giovedì 25 novembre 2021

Da leggere: Nona Fernández

 


Nona Fernández



Infinitamente grande, infinitamente piccolo

Patricio Guzmán, ottantenne documentarista cileno cui dobbiamo la memorabile trilogia La Batalla de Chile e il notevole La memoria del agua, in una recente intervista a El País ha fatto presente che “Ogni creatore ha un tema ossessivo, che lo riempie. Per alcuni è una città o una persona, per me è la memoria di questo paese”. La stessa cosa potrebbe dire Nona Fernández, attrice, commediografa e soprattutto una delle migliori scrittrici latinoamericane di oggi, assai più giovane di Guzmán (è nata a Santiago del Cile nel 1971) ma come lui in lotta con la desmemoria, la terribile smemoratezza che in questi giorni ha portato un pinochetista di ritorno come Antonio Kast al ballottaggio per la presidenza della Repubblica.

La scrittura di Fernández, sia destinata al teatro o si dispieghi in romanzi o in novelle, mette sempre in primo piano il ruolo di una memoria che per anni si è cercato di sterilizzare con l’insistente invito a voltare pagina e ignorare le cicatrici, accompagnato dal costante negazionismo della destra e dall’appropriazione istituzionale del lutto collettivo, travasato in stanche cerimonie ufficiali. Per avventurarsi in quella voragine tenebrosa che sono gli anni della dittatura (esplorata, per fortuna, da scrittori come Pedro Lemebel e Diamela Eltit, solo per citarne due fra i più noti nel nostro paese, come da molti altri, spesso appartenenti alla “generazione dei figli”) Fernández parte da esperienze personali, si serve di un’immaginazione vivacissima che a volte assume tinte surreali o gotiche e fa uso elementi di pop legati a cinema, televisione, fumetti, musica.

Ritroviamo questo procedimento anche in Voyager, edito in Cile nel 2019, approdato in Italia nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto e appena uscito presso gran vía (pp. 138, e. 14): un testo che non appartiene alla narrativa pura e che difficilmente si può definire un saggio o una cronaca, ma si presenta come ibrido e indefinibile (sempre che ci sia bisogno di applicargli un’etichetta), attingendo senza esitazioni a tutti e tre i generi. Una proposta, insomma, che ignora volutamente limiti formali e temporali per affrontare il tema della memoria da molteplici angolazioni, mentre il titolo rimanda, non a caso, alle sonde spaziali lanciate negli anni ’70 dalla Nasa per esplorare il sistema solare (si stima che saranno attive almeno fino al 2025), equipaggiate in modo da “registrare” brandelli di universo e portare un breve messaggio fatto di simboli e cifre a possibili presenze aliene.

A bordo di un Voyager immateriale, infatti, Fernández viaggia in un cosmo dove trovano spazio la dimensione intima e quotidiana, il mito greco, l’astronomia, l’astrologia, la scienza medica, sogni e incubi, la storia cilena recente, foto di famiglia e l’elenco delle innumerevoli, assurde dichiarazioni di una stupidità decisa a “trattenerci nell’orizzonte di eventi del grande buco nero in cui siamo sul punto di naufragare” (per esempio la terra che è piatta, il cancro “che si cura col veleno di una rana”, l’Olocausto che non è mai avvenuto, le donne “che tramano piani per mortificare gli uomini”, il riscaldamento globale che non esiste). E poi il discorso del liceale Dante (figlio dell’autrice), invitato a commemorare il Plebiscito contro la dittatura con un discorso prontamente censurato, perché non offre sponde agli intolleranti dai quali troppo si è tollerato, i ricordi d’infanzia e quelli di una nazione intera, il video su cui scorrono le puntate in bianco e nero di Cosmo, serie divulgativa dell’astrofisico americano Carl Sagan (uno dei padri delle Voyager) capace di offrire a una “bambina del Sud” la possibilità di intraprendere un viaggio di conoscenza “verso un’altra realtà possibile, lontano da sparatorie e coprifuochi”.

Fernández incatena liberamente, con grande naturalezza e con sottile rigore, associazioni e digressioni pronte a formare una costruzione solida e perfetta che poggia sulla prima pietra di un incipit in cui l’anziana madre di Nona si sottopone a un esame neurologico per scoprire la causa di improvvisi svenimenti accompagnati da perdita di memoria, e viene invitata dal medico a ricordare qualcosa di piacevole; mentre lei ripensa alla nascita della sua bambina, la figlia vede apparire sul monitor una lampeggiante, luminosa costellazione di neuroni che la induce immediatamente ad accostare cosmo e cervello umano, l’infinito e l’infinitamente piccolo. Un collegamento dal quale nascerà una spirale di racconti, dati e riflessioni che, per mezzo di una scrittura come sempre incantevole, stabiliscono una continua tensione tra l’uomo e l’universo, tra l’immaginazione e la menzogna volontaria e involontaria, tra l’identità personale e la storia collettiva – innanzitutto quella non ufficiale – mentre “la luce del passato illumina il nostro presente” e la memoria, inclusa quella del corpo, così potente e così spesso inascoltata, definisce ciò che siamo e ci proietta verso il futuro.

Nella ricca, turbinante galassia di immagini proposta da Voyager, spiccano quella di un matriarcato consapevole, ironico e solidale (Fernández, la madre che costruisce la propria vita fuori dalle regole patriarcali e senza appoggio maschile, la nonna che scaglia furiosa il grembiule contro il televisore quando compaiono Pinochet e il suo ideologo Jaime Guzmán), quasi un annuncio del battagliero femminismo futuro, e un’altra infinitamente preziosa: il deserto di Atacama, affollato di suggestioni, di silenzi parlanti, di presenze fantasmatiche come quelle dei ventisei prigionieri politici uccisi il diciannove ottobre del 1973 dalla Carovana della Morte, sepolti nella sabbia e poi esumati e forse gettati in mare perché nessuno potesse ritrovarli. Una costellazione di corpi cui ne corrisponde un’altra, la Constelación de los caídos, che su proposta di Amnesty International avrebbe dovuto portare i nomi dei caduti, rinominando ventisei stelle visibili dal deserto, il miglior luogo al mondo per osservare il cielo. Nona Fernández è stata la “madrina” di una stella che, se il progetto fosse andato a buon fine, si sarebbe chiamata Mario Arguelles Toro come uno degli uccisi, un dirigente socialista di trentaquattro anni che si guadagnava la vita guidando un taxi, e la cui vedova si ostina a pretenderne le ossa: di lei, di loro, del giovane astronomo che scoppia a piangere mentre li commemora nel gelo notturno del deserto, Voyager ci racconta con asciutta ed efficace mancanza di retorica.

Non si può non ricordare, infine, che sebbene sia stato scritto nei mesi precedenti all’estallido – l’esplosione sociale dell’ottobre 2019 che ha imposto la necessità di una nuova Costituzione – il libro è apparso in Cile proprio in coincidenza con la rivolta, ed è difficile separarne la lettura dalle speranze e dall’indignazione espresse nel corso di un’immensa protesta, al grido di “non era depressione, era capitalismo”, contro quello che Fernández definisce “un neoliberismo abusante”. È davvero tempo, insomma, che il Cile riesca a staccarsi, come un autentico Voyager, dall’ancoraggio fin troppo solido e duraturo allo spazio della dittatura.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2021

lunedì 1 novembre 2021

Da leggere: Camila Sosa Villada


Camila Sosa Villada


 


Il corpo desiderante come opera d’arte 

Destinato alle scrittrici di lingua spagnola, il Premio Sor Juana Inés de la Cruz viene assegnato in Messico da quasi vent’anni e tra le opere che lo hanno vinto ci sono quelle di Elena Garro, Gioconda Belli, Lina Meruane, Nona Fernández: autrici molto diverse, ma accomunate da un’indiscutibile qualità letteraria. Nel 2020 il riconoscimento è andato (a sorpresa, ma non troppo) a Las malas dell’argentina Camila Sosa Villada, un romanzo di immediata fortuna che viene ora tradotto in otto paesi, compreso il nostro, dove le edizioni Sur lo presentano ai lettori nell’accurata versione di Giulia Zavagna (Le cattive, pp. 224, e. 16,50), che si è misurata efficacemente con un linguaggio denso e complesso.

Nata nel 1982 in un paesetto vicino a Cordoba e oggi nota attrice di teatro, commediografa e cantante, Sosa Villada aveva già pubblicato un volume di versi e un testo sospeso tra saggio e narrativa, in cui affronta il proprio rapporto con la scrittura intensamente praticata sin da bambina. Le cattive è dunque espressione di un talento multiforme, che sfugge alle etichette e va ben oltre la testimonianza, la cronaca o l’autobiografia (il percorso di vita dell’autrice coincide con quello della protagonista, che porta il suo nome: l’infanzia povera e violenta, la prostituzione, le coordinate geografiche e familiari), per trovare nella finzione lo strumento più adatto a restituirci la realtà, cucendo i tasselli del testo con una scrittura a volte cruda e concisa, a volte immaginosa, in cui si fondono echi del lessico trans, del neobarroso di Néstor Perlongher (poeta e fondatore, negli anni ’70, del Frente de Liberación Homosexual) e del lirismo feroce di Pedro Lemebel.

È tra la fine dello scorso secolo e l’inizio del nuovo che Camila, la voce narrante, si trasferisce a Cordoba per sfuggire alla brutalità di un padre che vorrebbe un figlio “virile”, e quando comincia a prostituirsi per sopravvivere scopre le trans del Parque Sarmiento riunite intorno alla possente Zia Encarna, trans venuta d’oltremare e pronta a tutto per le “figlie” che sostiene, punisce, perdona e ospita nella sua grande casa. Le loro storie si intrecciano a quella di Camila grazie a continui salti temporali che ci riportano ai giorni in cui la protagonista si chiamava Cristian e dopo la scuola era costretta a girare per le strade vendendo gelati, o, da adolescente, si travestiva di nascosto prima delle sue incaute uscite notturne, presagio dell’oscurità che domina il parco e governa la vita delle trans: la luminosità diurna, infatti, è un privilegio negato a chi col suo solo apparire attira insulti e aggressioni.

L’ostilità della luce (resa evidente dai lampioni installati per combattere la prostituzione, o dai lampeggianti della polizia) fa sì che di giorno le trans vivano nel riverbero del video che trasmette telenovelas o degli specchi davanti ai quali misurano la propria femminilità. Tanto più significativa appare, quindi, la decisione di chiamare Splendore degli Occhi il neonato che Zia Encarna trova fra i rovi del parco, che decide di adottare e che attirerà la tragedia, quando i vicini scopriranno lo “scandalo” della sua presenza in un nido di travestite. Grazie all’appassionato amore per il piccolo, il romanzo mette in scena forme di parentela fuori dagli schemi e modi di stringere legami differenti da quelli mediati dal sangue e dalla genetica: una maternità fondata sull’affetto e la cura, fisicamente incapace di partorire, ma non di concepire e generare il nuovo. A questa maternità elettiva si contrappongono crudelmente l’orfanezza, l’espulsione precoce dalle famiglie d’origine, la furia della “normalità” che circonda di una livida aureola l’esistenza delle trans, il cui tempo è terribilmente breve. “Cuantas muertas mas?” è la domanda che echeggia nelle loro manifestazioni e che Sosa Villada insedia nel testo raccontando la morte delle compagne uccise, suicide, divorate dall’Aids. Nemmeno la religione sembra disposta a tollerarle, e per questo, forse, si rifugiano in culti bizzarri o nella devozione per i santitos “non ufficiali” come la Defunta Correa, perita nel deserto e capace di allattare il suo bambino anche da morta (e Sosa Villada insinua: il bebè del parco non potrebbe essere il figlio della Defunta, del quale più nulla si è saputo?).

Accanto a personaggi e situazioni durissimi e realistici (la sprezzante ipocrisia dei clienti, i soprusi estremi della polizia che stupra ed esige mazzette, l’affermazione di un’identità derisa e negata), nell’universo finzionale del romanzo ne intervengono altri che rimandano al fantastico: uomini senza testa, neonati chiaroveggenti, eterne giovinezze come quella di Zia Encarna, che ha centosettantotto gloriosi anni. Il corpo torturato e desiderante delle travas, sempre in primo piano, ci si presenta come un’audace opera d’arte sempre in divenire, sempre rielaborata e modificata, e i frequenti richiami al mondo animale sono metafora della trasformazione: la sordomuta Maria mette le piume, rimpicciolisce, diventa un uccellino; Natalí assume la forma di una lupa a ogni plenilunio. Presenze che sembrano nascere, più che da una rilettura del realismo magico, dalla narrativa orale e popolare che è arrivata all’autrice attraverso le zie contadine o il folklore urbano.

Nonostante arrivi da una sopravvissuta all’invisibile campo di concentramento in cui le trans sono costrette a vivere, il racconto rifugge dal vittimismo e dal lamento: nell’appropriarsi del linguaggio, Camila reclama un territorio dal quale manifestare apertamente la desolazione e la collera, esercitare l’ironia, svelare le menzogne, rendere visibile il danno, travasare fierezza nei più logori insulti (scriveva Lohana Berkins: “Abbiamo deciso di dare nuovi significati alla parola travesti e di legarla alla lotta, alla resistenza, alla dignità e alla felicità”) e farlo in forme dichiaratamente artistiche e letterarie, senza rinunciare al significato politico nel senso più ampio del termine e dando un peso speciale al non detto, al silenzio che disegna l’inesprimibile.

Non ha caso Sosa Villada dice, nel discorso di accettazione del premio: “Il mio è un libro complice perché anestetizza la colpa di una società che voleva il mio cadavere e quello di molte altre, e che ancora li vuole. È un libro che copre una mancanza della cultura ed è complice perché non racconta neppure il dieci per cento dell’orrore che è stato essere travesti venticinque anni fa. A quell’età, spaesata come una pantera nel cuore della città. Non è possibile scrivere di quegli anni, e questo è il segreto del romanzo, ciò che lo rende accessibile al dolore e alla parola. Tutto il resto rimane in silenzio ed è in ogni pagina. Perché il libro smetta di essere complice con il genocidio trans, devo essere onesta con voi. Sono una scrittrice incapace di parlare di quegli anni, di quello che c’era nell’aria e che ancora non posso descrivere”.
 

***
 
Scheda
 

“Chi se lo sarebbe aspettato, dieci anni fa, che a una ragazza trans come me avrebbero dato un premio che porta il nome di una suora, e per un libro come Las malas!” dice Camila Sosa Villada. Già, chi se lo sarebbe aspettato, dieci o venti anni fa, che il mondo del travestismo argentino, condannato a un’emarginazione così assoluta da somigliare a una cancellazione, sarebbe diventato produttore di cultura, con scrittrici e artiste come Susy Shock, poetessa e cantante, o Naty Menstrual, autrice del più che notevole libro di racconti Continuadísimo, o saggiste come Marlene Wayar, che è stata direttrice di El Teje, prima rivista trans pubblicata dal 2007 al 2012. E poi iniziative come il Bachillerato Popular Travesti-Trans Mocha Celis, la prima scuola trans del mondo, che offre la possibilità di conseguire un titolo di studio a persone costrette alla prostituzione perché rifiutate dalla famiglia e dalla scuola, e la Cátedra Trava presso l’Università di Buenos Aires (un corso libero, gratuito e itinerante gestito dal Movimento Popular La Dignidad), e, ancora, l’Archivo de la Memoria Trans, collettivo che costruisce e rivendica la memoria tramite foto e video. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il movimento iniziato nei primi anni ’90, quando le travas decisero di prendere in mano il proprio destino scendendo nelle strade, irrompendo nello spazio pubblico, stabilendo alleanze per demolire la disuguaglianza legata “all’identità di genere, la sessualità, la razza, la classe sociale, l’etnia, l’età, l’ideologia in contesti differenti” come ha sottolineato una delle leader del movimento, Lohana Berkins, scomparsa nel 2016, come scomparsa è Diana Sacayán, comunista e piquetera uccisa in un crimine d’odio. È grazie a questa enorme mobilitazione e alla sponda che ha trovato nei governi di Nestor Kirchner e Cristina Fernández che l’Argentina ha oggi una legislazione avanzatissima, composta dalla Ley de Matrimonio igualitario del 2010, la Ley de Género del 2012 e quella approvata nel 2020 sul “cupo laboral” per riservare almeno l’1% dei posti di lavoro pubblici alle trans “che possiedano le condizioni di idoneità per l’incarico”. Anche se il processo è lento e pieno di ostacoli e le leggi finiscono spesso per risultare una semplice manifestazione di buona volontà, la nuova situazione giuridica offre almeno un minimo di protezione a chi è sempre stato sottoposto all’arbitrio più brutale. Una lotta che guarda al futuro, come fa notare Sosa Villada: “Sappiamo che nascono e nasceranno altre come noi, e non vogliamo che subiscano quello che abbiamo subìto”.

 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021

Da leggere: Diamela Eltit

 


Diamela Eltit



Ma le ossa resistono 

“Mai ci fu tanto affetto doloroso/mai il lontano aggredì tanto vicino/ mai e poi mai il fuoco/meglio un ruolo giocò di freddo morto!”, si legge in I nove mostri di César Vallejo, poesia del 1939 sulla sofferenza del corpo come riflesso e conseguenza dell’ingiustizia sociale, e non è certo un caso che Diamela Eltit ne abbia tratto il titolo per l’ottavo dei suoi undici romanzi, ora pubblicato da gran vía nell’eccellente traduzione di Raul Schenardi (Mai e poi mai il fuoco, pp. 160, e. 16). I versi di Vallejo, infatti, sono profondamente affini a quella “poetica del dolore” di cui Eltit ha posto le basi negli anni Settanta con le sue performances per il Colectivo Acciones de Arte, poi abbandonate a favore di una pratica letteraria altrettanto intensa e potente, che mira all’esplorazione della violenza esercitata prima dalla dittatura militare e poi dal mercato sui soggetti subalterni, espropriati dell’identità e del linguaggio.

Nel romanzo, apparso per la prima volta in Cile nel 2007, sono ben riconoscibili sia l’influenza della neoavanguardia e di uno sperimentalismo cui l’autrice non ha mai rinunciato, sia la coerenza che, pur con registri, tematiche e strategie testuali differenti, connota una scrittura fondata su un’esigente ricerca estetica e su un progetto politico via via più radicale. Come in una pièce di Beckett (uno tra gli autori favoriti di Eltit) ci viene presentata una coppia chiusa in una stanza dove l’esistenza si svolge secondo piccoli e intangibili rituali, un guscio miserabile dove si annidano il disfacimento dell’ideologia, dei corpi, degli affetti, mentre lo spazio della città, teatro di violenze nuove e nuovi allarmi, è percepito come una minaccia dagli abitanti della casa-tana, ormai divenuti un tutt’uno con essa.

Nonostante la dittatura sia finita da tempo, i due personaggi senza nome (un ex leader della sinistra e una militante agguerrita, insieme sin da quando erano giovanissimi) continuano a vivere in una sorta di spartana clandestinità, schiacciati dalla disillusione ed estranei al nuovo secolo e alla società neoliberale coltivata in vitro dal regime di Pinochet e rigogliosamente cresciuta dopo la sua fine. L’ingrato compito di avventurarsi all’esterno tocca a lei, responsabile della sopravvivenza, mentre lui non si alza quasi più da un letto che non è luogo del desiderio o del riposo, ma un nascondiglio dove gli antichi amanti si disputano ogni centimetro, tra i fantasmi dei compagni morti sdraiati sul pavimento, appoggiati alle pareti, seduti sul bordo del materasso, pronti ad annuire o disapprovare, oppure a esibire le stimmate della tortura.

La stanza finisce così per rassomigliare a una Comala ben più tragica e inquietante di quella del Pedro Paramo di Juan Rulfo, e proprio queste presenze spettrali, insieme alle visioni paranoidi che inducono la protagonista a narrare di un assassinio (il suo) avvenuto in anni lontani per mano del compagno, alimentano l’ambiguità fitta di simboli e allegorie che Eltit abitualmente coltiva, insinuando dubbi sulla natura e la consistenza della realtà: forse i personaggi sono soltanto ombre, forse lo spazio che occupano è tomba segreta, una delle tante occultate dalla dittatura?

Tra i due è la donna a rifiutare di arrendersi del tutto, mai stanca di analizzare le cause della sconfitta e di rivivere il modo in cui ha preso forma: legge e cita con ferrea fedeltà Il Capitale (metatesto onnipresente) per trovare appoggio ai propri argomenti, ricostruisce volti e voci dei militanti scomparsi, continua a evocare il figlio, probabilmente concepito durante uno stupro in carcere e morto bambino perché portarlo in ospedale avrebbe significato infrangere la clandestinità e mettere in pericolo la cellula, l’ultima tra le tante fondate, organizzate e disciolte. La sua memoria non fruga nelle atrocità della dittatura, ma nelle strategie politiche che fra tutti hanno contribuito a elaborare e nelle loro conseguenze, sommando contraddizioni, vuoti, digressioni deliranti che l’autrice utilizza per mettere in discussione tanto il discorso del romanzo realista sulla post-dittatura quanto l’epica che circonda l’utopia rivoluzionaria, la cui estinzione filtra dalle lacune di una perenne incertezza temporale. La voce narrante non sa dire se certi eventi sono accaduti dieci, cento o mille anni prima, perché l’accumularsi delle catastrofi ha in qualche modo cancellato il tempo, mescolando un passato pieno di falle e zone buie a un presente nebuloso, scandito dalle necessità del corpo e dall’avvicinarsi della morte.

Priva di una trama vera e propria, la narrazione accosta ricordi, squarci onirici e frammenti di quotidianità: un torrente di parole e immagini, un monologo spezzato da rari tentativi di dialogo e affidato a una voce che affonda nel caos. Anche se l’uomo, chiuso in un’afasia piena di rancore, dalla sordida trincea del letto la invita al silenzio e rifiuta ogni tentativo di condivisione, la protagonista non intende tacere e ricorre al desueto vocabolario della militanza, scomparso insieme a coloro che l’hanno usato per lunghissimi dibattiti su un futuro mai raggiunto e per strenue rese dei conti interne. E la tormentata rievocazione di lei non manca di sottolineare come e fino a che punto il corpo e l’identità delle donne siano stati sottoposti alla normatività maschile, interiorizzata anche da una sinistra in lotta contro la dittatura: dinamiche subìte e insieme accettate con disciplinata ma non inconsapevole complicità.

Come sempre nella narrativa di Eltit, anche in Mai e poi mai il fuoco si rivela centrale il tema del corpo, che campeggia in ogni pagina: i mille dolori fisici elencati nel lungo cahier de doléance dei protagonisti, il parto in clandestinità, la malattia e la morte del figlio, sacrificato all’esistenza di un gruppo destinato a disgregarsi di lì a poco, fino agli sfioramenti involontari sul sudicio materasso di gommapiuma, all’ avido ingozzarsi di lui, alla mano paralizzata dai crampi, ai piedi che strisciano sul selciato. Tutto il romanzo, poi, è attraversato da allusioni e riferimenti alla cellula intesa come frazione del movimento clandestino e come unità minima della vita, che richiamano la dialettica tra corpo biologico e corpo politico, entrambi modellati dal contesto sociale ed economico, nonché inesauribile campo di battaglia per il potere.

Pura, terrificante corporeità sono inoltre gli anziani ridotti a carcasse impotenti che lei, per guadagnare qualche soldo, lava e ripulisce ogni settimana, vezzeggiandoli come bambini. Gli arti anchilosati, le piaghe, gli odori, gli sguardi appannati descritti con minuzia (una vera e propria parentesi iperrealista nel flusso allucinato del monologo), fanno da contrappunto al disgregarsi della cellula e alla fine dell’illusione. Sotto la carne in disfacimento, però, restano le ossa, altro elemento ricorrente nell’opera di Eltit, simboli di un corpo dissidente che riemerge con ostinazione, bucando la memoria e affermando la possibilità di resistere.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021