viajes Virales (2012), sull’Aids nella letteratura latinoamericana, o il recentissimo Zona ciega, tres ensayos sobre visión y ceguera, appena pubblicato da Penguin Random House, e soprattutto in alcuni romanzi che sembrano comporre una trilogia sul corpo e i suoi cedimenti: Fruta podrida, del 2007, Sangue negli occhi, edito in Italia nel 2013 da La Nuova Frontiera, e Sistema nervoso, ora tradotto per lo stesso editore da Elisa Tramontin (pp. 250, e. 17,90 ). Se Fruta podrida parla di una giovane diabetica che rifiuta con ostinazione di curarsi, Sangue negli occhi narra l’improvvisa cecità di una donna che pretende dalla medicina la certezza della guarigione, mentre in Sistema nervoso la protagonista e la sua famiglia sono immersi in un continuo negoziato con le proprie patologie, affrontate da punti di vista differenti (l’occhio clinico, l’assoluta noncuranza, l’ipocondria, la negazione), mentre la malattia diviene una sorta di codice intimo, di lingua degli affetti.

Tutto ha inizio quando una giovane astrofisica, in un luogo chiamato “paese del presente” e facilmente identificabile con gli Stati Uniti, invoca l’arrivo di una malattia non troppo grave che le consenta di prendersi una pausa dall’insegnamento e concludere l’eterna stesura della sua tesi di dottorato, finanziata all’insaputa di tutti dal padre che, insieme al resto della famiglia, vive nel lontano “paese del passato” (il Cile?). Un desiderio insolito, quasi indicibile, in un mondo votato al culto della salute: ammalarsi per avere più tempo, un tempo solo per sé, sempre negato da quella che Byung-Chul Han ha definito “società della stanchezza”.

E il desiderio si realizza prontamente: spalla e braccio diventano insensibili e inerti, il corpo dell’ammalata viene affidato a macchine onniveggenti, scrutato e palpato da specialisti diversi. Le diagnosi sono talmente vaghe e incerte da imporre un rassicurante rientro nel paese del passato (riconvertito dal ritorno in quello “del presente”, secondo un gioco temporale rilanciato di continuo), mentre il romanzo si avvia a sovvertire buona parte delle convenzioni legate all’antico e solido rapporto tra letteratura e malattia.

Dal sistema solare studiato dalla protagonista siamo così proiettati nel sistema del corpo e in quello familiare, descritto a partire dalle storie cliniche dei suoi membri, mai indicati con un nome proprio: accanto a Lei, l’astrofisica, c’è uno scorbutico Lui, etnologo che si occupa di antiche ossa; il Padre è un medico in pensione costretto a una lunga degenza in un miserevole ospedale pubblico, la Madre (in realtà una matrigna, perché quella biologica è morta di parto); è una ginecologa che ha sconfitto il cancro; il Primogenito è il fratello maggiore che continua a procurarsi incidenti, esprimendo con fratture e ferite il suo costante furore… Intorno a loro, intanto, si muove il corpo rivoltoso del “paese del passato”, sul quale si leggono le incancellabili cicatrici della dittatura, ma anche quelle provocate da una democrazia insufficiente e incompleta (non a caso il primo fra i tre saggi di Zona ciega, intitolato Matar el ojo, parla delle quasi quattrocento persone che, durante le grandi manifestazioni popolari del 2019, le pallottole dell’esercito cileno hanno colpito agli occhi, rendendole parzialmente o del tutto cieche).

Meruane sembra aver scelto i segni e i codici della malattia per mettere in relazione il corpo individuale e quello collettivo, collegando una serie di sistemi (fisici, sociali, economici, politici) che si incrociano, si sovrappongono o si specchiano l’uno nell’altro, lasciando affiorare questioni cruciali: per esempio la percezione, nel “paese del presente”, dei corpi migranti come malattie letali da espellere o annientare; la progressiva distruzione del pianeta, anch’esso corpo vivo e malato; la violenza contro il corpo femminile all’interno di un sistema tenacemente patriarcale; la riflessione sullo sguardo scientifico sempre più parcellizzato; il modo in cui la classe sociale e il censo consentono o negano l’accesso alla cura.

A questa densità di argomenti si aggiungono l’oscillare continuo della memoria e un intreccio di simboli, metafore, sfumature e allusioni che solo una tecnica narrativa quanto mai solida e raffinata può tenere insieme senza sbavature e senza sforzo apparente; il romanzo ha una struttura complessa, ma Meruane riesce a renderlo lieve grazie a una suddivisione in frammenti attraversati da ironie, paradossi, lampi di umorismo nero e segnati dallo sporadico irrompere di parole in corsivo a gruppi di tre, affini ma non necessariamente collegate, che la critica cilena Lorena Amaro propone di leggere come “sinapsi nervose”.

Potremmo interpretarle, però, anche come lapsus rivelatori, come infinitesimali flussi di coscienza, come cellule inoculate nelle frasi per formare impercettibili protuberanze, cisti o nei sulla “pelle” della scrittura, a dimostrazione del fatto che romanzo e malattia sono intenti a contagiarsi reciprocamente, contribuendo ad aprire una crepa sottile nell’immagine utopica di un corpo inattaccabile e perfetto, e ricordandoci che in fondo, come dice un personaggio del romanzo, “lo strano è vivere”.

 

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Scheda 

Quando Lina Meruane si stabilì a New York, dove oggi insegna all’Università, non poteva sapere che di lì a poco ci sarebbe stato l’attacco alle Torri Gemelle e neppure che, subito dopo, alla sua identità di scrittrice e studiosa cilena se ne sarebbe sovrapposta un’altra, almeno negli Stati Uniti. I suoi nonni paterni, infatti, erano tra le migliaia di palestinesi cristiano-ortodossi che tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento emigrarono in Cile, prima per sfuggire alla decadenza dell’impero ottomano e poi perché travolti dalla Nakba, la catastrofe dell’esodo forzato dopo la nascita di Israele. Oggi i cileni di origine palestinese sono più di 500.000: scienziati, calciatori, industriali, artisti, politici come il comunista Danil Jadue, registi come Miguel Littín, grandi scrittrici come Diamela Eltit… E come Lina Meruane, che, scoprendo di poter essere considerata una “immigrante araba potenzialmente sospetta”, nel 2012 decise di visitare un luogo dove non era mai stata, noto solo attraverso rari brandelli di memorie familiari. Frutto di quel non facile incontro con una realtà durissima sono due libri insoliti e di profondo interesse, Volverse Palestina, a metà tra il saggio e la cronaca, e Palestina, por ejemplo, prima incursione dell’autrice nella poesia, entrambi pubblicati da Penguin Random House. In nessuno dei due si trova traccia di rivendicazioni identitarie o del desiderio di recuperare radici perdute; a trasparire è invece un’assunzione di responsabilità nei confronti del presente e la volontà di affrontare, come ha sottolineato Meruane in un’intervista: “… un problema politico che mi riguarda e mi sfida a farmi carico di quel che sta accadendo laggiù”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021

domenica 19 settembre 2021

Da leggere: Sara Mesa

 


Sara Mesa


Ossessioni amorose nella “Spagna vuota” 

Nata a Madrid nel 1946 e cresciuta a Siviglia, Sara Mesa è una delle più interessanti e apprezzate autrici spagnole di oggi, da collocarsi tra le “scrittrici eccentriche” – così le definisce il quotidiano El País che vivono e lavorano lontano dai grandi poli culturali ed editoriali di Madrid e Barcellona, rivendicando la voce e la differenza di spazi considerati a torto periferici. Non a caso Un amore (La Nuova Frontiera, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 192, e.16,50), sesto romanzo di Mesa che arriva in Italia accompagnato dagli elogi incondizionati della critica spagnola, si svolge nella fittizia e sperduta località di La Escapa: poche case, un negozietto, rari abitanti, un segmento minimo della España vacía spopolata dall’abbandono e dall’emigrazione (Sergio Del Molino le ha dedicato un saggio, La Spagna vuota, pubblicato da Sellerio nel 2019), dove la giovane protagonista Nat si trasferisce per affrontare in solitudine la sua prima traduzione letteraria.

Sin dalle prime righe appare chiaro che Mesa non intende alimentare mitologie neorurali: le interessa piuttosto l’interazione tra i membri di una società chiusa, così minuscola da non offrire spazio all’anonimato, e la nuova arrivata che tenta di lasciarsi alle spalle un’inguaribile scontentezza, fallimenti e ferite. Di Nat e del suo passato non sappiamo molto (scopriremo quasi di sfuggita che ha subito abusi nell’infanzia e lasciato il lavoro dopo un piccolo furto), ma non tardiamo a renderci conto della resistenza che il presente le oppone: un padrone di casa il cui disprezzo per una “femmina” di città (di per sé un’anomalia, in un luogo “dove non si vedono mai donne sole”) sfiora la violenza, e una comunità all’inizio amichevole ma subito pronta al controllo, al giudizio, perfino al linciaggio morale dell’estranea (il rimando al Dogville di Lars Von Trier quasi si impone).

Tra gli eterogenei vicini c’è Andreas detto il Tedesco, silenzioso e non più giovane, del quale Nat accoglie la proposta di barattare le costose riparazioni del tetto con incontri sessuali che prescindano dal sentimento; un accordo accettato non tanto per necessità quanto per un impulso incomprensibile, lo stesso che l’ha spinta a rubare un oggetto inutile e poi a respingere il perdono con diffidenza. È proprio la relazione con Andreas, impassibile e insondabilmente mediocre, a rivelarci quanto il titolo del romanzo sia provocatorio: Nat, infatti, si lascia in breve travolgere da un’ossessione che si nutre del bisogno di conforto, ma soprattutto del timore di perdere la propria attrattiva erotica, unica forma di potere che crede le sia concessa.

Ogni passo, ogni gesto, sottolineano il disagio e il perpetuo interrogarsi della protagonista, mentre si scopre incapace di tradurre non solo il testo su cui lavora, ma anche la “lingua” del ristretto universo in cui è penetrata. La Escapa, intanto, reclama la sua vittima sacrificale e la trova in Fiele, il cane maltrattato e selvatico che Nat ha adottato, quasi un alter ego, una proiezione del furore segreto cui lei non può abbandonarsi, intenta com’è ad accettare passivamente l’inaccettabile (per limitare il danno? Perché educata a compiacere, come tutte le donne? O per negare di sentirsi sempre e comunque “inadatta”?).

Dopo romanzi quali Cara de pan (Anagrama 2018) e Cicatrice (Bompiani 2019), imperniati su relazioni eccessive e disuguali, Mesa sembra chiudere un’involontaria trilogia con questo racconto duro e algido, realistico ma incline a scivolare in atmosfere oniriche e inquietanti, vestito di un minimalismo in terza persona avaro di informazioni e denso di rapide immagini, che a partire da pochi e modesti accadimenti ci trascina in un territorio minaccioso e incerto, governato da gerarchie di potere non necessariamente legate al genere, anche se Nat è sovrastata da presenze maschili brutali o paternaliste. Mesa cancella il superfluo e lima le frasi fino all’esasperazione, costruendo un testo la cui innegabile qualità sta nello stile, nell’architettura perfetta, nelle frequenti ellissi che spingono a individuare i punti di incastro delle diverse, levigatissime parti. L’autrice non commenta, non spiega, non favorisce interpretazioni di alcun genere: osserva, mostra, dirige su luoghi e personaggi uno sguardo attento e spassionato, e proprio per questo interpella il lettore, lo inquieta, lo induce a porsi domande, a inseguire ipotesi, a scavare non solo nel romanzo, ma in sé stesso.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di settembre del 2021