giovedì 9 dicembre 2021

Da leggere: Elvira Navarro

 


Elvira Navarro



Le incrinature della realtà 

“Il talento letterario è un dono naturale di questa autrice, che ha scritto un primo libro classico e feroce, ammirevolmente trasgressore: la sottile, quasi nascosta, autentica avanguardia della sua generazione”. È con queste parole che Enrique Vila-Matas segnalò, nel 2007, la pubblicazione di La ciudad en invierno, breve romanzo d’esordio di Elvira Navarro proposto da Caballo de Troya, autentico vivaio di nuovi scrittori governato da Constantino Bértolo, editor leggendario. Da allora Navarro, che è nata a Pontevedra nel 1978 ma vive da anni a Madrid, ha prodotto altri tre romanzi, La ciudad feliz (2009), il notevole e pluripremiato La lavoratrice (apparso in Spagna nel 2014, è uscito in Italia presso Liberaria nel 2019), e Los últimos días de Adelaida García Morales, tutti accolti con grande favore dalla critica.

Anche il suo ultimo libro, una raccolta di racconti intitolata La isla de los conejos, è degno di nota e, attraverso una scrittura più che mai sobria posta al servizio di trame spiazzanti e suggestive, conferma alcune delle caratteristiche sottolineate da Vila-Matas, come il gusto per la trasgressione o per una ferocia impalpabile e sotterranea. Chi ha letto La lavoratrice, inoltre, ritroverà nella recentissima edizione italiana dei racconti (L’isola dei conigli, traduzione di Sara Papini, pp. 160, e. 16,50) alcuni elementi che si possono ormai definire come costanti dell’intera opera di Navarro, ovvero le svolte fulminee e impreviste della narrazione e il frequente affacciarsi di temi quali la malattia mentale, la precarietà e lo sfruttamento, travasati in metafore inquietanti.

Tutti i protagonisti degli undici racconti sembrano in procinto di venire risucchiati all’interno di impercettibili incrinature della realtà, celate in spazi marginali e desolati come sordide pensioni, isolette pantanose, quartieri suburbani, case occupate: una periferia del territorio cui corrispondono ossessivi labirinti interiori e rapporti di coppia o di lavoro tanto opprimenti da poter essere spezzati solo con la fuga o con la mutazione del corpo, proiettato senza spiegazioni verso una grottesca animalità.

Tra derive oniriche e lo spalancarsi di abissi improvvisi incontriamo così un falso inventore il cui capriccio introduce una popolazione di conigli in una piccola isola deserta del Guadalquivir, causando l’orrorifica alterazione dell’ecosistema; e poi un uomo che forse si trasformerà in insetto, in una storia meno kafkiana di quanto sembri e vicina piuttosto a David Cronenberg, una cuoca d’albergo che conclude la sua sfibrante giornata con sogni infestati dagli incubi altrui, o una studentessa straniera che si perde nella banlieue parigina mentre cerca un luogo in apparenza inesistente dove presentare certi documenti.

Profondamente perturbanti, i racconti aderiscono solo in parte all’estetica e alle norme del fantastico (tranne Stricnina, in cui una ragazza vede crescere dal proprio orecchio un arto nuovo e ferino) e sembrano sfruttare tutte le possibilità offerte dal realismo alla rappresentazione dell’oscurità che invade esistenze intrappolate in conflitti irrisolti, incertezze, disagio e illusioni. Perché, come sottolinea Navarro in un’intervista, “la realtà non è che consenso su ciò che chiamiamo reale. Il codice realista non descrive la realtà, ma la costruisce. In questo senso è una proposta di finzione, e basta un po’ d’ansia per farci apparire minacciosa la normalità”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2021

lunedì 6 dicembre 2021

Da leggere: Edgardo Scott

 


Edgardo Scott




La genesi dell’oscurità

Autore di due romanzi, due raccolte di racconti e alcuni saggi tra i quali spicca lo squisito Caminante: flâneurs, paseantes, vagabundos, peregrinos (Ediciones Godot, 2017), l’argentino Edgardo Scott è ancora poco noto in Italia: un vero peccato, perché la sua esigente ricerca formale, legata a un’identità di lettore quanto mai colto e attento, ma anche a uno sguardo acuto e spesso polemico sui fenomeni sociali e la politica, propone percorsi stimolanti a chi non si avvicina alla letteratura solo attraverso il presunto canone stabilito dal mercato.

La bella traduzione del secondo romanzo di Scott da parte di Alessandro Gianetti, pubblicata da Arkadia (Lutto, pp. 160, e. 14) e l’incontro previsto per lunedì sei dicembre a Più libri più liberi sono perciò l’occasione per conoscere da vicino un autore che è anche uno psicoanalista di formazione lacaniana, e in quanto tale ci rimanda a una sorta di tradizione argentina sulla pratica parallela della letteratura e della psicanalisi da parte di scrittori e poeti tra i quali è d’obbligo citare Luis Gusmán (presente non a caso nell’epigrafie di Lutto), Germán García, Osvaldo Lamborghini e altri ancora.

Il paesaggio del romanzo (non un semplice fondale ma quasi un co-protagonista) è quello dello sterminato Conurbano bonaerense, dove l’autore è nato nel 1978 e dove trascorre l’intera vita di Alberto detto Chiche, proprietario di un negozio di elettrodomestici che un giorno viene assaltato e svaligiato da rapinatori armati. Chiche non esita a sparare, e nell’imprevisto scontro a fuoco muoiono sua moglie e uno dei banditi, trasformando il protagonista in un uomo solo che si rifugia nella rassicurante monotonia di abitudini immutabili. Chiche brucia la spazzatura ogni sabato, va al cimitero tutti i mesi, cresce come può la figlia adolescente, a scadenze regolari affitta film in videocassetta e commenta i fatti di cronaca con un amico, si trova un’amante da incontrare una volta alla settimana: un’esistenza racchiusa in un orizzonte limitatissimo – la casa, il negozio, poche strade – e nel recinto di crescenti ossessioni, come quella per los negros (il termine, reso dal traduttore con “zingari”, non indica il colore della pelle ma la marginalità sottoproletaria) che vivono nel miserabile quartiere abusivo oltre la ferrovia.

Dietro i gesti ripetuti all’infinito si nasconde, però, una corrente sotterranea che finirà per spezzare il cerchio del lutto mai elaborato, suggellando l’andamento circolare di un romanzo in cui forma e contenuto appaiono in perfetta sintonia e inducono a pensare alle considerazioni di Ricardo Piglia sull’esistenza, in seno al romanzo breve, di uno spazio vuoto, un segreto che agisce in permanenza sulla trama e impone al lettore non tanto di interpretare, quanto di narrare ciò che volutamente manca. Proprio questo fa Scott, aprendo e chiudendo il romanzo con due scene drammatiche e violente tra le quali si dipanano sessantatré capitoli brevi e brevissimi dai titoli sempre uguali, che rimandano a una routine in apparenza priva di eventi e al lento scorrere delle stagioni e degli anni. Sono i frammenti del quotidiano, i dettagli minimi registrati da una distaccata e concisa voce narrante, a disegnare il percorso quasi inconsapevole di Chiche verso un finale della cui ineluttabilità ci si rende conto solo alla fine, quando potremo tirare le fila del non detto e renderci conto di come l’autore sia riuscito a mostrarci, con magistrale reticenza, la genesi dell’oscurità che invade a poco a poco un uomo qualunque.

Se nel suo primo romanzo (El exceso, del 2012) l’autore aveva elaborato un ritratto corale della società argentina negli anni ’90, sospinta verso la catastrofe dal neoliberismo estremo della presidenza di Carlos Menem, qui si rifà allo stesso periodo – non ancora Storia, ma passato prossimo le cui tracce sono ancora percepibili – attraverso la vicenda di un singolo individuo agitato da forze arcaiche (l’idea di virilità e di coraggio, il bisogno di vendetta) e allo stesso tempo modellato dalla paura dell’altro e dal bisogno di sicurezza, furiosamente dilatati da media e politica fino ad armare la mano della gente “perbene” e a trasformarla nei mostri della porta accanto.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2021

mercoledì 1 dicembre 2021

Anniversari e addii: Almudena Grandes

 


Almudena Grandes



L’arma della memoria

Poco più di un mese fa aveva rivelato il motivo che la teneva lontana dai frequenti e affollati incontri con i suoi lettori: un tumore diagnosticato un anno prima, che era sicura di poter sconfiggere e che, invece, sabato l’ha portata via a sessantuno anni. Se n’è andata così Almudena Grandes, amatissima da quell’ampia parte di pubblico spagnolo estranea all’aggressività di una destra che, diceva la scrittrice madrilena, “reagisce sempre come se il potere non l’avesse perso, ma gliel’avessero rubato”, procreando per partenogenesi nuove leader quali Isabel Díaz Ayuso e Cayetana Álvarez de Toledo, “giovani, attraenti, brillanti e soprattutto cattive, disposte a mentire, cospirare, influire e far danno”, ha segnalato Grandes in una delle sue ultime rubriche su El País.

Celebre per il grande successo ottenuto nel 1989 con Le età di Lulù – romanzo d’esordio tradotto in venti paesi e poi divenuto un film molto discusso –, l’autrice era infatti tenacemente di sinistra, sempre impegnata in battaglie politiche e civili, e non esitava a pronunciarsi contro i “mostri che il Ventunesimo secolo ci ha restituito in imballaggi nuovi di zecca, che aspirano a depistare e ingannare la gente e a convincerla di essere qualcosa di diverso. Ma non è vero, e il miglior modo di scoprirlo, l’arma più efficace contro queste maschere, è la memoria”.

La certezza che qualsiasi reazione al ritorno in forze dell’estrema destra deve basarsi su una memoria onesta e profonda (“che non riguarda il passato, ma il presente e soprattutto il futuro, perché se non sappiamo da dove veniamo non possiamo sapere cosa vogliamo essere”) aveva spinto Grandes a cambiare completamente la prospettiva della sua opera letteraria, inizialmente dedicata a esplorare con audacia gli anni Ottanta e Novanta con romanzi quali Atlante di geografia umana del 1998 e Troppo amore del 2004 (entrambi pubblicati da Guanda, editore italiano di tutte le sue opere). Nel 2007 aveva compiuto una svolta decisa verso la narrativa a tema sociale e storico con Cuore di ghiaccio, sulla storia di due famiglie dalla Repubblica ai primi anni Duemila, per poi misurarsi con un progetto intitolato Episodi di una guerra interminabile: sei romanzi sugli sconfitti della guerra civile, i militanti anonimi, i guerriglieri sconosciuti, gli uomini e le donne che misero in atto forme diverse di resistenza o semplicemente riuscirono a sopravvivere e a mantenere intatti i propri valori nella terribile solitudine di un paese dove si poteva essere “a piede libero, però mai liberi”.

Per narrare la Spagna della guerra civile e quella degli anni ’50, quando si fucilava meno, ma la paura era una seconda pelle, Grandes ha fatto ricorso alla sua formazione di storica – che emerge nelle note finali –, compiendo ricerche minuziose e ispirandosi apertamente al suo nume tutelare Benito Pérez Galdós, l’autore degli Episodios Nacionales, quarantasei romanzi sulla storia spagnola scritti tra il 1872 e il 1912 (dal suo esilio messicano, il poeta Luis Cernuda scrisse che l’unica Spagna che riconosceva come patria era quella creata da Galdós), al cui modello si rifanno anche i sei titoli di Max Aub sulla fine della Repubblica raccolti nel ciclo El laberinto magico.

Come lui, Grandes ha mescolato realtà e finzione, figure storiche e protagonisti inventati, mettendo una rigorosa documentazione al servizio di trame densissime, popolate da una folla di personaggi (I pazienti del dottor García ne conta 207) e dispiegate in volumi che a volte superano le mille pagine. E come Galdós anche lei ha scelto di raccontare la storia spagnola dal basso, componendo un enorme affresco in cui la gente comune appare in primo piano, con la sua difficile quotidianità, la sua solitudine, le sue rinunce e le sue piccole storie d’amore, così da illuminare la vita e la storia dei dimenticati.

Pensati per affrontare, attraverso storie capaci di avvincere, commuovere, emozionare, eventi e temi della storia nazionale troppo a lungo ignorati e rimossi, e soprattutto per dare a chi legge alcuni strumenti per capire meglio il presente, gli Episodi si ricollegano non solo a Galdós e al realismo classico, ma a certa fluviale narrativa popolare ottocentesca: un linguaggio semplice e comprensibile a tutti, lunghe frasi, infiniti dettagli, rinuncia a qualsiasi sperimentazione stilistica, frequente ricorso a risorse narrative tipiche del feuilleton o del melodramma sentimentale. Il tutto funzionale non solo al recupero della memoria in quanto radice ineludibile del presente, in un paese dove, diceva Grandes, “si è incentivato l’oblio come infallibile ricetta di progresso”, ma anche alla denuncia di problemi e ingiustizie vecchi e nuovi, perché “scrivere è prendere posizione sul mondo. La scrittura in sé stessa è un atto ideologico”.

Inaugurato nel 2010 da Inés e l’allegria, su una giovane comunista arrestata nel 1939 e sulla sua fuga per raggiungere i guerriglieri che dalla Francia entravano clandestinamente in Spagna per combattere il franchismo, il ciclo procede lungo un arco temporale che arriva fino agli anni ’50 con La figlia ideale (il titolo spagnolo, più suggestivo, è La madre de Frankenstein), apparso nel 2020, che prende spunto dalla storia vera di Aurora Rodríguez Carballeira, ricca signora femminista, repubblicana, coltissima e folle che seguendo un suo personale piano eugenetico mise al mondo una “figlia perfetta” dall’intelligenza prodigiosa, destinata a salvare l’umanità e uccisa dalla madre quando volle sfuggire al suo controllo e rendersi indipendente.

Forse il più riuscito tra gli Episodi – e certamente il più disseminato di citazioni galdosiane, ma anche di rimandi a Victor Hugo, letto con passione da una delle protagoniste femminili – La figlia ideale mette in scena una Spagna immersa in un silenzio cimiteriale, dove la complicità tra Chiesa e dittatura crea un mercato di bambini sottratti alle madri “rosse” o povere, gestisce manicomi lager, cura l’omosessualità con la lobotomia… Tre storie si intrecciano: quella di Aurora, quella di uno psichiatra ex fuoruscito e osteggiato dal regime e quella della sfortunata infermiera María, così da inserire destini individuali in un panorama collettivo, rappresentato con una ricchezza di notizie e testimonianze tanto ampie precise da assumere quasi una coloritura didattica.

Aurora, rinchiusa fino alla morte nel manicomio femminile di Ciempozuelos, dove passava il tempo confezionando inquietanti bambole di stoffa provviste di vello pubico, fu giudicata pazza non solo per il suo gesto, ma in quanto donna evoluta e intellettuale di sconfinate letture (“Una donna che legge senza controllo? Ecco il risultato”, proclamò l’accusa). Ma la sua follia non trovava forse riscontro nel mondo esterno cupo e annichilito, in cui tutto ciò che era peccato era anche un crimine (e i peccati erano infiniti e infinitamente vari), mentre le donne, sottoposte a un giogo pesantissimo, avevano solo il diritto di scegliere il colore dei propri vestiti?

Gli Episodi avrebbero dovuto concludersi con il romanzo Mariano en el Bidasoa, sesto e ultimo della serie, ma Grandes non ha potuto lasciare che tracce e appunti relativi a una storia ambientata negli anni ’60, quelli del miracolo economico. Ai suoi lettori, che in questi giorni hanno inondato la rete di messaggi addolorati e commossi, la Editorial Tusquets ha però qualcosa da proporre: un Episodio del futuro, una trama distopica che l’autrice ha scritto di getto durante il lockdown e che parla di una Spagna dove si è installata una dittatura ultracapitalista, un’immensa industria privata appartenente ai padroni delle grandi imprese, e dove c’è, tuttavia, chi resiste. Perché, diceva Almudena Grandes, “nei miei romanzi c’è sempre chi si oppone a una dittatura”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2021