domenica 17 ottobre 2021

Da leggere: Andrea Abreu

 


Andrea Abreu



Alle pendici del vulcano 

Parlare di Pancia d’asino (Ponte alle Grazie, pp. 160, e. 15), romanzo d’esordio di Andrea Abreu che in Spagna ha riscosso un successo considerevole quanto imprevisto, significa innanzitutto rispondere a una domanda: fino a che punto si può rendere in un’altra lingua un libro in apparenza intraducibile? Perché a distinguere Panza de burro (questo il titolo originale con cui è apparso presso Barret, piccolo editore sivigliano) è in primo luogo l’uso del linguaggio, impregnato di neologismi, vocaboli scritti come si pronunciano, onomatopee, volontari errori di grammatica e sintassi, anglicismi, saltuaria rinuncia alla punteggiatura e soprattutto localismi. Una versione libera e personale, insomma, della “parlata” di un paesetto delle isole Canarie, che rimanda all’infanzia dell’autrice (nata nel 1995 in un borgo arrampicato sulle pendici del vulcano di Tenerife) e che ha affascinato i lettori spagnoli.

Un testo del genere, basato su una voce aliena alle convenzioni e alle norme della lingua, rappresenta per qualsiasi traduttore una sfida che Ilide Carmignani ha saputo raccogliere, restituendoci attraverso un lavoro minuzioso e creativo buona parte del sapore di una prosa che non si limita a raccontare, ma individua un’epoca (l’inizio degli anni duemila) e un contesto sociale, culturale e geografico. Poco importa che questa scrittura “orale” non sia cosa nuova, ma si ispiri per ammissione della stessa autrice a romanziere latinoamericane come Rita Indiana, Pilar Quintana o Aurora Venturini , o al canario Víctor Ramírez, perché Abreu ha saputo trovare un tono proprio e immediatamente riconoscibile, al tempo stesso sboccato e immaginoso, crudo e lirico, pieno di umorismo e di malinconia.

Diario dell’estate condivisa da due ragazzine che affrontano il tumultuoso passaggio dall’infanzia all’adolescenza, Pancia d’asino narra in prima persona il rapporto intenso e diseguale tra Isora, audace e impudica, avida di esperienze e di cibo (ma che si procura il vomito dopo ogni abbuffata), e la timida e incerta narratrice senza nome, che l’amica chiama “shit” come per sottolineare la comune attenzione alle secrezioni e agli umori più segreti di una fisicità “sporca” e disinibita. Isora comanda, shit obbedisce ciecamente: quello che la lega all’amica, infatti, è in realtà un primo amore fatto di ammirazione, gelosia, sperimentazioni sessuali, masturbazioni condivise, invidia e venerazione per il corpo dell’altra, descritto e adorato in ogni dettaglio, dal seno nascente alle unghie orlate di sporco alla “patata” su cui già cresce un vello che Isora rade con ostinazione.

La scoperta del sesso (simboleggiata in qualche modo dalle fantasie di shit sull’eruzione del vulcano e sul fiume di lava che potrebbe travolgere ogni cosa) è il filo conduttore del romanzo, e, se è vero che la letteratura contemporanea è piena di appassionate amicizie femminili e adolescenziali (dall’inquietante e raffinato Lo dice Harriet di Beryl Bainbridge al recente Mandibula di Monica Ojeda), va detto che Pancia d’Asino possiede una sua indubbia originalità grazie ai personaggi sapientemente modellati dall’autrice e a un suggestivo quadro d’ambiente, che emerge dall’andare e venire tra case giocattolo dai colori accesi, campi e dirupi, lontano dalle spiagge riservate ai turisti, sotto il tetto di nuvole sospinto contro il vulcano dagli alisei e simile alla pancia argentea di un asino. Un paesaggio che fa da sfondo a vagabondaggi, a piccole avventure, all’assenza dei genitori che lavorano giù in basso, alla presenza implacabile delle vecchie rimaste in paese, che tramandano usanze e leggende, tolgono il malocchio e rivelano nei lineamenti l’eredità dei Guanches, antichi abitatori delle isole.

L’universo rurale e quasi arcaico che si sovrappone all’immagine di una Tenerife da cartolina non è, tuttavia, isolato come sembra. Ne siano consapevoli o no, le ragazzine sono parte di un mondo più vasto con cui condividono le barbie, i Pokémon, certi consumi, serie tv, canzoni, l’internet offerto dal Centro culturale. E questi assaggi ed echi di un mondo globale, questi brandelli di modernità, contribuiscono a dare al romanzo una dimensione di straniante autenticità e un’indubbia coloritura politica, visti e agiti come sono a partire dalla marginalità e dall’esclusione in cui vivono Isora e shit.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021


mercoledì 13 ottobre 2021

Da tradurre: Miguel Martínez del Arco

 


Miguel Martínez del Arco



L’allegria come orizzonte 

Figlia di una ragazza madre analfabeta, unica della sua famiglia ad arrivare fino alle soglie dell’università, comunista sin da giovanissima, imprigionata a ventun anni, uscita dalle carceri franchiste a quaranta, compagna per sempre di Ángel Martínez, dirigente sindacale di cui si innamorò durante il loro comune processo (tra tutti e due scontarono complessivamente quarantaquattro anni), Manoli del Arco è stata una militante fino all’ultimo giorno della sua vita, che ha incluso fughe rocambolesche, false identità, resistenza mai piegata, costante attività politica e sociale. Ed è stata anche una madre, perché nonostante le lesioni all’utero provocate dalla tortura, una volta ritrovato il suo compagno ha avuto un figlio che ha trascorso l’infanzia e la prima adolescenza in una Spagna mai stanca di perseguitare i suoi genitori, usciti di prigione solo per “entrare in un carcere più grande”, almeno fino a una Transizione ipocritamente pacificatrice.

Manoli è scomparsa nel 2006 a ottantasei anni, e in questi giorni suo figlio, il sociologo Miguel Martínez del Arco, ha presentato a Madrid Memoria del frío (Hoja de lata, pp. 448, e. 22.90, prefazione di Edurne Portela), un poderoso romanzo-verità sulla storia della madre ispirato dalle cinquemila lettere che i genitori si scambiarono da carcere a carcere, e in cui trova ampio spazio la comunità di prigioniere pronte a creare, nel luogo in cui venivano umiliate, affamate, vessate, legami di sorellanza e mutuo appoggio, escogitando stratagemmi per comunicare con l’esterno, studiando e discutendo, condividendo ogni cosa. “Femministe, lo sapessero o no”, dice Miguel, che dedica il libro “Alla memoria di mia madre e delle sue amiche/compagne che hanno resistito al franchismo e ci hanno lasciato in eredità la capacità di ridere”. Perché oltre alla “disobbedienza, la ribellione, l’opposizione all’ordine esistente, la possibilità di migliorare, la cura, la lotta contro l’ignoranza e l’ingiustizia”, a connotare queste formidabili donne è stato lo sguardo verso il futuro, avendo “l’allegria come orizzonte”. Ricordare che tutto questo è davvero accaduto, al di là di una memoria ufficiale omissiva, stanca e imbalsamata, sembra oggi un dovere ineludibile, in una Spagna che (proprio come il nostro paese) non ha mai fatto i conti fino in fondo con il passato.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021



Da leggere: Julián López


Julián López


 


Una madre diversa dalle altre 

Un bambino con i capelli rossi (unica eredità di un padre mai conosciuto, la cui assenza lascia immaginare un precoce abbandono) e una giovane madre incantevole e misteriosa, che condividono una solitudine a due nel loro modesto appartamento di Buenos Aires, a metà degli anni ’70: ecco i protagonisti di Una ragazza molto bella, primo romanzo del poeta Julián López ora tradotto da Sara Papini per Alessandro Polidoro Editore (pp. 172, e. 16), che va presentando un’ottima e meditata scelta di scrittori latinoamericani contemporanei.

Un libro indimenticabile, l’ha definito la grande scrittrice e cronista argentina Maria Moreno, e con ragione, perché López riesce non solo a evocare un’epoca con densa brevità e attraverso la somma di innumerevoli dettagli, ma anche a innovare il racconto di un tema già trattato infinite volte, e soprattutto a ricostruire il rapporto tra una madre diversa dalle altre e un figlio che, divenuto adulto, si affida allo sguardo dei suoi sette anni per riordinare i ricordi degli ultimi mesi trascorsi con lei.

– Mia madre era una ragazza molto bella, mia madre mi amava – ripete più e più volte il narratore: una reiterazione che riafferma il vincolo d’amore, ma rinnova anche l’ansia e l’incertezza. Rapito nella costante osservazione di una “ragazza” che non si annulla in una maternità ciecamente servizievole, ma gli spiega che i libri “fanno la differenza” e gli manda allegre cartoline per fantasticare su viaggi mai avvenuti, il figlio intuisce che entrambi vivono in un tempo irreale e sospeso, sa che la madre non esiste solo per lui, che nella sua vita c’è dell’altro, un segreto in cui si nasconde un vago annuncio di catastrofe.

Tra l’azzurra luminosità dell’Orto Botanico, il grigiore opalino della nebbia, la penombra delle stanze, le rare visite dello zio e l’affettuosa presenza della vicina Elvira, matura ex cantante di tango, non risuonano mai parole come guerriglia, repressione, politica, militanza. Il bambino non le conosce, perciò il narratore le esclude, così come evita, grazie a un uso frequente dell’ellissi, la rappresentazione diretta della violenza (l’irruzione dei militari, la devastazione dell’appartamento, il sequestro della madre), ma non tralascia di costellare il testo di tracce spesso nascoste in simboli e metafore.

La foto del Che sulla parete, la picana distrattamente nominata dallo zio durante una gita in campagna, il passaggio di un convoglio militare, il terrore di non veder riapparire la madre quando si tuffa, gli animali crudelmente uccisi, la scalinata sulla scogliera che porta al vuoto di un precipizio, certe piccole frasi della “ragazza bella”, le sue lacrime quando la tv parla di Monte Chingolo (luogo della sanguinosa sconfitta dell’Ejército Revolucionario del Pueblo nel dicembre del 1975): nessuna immagine, nessun accenno è casuale. Il vuoto tra la scomparsa della madre e l’età adulta è, invece, qualcosa che il narratore non intende riempire, nemmeno adesso che ha deciso di scrivere per “respirare”, per smettere di essere soltanto il figlio di una desaparecida, spezzato dall’enorme peso di un’eredità che gli è stata imposta.

Il romanzo ha molto in comune con un vasto corpus narrativo, consolidato e spesso pregevole, i cui autori sono i figli di vittime della dittatura che rifiutano la letteratura testimoniale e propongono altre forme di rappresentazione del trauma, come lo humor nero, l’irriverenza, il fantastico, il collage di residui e frammenti (foto, lettere, ricordi altrui), l’abbandono degli stereotipi eroici, uno sguardo legato all’immaginario infantile e all’intimità. Una visione laterale e “dal basso” che López condivide, ma con alcune differenze; la più evidente sta nel fatto che, pur avendo perso la madre da bambino e a pochi mesi dal golpe, l’autore non è figlio di una desaparecida e innesta la propria esperienza dell’orfanezza in quello che è ormai divenuto quasi un genere a sé e che si fonda abitualmente sul dato autobiografico. Forse è anche per questo che, nota Moreno, il figlio non scrive per evocare la vita di una vittima, ma “per far esistere la madre sotto la luce del suo sguardo amoroso”.

Nel racconto non c’è ombra di recriminazione o rancore per le scelte della “ragazza bella” e per il suo definitivo e involontario abbandono, ed emerge piuttosto il desiderio di restituirle la corporeità che le è stata violentemente sottratta. Da qui l’insistenza sulla sua bellezza, sul colore e la densità della chioma, sul calore del contatto, sull’odore, sulla grazia sensuale del corpo materno: un potere di seduzione che il narratore sottolinea introducendo una citazione di La caricia perdida di Alfonsina Storni (la poesia preferita dalla madre) in cui la donna appare come soggetto desiderante e responsabile del proprio destino.

Tutto questo López l’ha travasato in un realismo lirico così limpido da cancellare qualsiasi sospetto di banalità o di retorica, e nel ritmo misurato e ipnotico di una prosa che, come Viktor B. Šklovskij consigliava in un suo libretto tradotto più da vent’anni fa da Pia Pera (Il mestiere dello scrittore e la sua tecnica, 1999), richiede di essere letta “lentamente, con calma, senza saltare, soffermandosi”. Perché, sottolinea Šklovskij, “Non ce ne sono poi troppi di libri buoni, di libri che bisogna assolutamente leggere”. E Una ragazza molto bella è senz’altro fra quelli.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021

lunedì 11 ottobre 2021

Da leggere: Mariana Enríquez

 


Mariana Enríquez



Un maelström narrativo 

Algo está pasando (Sta succedendo qualcosa) è il titolo di un articolo apparso nel mese di giugno sulla rivista Lengua, così felicemente approfondito da richiedere la pubblicazione in tre puntate. Leila Guerriero, notissima autrice di crónicas ma anche editor sperimentato, si è servita di questo spazio per esaminare “una costellazione di autrici dalle voci potenti, che provengono dalla stessa zona” – ovvero l’America latina – e della loro crescente fortuna editoriale in patria e all’estero, accompagnata da “un’alluvione di premi internazionali e una tempesta di recensioni elogiative”, e talvolta da un discreto successo di vendite, come quello che ha premiato, per esempio, l’indubbia qualità degli ultimi romanzi di Valeria Luiselli e Guadalupe Nettel, entrambe messicane.

Tra i nomi che ricorrono più spesso tra i molti citati nella minuziosa indagine di Guerriero c’è, inevitabilmente, quello dell’argentina Mariana Enríquez, scrittrice singolarissima (ma anche giornalista culturale, crónista, biografa di Silvina Ocampo) il cui ultimo romanzo, oltre a fare incetta di premi e a venire tradotto in venti paesi, sembra lanciare con fiduciosa noncuranza una sfida a lettori e critici, ammaliati e sopraffatti da un racconto monstre che sfugge a ogni definizione e sembra riassumere e dilatare tutta la produzione precedente dell’autrice, finora nota ai lettori italiani per la magnifica antologia di racconti Le cose che abbiamo perso nel fuoco, pubblicata da Marsilio nel 2017.

Apparso nel 2019 presso Alfaguara, il romanzo in questione arriva adesso in libreria nell’eccellente traduzione di Fabio Cremonesi (Marsilio, pp. 720, e. 22) esibendo un titolo tratto da un verso di Emily Dickinson, La nostra parte di notte, e una trama di solida architettura suddivisa in sei parti che, senza attenersi all’ordine cronologico, si dipana durante la dittatura militare e la presidenza Menem, con ampie incursioni nel XIX secolo, nell’orgiastica swinging London degli anni ’60 e nell’Africa coloniale. Ciascuna parte rimanda alle altre ma possiede caratteristiche proprie, articolata com’è intorno a punti di vista differenti, espressi quasi sempre da una nitida terza persona che a volte cede il passo alla prima (è il caso, per esempio, del ben orchestrato reportage di una giornalista o dei ricordi di Rosario, compagna del protagonista) e connotati da uno stile preciso, da una diversa “coloritura” del terrore e dall’aggancio alla realtà, testimoniato dal richiamo a vicende effettivamente accadute, ma anche dal rapporto stabilito tra il fantastico più estremo e la banalità quotidiana.

La storia dell’Ordine, una setta composta da famiglie dell’oligarchia che perseguono la vita eterna attraverso il culto di un dio oscuro e vorace, procede in parallelo a quella dell’Argentina e se ne nutre, nascondendosi dietro i crimini della dittatura e generando al pari di essa fantasmi senza pace, sparizioni, segreti: fondato sul dolore e la mutilazione, L’Ordine pratica il rapimento di bambini, la tortura di corpi offerti in sacrificio, la semi-schiavitù dei medium che, per chiamare il dio, bruciano in fretta la propria vita. La dittatura e la sua capacità di produrre una memoria atroce quanto inesauribile si infiltrano dunque nel romanzo e sembrano fare da collante alle mille storie e agli innumerevoli personaggi di La nostra parte di notte, a cominciare dai protagonisti Juan (eroe byroniano sospeso tra il Bene e il Male) e suo figlio Gaspar, oppressi da un terribile dono ereditario e incalzati dall’Ordine.

Una lettura del romanzo in chiave politica nasce spontanea, e a rafforzarla affiorano le allusioni a una condizione infantile disperata o all’emarginazione di intere classi sociali imposta dal modello neoliberista. Eppure sarebbe riduttivo decifrare La nostra parte di notte solo in base alla sua capacità di esplorare in modo eterodosso le ferite di una società, anche se la sotterranea presenza del discorso politico risulta in qualche modo naturale, quasi ovvia, nell’opera di chi come Enríquez è nato alla vigilia di un colpo di Stato e ha trascorso l’infanzia alla sua ombra (non è la stessa cosa, sottolinea l’autrice, trovare delle ossa in un’abbazia medioevale o nell’Argentina di oggi). Il romanzo, infatti, è anche un viaggio alla ricerca dell’identità, una saga familiare, una rappresentazione del rapporto padre-figlio, un discorso su tutte le forme del desiderio e su corpi ridotti a scarto e rifiuto, sfruttati, usati, violati, corpi mostruosi e temibili, corpi esausti e malati, metamorfici e in rivolta.

Non va dimenticato, infine, che il romanzo manifesta orgogliosamente la sua appartenenza al genere e che del genere sfrutta con abilità ogni meccanismo, convenzione e sfumatura, mescolando infiniti ed eterogenei riferimenti letterari (da Stephen King a Shirley Jackson, da Henry James a Ballard, da Clive Barker fino a Rimbaud, William Blake, Alejandra Pizarnik ed Ernesto Sabato, per citarne soltanto alcuni) con i rimandi alla pittura romantica o surrealista, la poesia, il rock, i comics, il cinema, la religiosità popolare dei santitos, la magia, la fiaba. Un testo in cui Enríquez ha convogliato gli esiti di un percorso profondamente personale, costruito a partire da una ricerca costante e da sconfinate letture, ma che prescinde da una semplice ars combinatoria: La nostra parte di notte, autentico maelström pronto a inghiottire il lettore, prende da tutti e non ruba a nessuno, perché ogni suggestione, ogni immagine, ogni materiale viene restituito in forma ancora riconoscibile eppure del tutto originale, fino a farci sospettare che quanto ci viene proposto non sia il rinnovamento, ma piuttosto la rifondazione di un genere.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021