venerdì 9 dicembre 2022

Da leggere: Maria José Ferrada


Maria José Ferrada



Uno stilita di periferia 

Per molti anni Ramón ha lavorato in una fabbrichetta dove lo stipendio arrivava in buona parte fuori busta e gli straordinari sembravano non finire mai. Adesso, però, è diventato il guardiano di un colossale cartellone della Coca Cola, abitato da una smisurata lattina rossa in mano a una gigantessa spensierata. L’impresa che lo ha assunto («mezzo contratto» e pagamento in voucher), ha disseminato centinaia di cartelli simili lungo le strade che dalle città dell’America latina conducono agli aeroporti – o ad altre città, o al nulla – e vuole che qualcuno li sorvegli, per impedire il furto dei costosi sistemi di illuminazione.

Un compito che Ramón accetta volentieri, non appena si accorge che sulla piattaforma della struttura metallica si può costruire una casupola in cui vivere, al riparo di uno slogan che, piazzato in vista delle vicine case popolari, appare quasi insultante: «Condividi la felicità». E la felicità per lui si identifica con il silenzio e la solitudine che insegue sin da bambino, e che ha sacrificato prima all’ansia della madre e poi all’amore per Paulina, vivace scaffalista che nel supermercato dispone shampoo e saponi in forma di arcobaleni. Non gli ci vuole molto per lasciare il suo modesto appartamento e traslocare, ed è con l’immagine di moderno stilita, votato alla contemplazione del cielo e di un’oscurità in cui le luci sbocciano ogni sera, che si apre La casa sul cartello (pp. 142, e. 15, traduzione di Marta Rota Núñez) romanzo di Maria José Ferrada appena uscito presso Edicola, piccola impresa editoriale che ha scelto di pubblicare soprattutto la ricca letteratura cilena di oggi.

Ferrada, nata nel 1977 a Temuco, si distingue per la sua versatilità (ha scritto una quarantina di libri per bambini, ma anche testi per lettori adulti, come questo) e per una scrittura misurata e concisa, venata di ironia e concentrata in capitoli brevi, che non cede all’ansia di dire tutto e si affida a immagini nitide e brillanti, ad atmosfere che si fanno via via più suggestive, all’evocazione di ambienti marginali esplorati senza paternalismo, dando conto di amarezze e ingiustizie quotidiane con una levità che non le attenua, ma le sottrae al registro di molti giovani autori latinoamericani, così uniformemente truculento da correre il rischio di trasformare la violenza in luogo comune.

Se nel primo romanzo di Ferrada – Kramp (Edicola 2018), definito «eccezionale» dal New York Times – la protagonista è una bambina che racconta con insolito acume il Cile post-dittatura, qui il narratore è Luìs, undici anni trascorsi ai confini di una città che non ha mai davvero accolto quanti sono arrivati fin lì da poverissime provincie, in cerca di lavoro o di semplice sopravvivenza, confinandoli a lungo in baracche provvisorie, impregnate dell’odore di fumo dei falò. L’odore della miseria più disperata, insomma, che la gente delle case popolari non riesce a dimenticare nemmeno adesso che se l’è lasciata alle spalle, anche perché nelle vicinanze si sono accampati i Senza Casa, i cui fuochi rinnovano, insieme all’ inaccettabile stravaganza di Ramón, esibita davanti agli occhi di tutti, la memoria di un passato irregolare e miserabile.

Luis, che insieme alla zia Paulina (madre putativa ben diversa da quella vera, isterica e manesca) si arrampica fino alla casetta di Ramón e ne è più che mai affascinato, con le sue rapide notazioni disegna una mappa della diffidenza e del rifiuto cresciuti sull’illusione di potersi reincarnare, un giorno, in consumatori rispettabili e felici; la piccola gente “perbene” delle palazzine è terrorizzata all’idea di perdere il poco che ha conquistato e appare pronta a rivoltarsi contro ogni forma di alterità, con una violenza giustificata dalle più assurde «voci che corrono».

Ferrada ritrae magistralmente il rapporto tra infanzia ed età adulta, la guerra tra povertà diverse che il capitalismo non si stanca di alimentare, e soprattutto sa ricreare con pochi tratti uno spazio fatto di esclusione, sfruttamento e precarietà che potrebbe appartenere a una qualsiasi metropoli contemporanea. La casa sul cartello si rivela così come un romanzo squisitamente politico, divertente e crudele insieme, che, grazie alla scelta della voce narrante (quella di un undicenne lucido, acuto e tollerante), si trasforma a poco a poco in una raffinata parabola dall’atmosfera vagamente onirica, fino a indicare a Ramón, Paulina e Luis, capaci di disobbedire e di sottrarsi alla tagliola del comune buon senso, una via di fuga, se non di salvezza.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2022

lunedì 28 novembre 2022

Da leggere: Elisa Victoria


Elisa Victoria



Una storia semplice 

Il 1992 è stato, per la Spagna, un anno memorabile che ha segnato il punto culminante della decade socialista, tra avvenimenti internazionali (le Olimpiadi di Barcellona e l’Expo di Siviglia, Madrid capitale europea della cultura) e i grandiosi investimenti destinati a sottolineare i cambiamenti sociali ed economici post-transizione. E poi, mentre il paese smaltiva una sorta di doposbornia da grandi eventi, il 1993 l’aveva travolta con la cronaca quasi ossessiva di un delitto destinato a lasciare lasciato un segno profondo nell’immaginario, ovvero lo stupro e l’uccisione di tre adolescenti, las niñas de Alcácer: una notizia coperta con spietato sensazionalismo dai giornali e dalle prime televisioni private.

Uno sfondo che andrà tenuto presente da chi affronta la lettura di Vocedivecchia (Blackie Edizioni, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 257, e. 19,90) di Elisa Victoria, nata nel 1985 a Siviglia, dov’è ambientato questo suo primo romanzo le cui vicende, pur non connotate da una data precisa, esibiscono riferimenti temporali inequivocabili. Dagli schermi televisivi si affacciano, infatti, l’ancora trionfante Felipe González, il già insidioso Aznar e i volti riprodotti all’infinito delle povere ragazze di Alcácer, insieme agli episodi di Baywatch o di Sailor Moon e a tutto un inconfondibile contorno di musica, film, divi, marche, prodotti, consumi, giocattoli oggi quasi dimenticati, come le bambole Chabel, controcanto spagnolo alle Barbie americane. Fuori, intanto, un calore soffocante svuota le strade, sottolineato dalla peggiore siccità del secolo: non ci sono dubbi, siamo nel pieno di un’estate sivigliana del 1993, che si è appena lasciata alle spalle l’euforia dell’Expo.

A raccontare è una bambina di nove anni che vive in un quartiere operaio di periferia e che, anche se porta orgogliosamente lo stesso nome di sua madre e di sua nonna, cioè Marina, viene soprannominata Vocedivecchia dai compagni di scuola, un po’ per la sua intonazione grave, un po’ per i suoi abiti fuori moda, cuciti in casa. Una ragazzina che non ricorda più la faccia di un padre assente da molto tempo, e che sta affrontando i mesi estivi nel modesto appartamento di una nonna scivolata con gioia in una vecchiaia un po’ anarchica e senza tabù, pronta a parlare con la nipote delle funzioni corporali, dei due mariti defunti o della passione per “Felipito” González, tra sigarette e parolacce. Se Marina viene avvolta, giorno dopo giorno, dalla rude dolcezza nonnesca e da un perenne odore di fritto, è per via della grave e misteriosa malattia della madre che, ricoverata in ospedale, comunica con la figlia solo per telefono: lunghe conversazioni fatte di niente, in cui lo spettro della morte possibile, probabile, temuta, si affaccia di continuo.

Una storia semplice, quella delle tre Marine e del loro matriarcato proletario, ateo e anticonformista, raccontata in prima persona da una voce che semplice non è, perché l’autrice ha scelto di travasare i pensieri e i sentimenti dell’infanzia in un linguaggio elaborato e maturo, un flusso di coscienza magistralmente costruito da Victoria, che regala a Marina lo strumento necessario per esprimere compiutamente osservazioni acute, esilaranti e profonde, giudizi caustici, riflessioni sulla violenza e il sesso (temi filtrati attraverso fumetti, film, desideri e sperimentazioni “proibite”), sui mutamenti del corpo, sul costante timore di essere fuori posto ovunque.


A questa voce che prescinde da qualsiasi verosimiglianza e in un certo senso “traduce” i pensieri e i sentimenti infantili, si accompagnano dialoghi che, invece, riproducono in modo quasi mimetico il modo di parlare di una bambina di nove anni e dei suoi coetanei, come se l’autrice volesse ricordarci quanto c’era di segreto e insondabile nei bambini che siamo stati, e come l’infanzia si adatti a dare di sé stessa l’immagine che gli adulti sembrano desiderare o esigere.


Il discorso interiore di Marina, così denso di domande, intessuto di punti di vista spiazzanti, legato a sensazioni fisiche vivide e intense, a tratti crudo ed esplicito, ci fa presente quanto poco sappiamo dell’infanzia, con le sue asprezze, le sue feste, i suoi stupori, le sue crudeltà. E davvero si può dire che Elisa Victoria riesca a demolire ogni compiacente stereotipo e abbia vinto, con questo romanzo d’esordio, una scommessa spesso perduta da chi mette al centro del proprio narrare un protagonista bambino, mentre, sospeso tra inquietudine, timore e desiderio, cerca di immaginare un futuro sconosciuto.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di novembre 2022

Da leggere: Angelica Gorodischer


Angelica Gorodischer



Storie di un Impero infinito 

Angelica Gorodischer, nata nel 1928, è morta otto mesi fa a Rosario, città dove è sempre vissuta insieme al marito Sujer (architetto di origine ucraina cui la scrittrice argentina ha “rubato” il cognome per firmare la propria vastissima opera) e dove ha lavorato come bibliotecaria, cresciuto tre figli e scritto i primi racconti senza avere, almeno all’inizio, “una stanza tutta per sé”, tanto da dover riporre ogni giorno sotto il letto la macchina da scrivere. Non ha fatto in tempo, dunque, a vedere l’edizione italiana del suo romanzo Kalpa Imperial, nella bella traduzione di Giulia Zavagna per Rina Edizioni (pp. 344, e. 18), corredata dall’approfondita prefazione di Loris Tassi. E sembra quasi incredibile che questo autentico classico moderno sia stato così a lungo ignorato dalla nostra editoria, nonostante il viatico autorevole di Ursula K. Le Guin che l’ha proposto (e con notevole successo) ai lettori di lingua inglese, traducendolo lei stessa e accompagnandolo con un giudizio entusiasta.

Di Gorodischer, finora, i lettori italiani potevano leggere solo un pugno di racconti noir (Come svoltare nella vita senza farsi ammazzare, Socrates 2008) e qualche novella inserita in antologie collettive: un’omissione imperdonabile, considerata l’ampiezza e l’importanza del percorso di un’autrice che, dopo aver esordito nel 1964 con un racconto poliziesco (premiato da una giuria di cui faceva parte Rodolfo Walsh), ha continuato a produrre per oltre cinquant’anni opere di grande originalità, rinnovandosi di continuo, attraversando generi diversi e mescolandoli.

Kalpa Imperial (il termine kalpa viene dal sanscrito e si riferisce a un ciclo cosmico infinitamente lungo) è considerato da molti il suo capolavoro, pubblicato in due volumi tra il 1983 e il 1984 e scritto durante la dittatura militare: un romanzo “a cornice”, composto da undici capitoli-racconto sul «più grande Impero mai esistito», caduto e risorto innumerevoli volte e abitato da una sterminata galleria di personaggi. Un testo caleidoscopico, che grazie all’accumulazione e all’accostamento di scene, dettagli, oggetti, visioni, paesaggi e architetture, fa pensare a un Arcimboldo letterario.

Le storie che emergono da lunghe frasi piene di svolte e incisi formano comunque un insieme coerente, il cui filo conduttore, oltre al succedersi delle dinastie, è la voce di narratori orali simili a quelli descritti da Elias Canetti in Le voci di Marrakech (Adelphi, 1983), il cui tono sembra sottolineare la natura mitica e l’incommensurabile antichità dell’Impero, della quale nessun documento scritto e nessun archivio può dare conto fino in fondo.

Ogni episodio potrebbe essere letto come una storia a sé, anche se l’autrice ha più volte suggerito di seguire l’ordine dei capitoli e di considerare il testo nella sua unità, per coglierne pienamente il senso e l’atmosfera. E ognuno, tranne l’ultimo, comincia con la formula “Il narratore disse”, che inaugura vicende sempre diverse, ricchissime di aneddoti, giudizi, ammonimenti, dicerie, umorismo nero, corpi come campi di battaglia, e disposte secondo una cronologia incerta e variabile che al tempo lineare sostituisce interruzioni e vuoti, scivolando avanti e indietro lungo i millenni.

Sotto la ricca e composita superficie di Kalpa Imperial – definito da Le Guin «ferocemente immaginativo e imprevedibile» – scorrono, come una sorta di fiume nascosto, riferimenti alla Storia argentina, dalla Conquista agli anni dell’ultima dittatura, cui l’autrice allude in modo talmente sottile che non per tutti sarà semplice riconoscere una memoria critica così “travestita”. Qualsiasi lettore, però, saprà cogliere la presenza di temi universali come la natura e l’esercizio del potere, il modo in cui vengono registrati e trasmessi gli eventi del passato e l’uso che se ne fa, la funzione sociale e politica della narrazione, il nascere e il tramontare delle culture, il rapporto tra popolo ed élites, tra libertà e dovere.

Gorodischer tesse con pazienza un sontuoso arazzo politico e filosofico e, evitando di formulare teorie o fornire spiegazioni («sono qui per raccontare, non per spiegare», diceva), crea un mondo volutamente incompleto in cui, come sottolinea la penultima storia, «non tutto è detto»: la possibilità di immaginare altre condizioni di vita consente infatti di sfuggire a un presente chiuso e meschino e suggerisce la necessità di sovvertirlo.

Non è facile definire il genere cui appartiene Kalpa Imperial, anche se spesso si attribuisce all’autrice il titolo di Gran Dama della fantascienza di lingua spagnola, alquanto improprio, dato che il romanzo (come altre opere di Gorodischer, a parte forse Trafalgar, sulle avventure di un viaggiatore intergalattico più simile a Gulliver che a un astronauta) non rispetta le convenzioni della science fiction e prescinde da tecnologia, mondi alieni, società future. E il testo non è così facilmente collocabile neppure nel fantasy (non prevede la magia, i poteri soprannaturali, la presenza di creature fatate), o in una tradizione rioplatense che va da Lugones a Borges e da Bioy Casares a Cortázar, in cui lo strano, il bizzarro e l’insolito si innestano sugli eventi quotidiani e, più che contribuire all’invenzione di nuovi mondi, mettono in dubbio la natura della realtà.

È vero che in esergo Gorodischer ringrazia Tolkien, Andersen e il Calvino di Le città invisibili, lasciandoci capire che intende inscriversi nel fantastico e che la sua immaginazione si nutre di miti, leggende, fiabe e utopie; bisognerebbe, tuttavia, resistere alla tentazione di imprigionare in un qualsiasi canone (non importa se “alto” o “basso”) un’autrice che con grande libertà e originalità mette in discussione ogni modello e fonda la sua pratica letteraria su una radicale ibridazione dei generi, mostrandosi capace di assorbire e metabolizzare influssi di ogni tipo, come, per esempio, quelli del neobarroco latinoamericano (la cifra di Gorodischer è l’iperbole, con lunghe enumerazioni, sovrabbondanza di dettagli e un erotismo senza censure) o dei “mondi secondari” alla Tolkien.

Nonostante i dettagli geografici, i paesaggi suggestivi e le descrizioni di città in perpetua trasformazione, simili a organismi viventi che si sviluppano, si espandono, mutano e decadono, è evidente che l’autrice rifiuta la minuziosa cartografia tipica degli universi fantasy e con essa la costruzione di identità nazionali ben definite, limitandosi alla costante distinzione tra un nord colonialista e oppressore e un sud magmatico e turbolento, la cui adesione a valori diversi da quelli imperiali può imprevedibilmente trionfare. Le è estranea, inoltre, la netta opposizione tra Bene e Male, che nei suoi racconti sono sempre pronti a rifluire l’uno nell’altro e a varcare il labile confine che li divide.

Più che con Tolkien e con i suoi emuli, Kalpa Imperial sembra avere qualcosa in comune con le complesse Storie di Nevèrÿon di Samuel R. Delany (tradotte da Roberta Rambelli nel 1978 per Armenia, e purtroppo mai riproposte), dense di riflessioni sul potere, sulla nascita del linguaggio, sulla storia della civiltà, sulle identità sessuali. E con il Delany di Nevèrÿon Gorodischer condivide senza dubbio l’ormai rarissimo dono di un sofisticato umorismo, che, insieme a una scrittura travolgente, fa di Kalpa Imperial una lettura irrinunciabile.

Una chiara intenzione utopica e antiegemonica, legata ai movimenti culturali e sociali degli anni ’60 e ’70, sembra poi collegare la narrativa dell’autrice, oltre che a Delany, all’Ursula Le Guin di La mano sinistra delle tenebre (Libra, 1971) o alla Joanna Russ di Female Man (Editrice Nord 1989), con le quali condivide l’interesse per il superamento della dicotomia maschile-femminile e un tenace femminismo che, sostengono alcune studiose, si manifesterebbe esplicitamente nella sua opera solo a partire dalla raccolta di racconti Mala noche y parir hembra (1983).

Un’attenta rilettura delle prime opere di Gorodischer, invece, ci mostra che le donne siano sempre state al centro della sua narrativa, in cui le identità di genere vengono spesso rappresentate come fluide e indefinite (nel suo primo romanzo Opus dos, del 1967, come in alcuni racconti immediatamente successivi, il sesso del personaggio protagonista e voce narrante non viene mai specificato). In Kalpa, poi, dai bassifondi dell’Impero emerge una potente figura femminile destinata a governare, superando per fama e saggezza tutti gli altri sovrani, mentre nell’ultimo racconto incontriamo una principessa en travesti in fuga dalla regale matrigna, come una sorta di Biancaneve che, però, sa difendersi da sola e non ha bisogno di protettori.

Due attenti studiosi dell’opera di Gorodischer come Michèle Soriano e Alexis Yannoupolos sostengono infine che, se l’Impero rimane simile a sé stesso e non si evolve in una società migliore, nonostante i continui rivolgimenti, il sollevarsi di popoli interi e il frequente avvento di sovrani riformatori, è perché l’autrice se ne serve come metafora di un patriarcato immutabile che tende a perpetuare all’infinito i rapporti di potere. E Kalpa Imperial, allora, oltre a raccontarci storie meravigliose ci sta dicendo che se l’ordine patriarcale non verrà messo profondamente in discussione, nessun cambiamento sarà davvero possibile, nessuna ingiustizia verrà davvero sanata.

 

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2022

giovedì 20 ottobre 2022

Da leggere: Javier Zamora

 


Javier Zamora




Minori non accompagnati

 

«Un giorno, farai un viaggio per venire da noi. Come un’avventura. Come Simba prima di tornare a casa». È questa la frase che, dalla California, i genitori ripetono per telefono a Javier Zamora, nove anni: la voce profonda appartiene al padre, emigrato quando lui era piccolissimo e del quale non ricorda nulla, quella più familiare e amata coincide con il volto della madre partita tempo dopo, un’assenza che né i nonni, né gli amici riescono a rendere meno ingombrante.


Se i genitori di Javier se ne sono andati, non è solo per l’estrema povertà del loro paese, El Salvador, ma anche per la guerra civile che, tra il 1980 e il 1992, ha causato devastazioni incalcolabili e ottantamila morti, e ha poi lasciato il posto al confronto altrettanto sanguinoso tra una polizia brutale e le maras, i gruppi criminali che taglieggiano la popolazione e impongono la propria legge. È da tutto questo che i Zamora sono fuggiti, per approdare come indocumentados in paese le cui politiche non sono estranee alla disperazione che costringe i salvadoregni a emigrare, ma dove possono comunque guadagnarsi da vivere, sia pure sotto la costante minaccia di essere deportati.


Adesso tocca a Javier raggiungerli, affidato, come migliaia di bambini centroamericani prima e dopo di lui, a un coyote: un viaggio cominciato nell’aprile del 1999, che dovrebbe durare pochi giorni ma si prolunga per quasi due mesi, perché il piccolo gruppo di migranti viene abbandonato dal suo “traghettatore” e deve affrontare un percorso lunghissimo e infinitamente rischioso, anche se meno di quanto lo sarebbe oggi, dopo che gli Stati Uniti hanno militarizzato i loro confini e spinto il Messico a imitarli.


Adolescente turbolento e ribelle, ma bravo studente e poeta di valore che si è guadagnato prima una borsa di studio per Berkeley e poi una carta verde per “meriti speciali”, Javier è riuscito a metabolizzare la sua storia solo a partire dal 2019, alla soglia dei trent’anni, spinto da un disagio profondo davanti alle immagini dei tanti bambini unaccompanied arrestati e chiusi in gabbia durante l’amministrazione Trump, o fulmineamente deportati grazie al Priority Juvenile Docket obamiano. E adesso il suo lungo racconto arriva in libreria, a brevissima distanza dall’edizione americana, il cui titolo originale (Solito, cioè “Da solo”) è diventato in italiano Se su questo deserto piovessero stelle. Una storia vera (pp. 448, E. 20, UTET): un libro che si aggiunge a un vasto corpus fatto di ricerche accademiche, documenti, reportages, storie sui e dei “minori non accompagnati” e qualche romanzo eccezionale, come Archivio dei bambini perduti della messicana Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera, 2019).


Come altri autori, scrivendo della traversata verso una “Gringolandia” molto diversa da quella idilliaca e opulenta che sognava, Zamora ci mette di fronte a qualcosa che riguarda da vicino anche il nostro paese: carovane di fuggitivi, negazione dei diritti di asilo, corpi ignorati, perduti, stipati nei centri di detenzione. Il testo, tuttavia, non si limita a offrire una testimonianza di prima mano su quel che significa essere un bambino in condizioni di assoluta vulnerabilità, sopravvissuto grazie alla famiglia transitoria e improvvisata composta dai casuali compagni di viaggio. Non sono soltanto immagini crude, paura, brutalità, armi puntate, fatica e sofferenza, quelle che arrivano al lettore attraverso una voce diretta e priva di retorica, semplice ma solo in apparenza ingenua, perché non mancano lampi di umorismo, l’incanto singolare del paesaggio e della vegetazione, il bagliore delle stelle nel cielo del deserto, lo stupore, le allegrie che nascono da scherzi condivisi, dal cibo caldo, da affetti e gentilezze inattesi. Ogni pagina ci ricorda che l’autore è un giovane poeta capace di trasferire in prosa i temi e le immagini dei suoi versi (la migrazione, la memoria, il trauma, lo sradicamento, l’identità, l’infanzia troncata dal viaggio), in costante dialogo con l’esperienza vissuta e oltrepassando con decisione il confine tra memoir e letteratura.


L’uso del code-switching – ovvero i frequenti cambi di registro idiomatico, che la traduttrice Francesca Pe’ ha saputo rispettare e restituire –, innesta nell’inglese i lemmi, le costruzioni e la punteggiatura dello spagnolo salvadoregno, il caliche, in parte derivato dalle lingue indigene: un bilinguismo che procede per accenni e non ostacola la lettura, ma vuole recuperare e onorare l’idioma dell’infanzia e allo stesso tempo sottolineare la nascita di un’identità personale e artistica transnazionale, intrisa di differenti influenze linguistiche e culturali, che apre infinite possibilità espressive e riscatta la voce in prima persona dell’infanzia migrante, riconoscendole i privilegi narrativi derivati da una grande e dolorosa avventura. Una voce degna di quello che Zamora definisce “un supereroe” della sopravvivenza, come sempre sono i bambini. E dopo aver letto il suo libro non è difficile dargli ragione.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2022

martedì 27 settembre 2022

Anniversari e addii: Alejandra Pizarnik

 


Alejandra Pizarnik



Anniversari e addii: Alejandra Pizarnik 

«Qual palombaro nel suo scafandro/o qual nevrotico nel suo tic,/mi rifugio in te, Alejandra/Pizarnik./O tu, agile balandra,/o letterario pic-nic,/con la tua aria da salamandra/modellata da Lalique! O Alejandra,/o mia Cassandra/chic!».

 

Citata dalla grande studiosa argentina Sylvia Molloy in un saggio su Pizarnik, cui era unita da un’amicizia nata nei loro anni parigini, la buffa poesiola è opera di Manuel Mujica Lainez che la dedicò ad Alejandra nel 1966, quando le assegnarono il Premio Nazionale di Poesia per il volume di versi Los trabajos y las noches. Critico raffinato e autore del monumentale romanzo Bomarzo ispirato a Pierfrancesco Orsini, nonché uomo di eccelsa eleganza, Mujica Lainez può sembrare l’antitesi di colei che, simile a un ragazzaccio incline al turpiloquio e sprofondato in maglioni sformati e logori giacconi da marinaio, si sforzava di apparire come l’ultima incarnazione dei poeti “maledetti”.

Che i due si apprezzassero a vicenda, però, lo testimoniano le lettere inserite nell’epistolario di Pizarnik curato da Cristina Piña e Ivonne Bordelois (Lumen 2017), ed è sempre Molloy ad affermare che l’esteta Mujica e la trasgressiva Alejandra avevano molto in comune: in quanto dediti «alla costruzione del corpo come oggetto culturale leggibile» (e quindi parte integrante della propria opera), erano entrambi dei dandy, dei poseurs, sempre che si utilizzi il termine «posa» come sinonimo di «performance dell’io», sia testuale che corporale.

La «Cassandra chic» evocata da Muijca Lainez sembra, inoltre, coincidere ben poco con la consueta immagine di Pizarnik, morta suicida il 25 settembre del 1972 nella Buenos Aires dov’era nata trentasei anni prima, e tutt’ora circondata da un’aura di follia, fragilità e sofferenza: un mito oscuro quanto riduttivo, che contribuisce a tramandare la figuretta di una tragica «bambina perduta» e insonne, alle prese con mostri, incubi, solitudini, disamori, messa ora in discussione, una volta per tutte, dalla biografia proposta nel cinquantesimo anniversario della morte (Alejandra Pizarnik. Biografia de un mito, Lumen, pp. 427, e. 18,67), da Cristina Piña e Patricia Venti, cui già si devono studi approfonditi su quella che ancora oggi è la più celebre e amata esponente della poesia argentina novecentesca.

Il libro fa seguito a una prima e relativamente scarna biografia di Pizarnik scritta trent’anni fa da Piña, che all’epoca aveva dovuto misurarsi con troppi silenzi, senza poter attingere alla consistente mole di materiali ora custoditi all’Università di Princeton; ampliato a partire da una impressionante documentazione – dalla versione integrale dei diari (apparsi a distanza di anni presso Lumen, in due versioni differenti e comunque incomplete, che hanno suscitato notevoli polemiche) a lettere finalmente recuperate, alle testimonianze di familiari e amici – il nuovo testo rivela una Pizarnik ben più sfaccettata e complessa e ce la mostra come un universo in espansione, che continua a riservare sorprese.

Piña e Venti fanno luce su molti aspetti della breve esistenza di Alejandra, nata in una famiglia ebrei russi in fuga da un’Europa dove i campi di sterminio avrebbero presto inghiottito i loro parenti, e approdati in un’Argentina tumultuosa e non del tutto aliena dall’antisemitismo, dove riuscirono a prosperare e a garantire alle figlie un’ottima istruzione. Bambina che la sorella Myriam ricorda come gioiosa e amatissima, Alejandra divenne un’adolescente difficile, scontenta del proprio aspetto e in conflitto perpetuo con i genitori, ai quali attribuirà una implacabile incomprensione che la nuova biografia, però, sembra smentire. Irrequieta, capricciosa, ingenua, esasperante, aveva tuttavia chiaro, sin da allora, che «voleva la gloria» ed era destinata «a una vita eccezionale», realizzata non nel matrimonio o nella maternità, come si aspettavano la famiglia e la società, ma interamente votata alla poesia e a un autentico, ininterrotto corpo a corpo con il linguaggio: una vita in cui scrivere significava essere, trovarsi, definirsi.

Dalle incertezze di un apprendistato trascorso a Buenos Aires tra il 1955 e il 1960, che la vede cambiare nome (da Flora, quello ricevuto alla nascita, a uno soltanto suo, Alejandra), abbandonare gli studi universitari, stringere una quantità di amicizie tra artisti e intellettuali in vista e pubblicare le prime raccolte di versi, Pizarnik procede a una sempre più consapevole e decisa costruzione di sé come poeta e come inconfondibile personaggio (l’importanza del suo lato «performativo e teatrale » non è sottolineata soltanto da Molloy, ma anche da altri studiosi e dalle due biografe), finché un soggiorno parigino di quattro anni – i più felici, segnati da strette relazioni con personaggi come Julio Cortázar e Octavio Paz – e libri ormai prossimi a un’essenziale perfezione le conferiscono, al ritorno in patria, un crescente prestigio.

È il rientro a Buenos Aires, però, a segnare l’inizio di un periodo sempre più inquieto, tra abuso di alcol e di farmaci, ricoveri in una clinica per malattie mentali, tentativi di suicidio e notti sfrenate, mentre la sua poesia si fa sempre più rarefatta e i diari (in piccola parte da lei stessa rivisti e pubblicati proprio in quegli anni) crescono e si dilatano, fin quasi a diventare una sorta di romanzo autobiografico, quello che aveva sempre voluto scrivere senza mai decidersi ad affrontare l’impresa. Ed è allora che Pizarnik prende a cimentarsi sempre più spesso con la prosa, in buona parte pubblicata postuma: racconti brevi e brevissimi, esercizi bizzarri come La bucanera de Pernambuco o La condesa sangrienta (novella travestita da recensione dell’omonimo romanzo di Valentine Penrose), testi in cui uno humor feroce si fonde con infiniti giochi di parole e con un assortimento di oscenità, e che fanno pensare ad autori come Copi, Osvaldo Lamborghini o Nestor Perlongher, anche se la parentela è sottile e resta indefinita, perché una delle caratteristiche principali di Pizarnik è la sua unicità in seno al panorama letterario sia nazionale che latinoamericano.

Se la si può in qualche modo collegare ai neoromantici e ai surrealisti argentini (secondo César Aira, che su di lei molto ha scritto, la sua opera nasce e si sviluppa alla luce del surrealismo), appare evidente che i riferimenti sono soprattutto europei (Mallarmé, Artaud e Lautréamont) e che un solco profondo la separa dalle correnti poetiche nazionali, in genere assai sensibili ai cambiamenti sociali e politici, dei quali, invece, nei suoi scritti non si trova traccia. Indifferente ai cinque colpi di stato avvenuti nel corso della sua vita, all’avvento del peronismo, alla repressione e alla censura, Pizarnik era impegnata in una continua e spietata introspezione, senza per questo prescindere dallo sguardo altrui: guardarsi di continuo, essere continuamente guardata per poter esistere, e dunque per poter scrivere, sempre attingendo ad altre scritture, in un minuzioso riutilizzo di citazioni che testimonia la qualità postmoderna della sua opera.

Quello che la nuova biografia mette in luce è soprattutto l’esistenza di tante e diverse Alejandra, incatenate l’una all’altra dalla nostalgia dell’infanzia, dall’insicurezza e insieme dalla consapevolezza del proprio valore, da un senso dell’umorismo che la rendeva straordinariamente vivace e divertente, dall’improvviso sprofondare nell’angoscia, da una esibita incapacità – o piuttosto dal rifiuto – di affrontare la vita quotidiana (a mantenerla furono, per tutta la vita, i genitori pur insultati e disprezzati), da una sessualità turbolenta e forse esasperata, dice Piña, dai farmaci prescritti da uno psicoanalista incauto, e da una fame d’amore che nessuno dei suoi molti amanti, uomini o donne, riusciva a soddisfare.

Poeta grandissima e pronta ad annullarsi nella propria opera, figuretta androgina di per sé eversiva e in anticipo sui tempi, incapace di invecchiare e perciò di vivere, Pizarnik ci appare inesauribile, contraddittoria, ammaliante, mai raccontata fino in fondo. Anche Piña e Venti, così attente e minuziose, davanti ad alcuni episodi dei suoi ultimi anni e a certi suoi «terribili e pornografici» scritti privati hanno deciso di mantenere il silenzio, perché a volte non si può né si deve sapere tutto. Oppure sì?

I lettori e i critici continueranno a chiederselo, compresi, forse, i suoi molti estimatori italiani, che per ora la conoscono solo attraverso le traduzioni di Claudio Cinti (La figlia dell’insonnia, Crocetti 2020) o di Roberta Buffi (Poesia completa, LietoColle 2018), e alla breve selezione di lettere a cura di Andrea Franzoni e Flavio Orecchini (L’altra voce, Giometti e Antonello, 2019).

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto il 25 settembre 2022

lunedì 12 settembre 2022

Da leggere: Diamela Eltit

 


Diamela Eltit




Errante, erratica 

Quando il Salone del Libro di Torino scelse il Cile come paese ospite per l’edizione del 2013, il Presidente della Repubblica cilena era Sebastián Piñera, ricchissimo imprenditore e fratello del Ministro del Lavoro di Pinochet, uno dei principali responsabili della full immersion nel neoliberismo teorizzata da Milton Friedman. Della delegazione ufficiale di scrittori, poeti e studiosi designati a rappresentare la letteratura nazionale avrebbe dovuto far parte anche Diamela Eltit, che tuttavia rifiutò l’invito formulato da un governo «percorso da segni, tracce, conseguenze della passata dittatura», aggiungendo: «Come abitante dell’inxilio (cioè l’esilio interiore) di quegli anni, ho un rapporto traumatico e irreversibile con quel periodo e non posso smettere di evocare l’adesione della destra cilena al momento storico più distruttivo del XX secolo».

Era in uscita, proprio in quei giorni, la prima traduzione italiana di un suo romanzo (Imposto alla carne, Atmosphere), che Eltit scelse di non presentare al Salone non solo per ragioni squisitamente politiche, ma anche perché convinta che i libri «viaggiano da soli», in attesa di «quell’incontro casuale che distingue la lettura». Il rifiuto, dunque, si estendeva anche a quella che il mercato editoriale ritiene ormai una necessità imprescindibile, ovvero l’esibizione illimitata del corpo dello scrittore, spinto a farsi personaggio e a presentarsi al pubblico «con il libro tra le braccia, per chiedere che lo leggano».

Alla luce di questi consapevoli “no”, tanto più interessante appare oggi la presenza di Eltit al Festival di Mantova e, pochi giorni dopo, all’Università di Milano e all’Istituto italo-latinoamericano di Roma: un breve tour che non ha caratteristiche promozionali, ma piuttosto quelle di una presa di contatto, di un “fare conoscenza” (in tutte le accezioni del termine) con una delle più importanti, rigorose e poliedriche intellettuali dell’America latina contemporanea, che negli ultimi anni ha ricevuto premi di grandi prestigio e ha visto crescere la già notevole mole di studi critici sulla sua opera. Ancora poco nota da noi, nonostante siano stati recentemente tradotti altri due dei suoi undici romanzi (Mano d’opera, proposto da Alessandro Polidoro nel 2020, e Mai e poi mai il fuoco, edito da gran vía nel 2022), l’autrice arriva in Italia insieme a una raccolta di saggi scelti e prefati da Laura Scarabelli, che ne ha curato la traduzione dopo essersi brillantemente cimentata con quella della narrativa eltiana: Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica, pubblicato da Mimesis (pp. 238, e. 20), un libro che pone domande, suggerisce punti di vista divergenti e insinua che, nonostante la letteratura non possa cambiare il mondo, sia più che mai giusto provarci, anche se per fallire gloriosamente nell’intento.

Nata a Santiago de Chile nel 1949 in una famiglia di origine palestinese, Eltit ha insegnato per lunghi anni in scuole e università, in Cile e all’estero, e viene spesso considerata un’autrice ermetica, sperimentale, di difficile comprensione; eppure, come fa notare lei stessa in un’intervista, «la narrativa che rompe la linearità e lavora sul linguaggio e la sua torsione» era una realtà da tempo consolidata – il riferimento a Joyce e al neobarocco latinoamericano, da Lezama Lima a Severo Sarduy, viene spontaneo –, quando apparve quasi clandestinamente Lumpérica (1983), il primo dei tre romanzi scritti durante la dittatura.

Da allora, Eltit ha continuato a fare della sua prosa fratturata (una prosa che si fa immagine, che esplora i margini, sonda gli interstizi del linguaggio, spinge il lettore a decifrare e ricomporre il testo) uno spazio di resistenza e uno strumento di rivolta contro l’ordine dominante, si tratti della dittatura o del neoliberismo puro e duro che ha reso il Cile uno dei paesi latinoamericani in cui le disuguaglianze sono più aspre e tenaci, per poi allargare il discorso a una realtà non solo nazionale o latinoamericana, che ci coinvolge tutti. Concepita, dice Scarabelli, «come un esercizio permanente di sincronizzazione con i principali accadimenti che contrassegnano la contemporaneità̀, una corrispondenza che non vuole catturare le “esigenze del tempo” ma le sue ombre», quella di Eltit è un’opera in cui l’opzione estetica non prescinde mai da quella etica e politica, lontanissima dalla «letteratura selfie» (la definizione è sua) favorita da una cultura neoliberale che, fatte le debite eccezioni, raramente arriva a sfiorare e indagare l’altro.

I saggi, brillantissimi e limpidi, mostrano una evidente contiguità con i romanzi e utilizzano in altro modo i medesimi materiali: il trauma della dittatura, il potere e il controllo, l’alleanza tra Stato e mercato, la memoria e il suo uso, le sperequazioni sociali ed economiche, le questioni di genere, la riduzione del cittadino a consumatore, la maternità e le relazioni filiali, la relazione tra arte e politica. Il tutto connotato dalla fondamentale presenza del corpo, oggetto di dominazione e colonizzazione, strategicamente modellato dall’omologazione tra biologia e cultura, tradizionalmente relegato alla prigione della dicotomia maschile-femminile. Le quattro sezioni in cui è diviso il volume di saggi (Spettri della dittatura; L’archivio e il testimone; Corpo, politica e scrittura; Mercato e potere) sono attraversate da una lunga teoria di corpi: da quelli vigili e inesorabili dei militari golpisti, ai cadaveri torturati degli oppositori, ai lavoratori inchiodati alla precarietà e asserviti «da un modo selvaggio di rinegoziare il capitale», e infine alle donne, la cui corporeità resta un territorio ultrasorvegliato, fonte di lavoro sottopagato e cura non remunerata, investimento redditizio per l’industria cosmetica, riproduttiva e dell’intrattenimento (e al momento, va detto, per quella editoriale).

La centralità di questo corpo-segno rimanda (anche) all’attività di performacera in seno al CADA, il Colectivo Acciones de Arte fondato da Eltit nel 1979 insieme al poeta Raúl Zurita, agli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo e al sociologo Fernando Balcells, in un Cile culturalmente desertificato dalla censura e dell’esilio: una minuscola comunità autoriale che interveniva a proprio rischio nello spazio pubblico, documentando ogni cosa con video e foto. E, nei saggi come nei romanzi e nelle “azioni” del Collettivo, l’attenzione per il corpo si accompagna a quella per tutto ciò che esce da una normalità imposta e, per il solo fatto di esistere, si oppone.

Un altro elemento di interesse offerto al lettore di Errante, Erratica sta negli scritti in cui l’autrice dispiega la propria concezione della letteratura, le considerazioni sulla progressiva «estinzione del libro letterario» che a suo parere ha connotato la seconda metà del ventesimo secolo e insieme la rivendicazione del perpetuarsi, tra le pieghe del mercato, di sacche di resistenza che, come i corpi dissidenti, si rivelano irriducibili, nonostante tutto sia «programmato per livellare ogni forma di differenza». Né bisogna dimenticare che, oggi, il libro di Eltit può anche rappresentare un peculiare punto di partenza per la riflessione sul recentissimo no alla nuova costituzione, in un Cile dove, nonostante tutto, Pinochet «è una macchina che non si spegne, una macchina di distruzione e di abuso che si chiama Pinochet, in una delle sue identità̀ possibili», come scriveva l’autrice nel 2008. «Siamo sopravvissuti a uno dei tanti Pinochet ma ne esistono degli altri e degli altri ancora, all’infinito. Per questo non riposeremo in pace. Mai».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2022

venerdì 2 settembre 2022

Da leggere: José Esteban Echeverría

 


José Esteban Echeverría




La vertigine della barbarie 

Nonostante in passato non siano mancate alcune traduzioni italiane, sono in pochi a conoscere un’opera capitale della letteratura argentina, analizzata con estrema attenzione sia dalla critica novecentesca che da quella più recente: la novella El matadero di José Esteban Echeverría, scritta fra il 1838 e il 1839, alla vigilia dell’esilio cui l’autore, seguace del Partito Unitario, fu costretto in quanto oppositore di Juan Manuel de Rosas, capo dei Federali e dittatore di un’Argentina ancora in formazione, travagliata da gravi contrasti interni. Un libro da scoprire, appena riproposto da Elliot (Il mattatoio, pp. 48, e. 6) nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto, autore anche della prefazione che inquadra il contesto storico e sociale del racconto e informa sulla vita breve e turbolenta del suo autore, morto a Montevideo nel 1851, a quarantacinque anni.

Considerato uno dei fondamenti della moderna narrativa argentina, come tutti i classici anche Il mattatoio offre risposte sempre nuove a sempre nuove domande, e secondo Martin Kohan continua a essere non solo letto, ma anche riscritto di continuo, come se la letteratura nazionale “o buona parte di essa, fosse solo una serie di variazioni sul testo di Echeverría”, a partire da La festa del mostro (firmato nel 1955 da Borges e Bioy Casares con lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq), o dal crudelissimo Il bambino proletario di Osvaldo Lamborghini, che ne dilata all’estremo l’allegorica crudezza.

Il racconto di Echeverría, dice Ricardo Piglia, “è una storia della violenza argentina attraverso la finzione, la ricostruzione di una trama dove si possono decifrare o immaginare le tracce che lasciano nella letteratura i rapporti di potere, le forme della violenza”, qui evidenti nello scontro tra i colti e liberali Unitari e l’autoritario oscurantismo del governo Federale e della Chiesa sua complice e alleata, ma visibili soprattutto nel selvaggio ritratto di una plebe sedotta dal populismo ipocrita di Rosas: due mondi inconciliabili, espressione del contrasto che qualche anno dopo verrà teorizzato da Domingo Faustino Sarmiento in un altro testo fondativo (Facundo. Civiltà o barbarie), e che, affrontato in modi diversi, affiorerà a lungo nella cultura e nella politica argentine.

La trama – racchiusa in un unico giorno di Quaresima e in solo ambiente, il mattatoio, assurto a simbolo dell’intera nazione – è apparentemente semplice e si affida tanto al sarcasmo sferzante del narratore, quanto alle descrizioni del mattatoio, sordido avamposto rurale alle soglie di Buenos Aires, tra il fango e le pozze di sangue, i corpi squartati dei manzi che Rosas ha offerto al popolo stremato da carestia e alluvioni, la brutalità dei macellai, i pezzi di carne contesi da una turba umana e animale (cani, topi, gabbiani, vecchie negre che nascondono tra i seni il grasso rubato o sbrogliano gomitoli di budella). Un bambino viene casualmente decapitato da un lazo, ma la sua morte è archiviata senza emozioni; un fierissimo toro tenta la fuga e viene inesorabilmente abbattuto. E un giovane Unitario transita nei pressi del mattatoio ed è subito catturato dai macellai, fanatici rosisti, decisi a infliggergli una tortura che è poi uno stupro – la letteratura argentina ha inizio con una violazione, scrive in proposito David Viñas –, al quale il ragazzo si sottrae con una morte improvvisa, quasi un suicidio provocato dal furore, emettendo un fiume di sangue come il toro appena ucciso (il parallelo tra uomini e animali è continuo, a sottolineare la reciproca disumanizzazione degli avversari).

Si è molto discusso sul perché l’autore non volle pubblicare un testo che ci appare perfetto, di rara intensità narrativa e ricco di immagini così potenti da aver ispirato numerosi artisti, per esempio Carlos Alonso, autore delle magnifiche illustrazioni di un’edizione del 1966, o Enrique Breccia, che nel 1984 ha realizzato per la rivista Fierro uno splendido adattamento a fumetti, pubblicato in Italia dalle Edizioni 001. Il mattatoio emerse infatti dalle carte di Echeverría solo a trent’anni dalla sua morte, grazie all’amico Juan María Gutierrez, come lui membro della Generazione del ’37, i giovani letterati illuministi che tentarono di delineare un progetto di nazione (toccò a Echeverría scriverne nel 1848 il manifesto, noto come Dogma Socialista). Secondo un’ipotesi consolidata fu proprio lui, poeta cui si deve l’introduzione in Argentina del romanticismo europeo, a “nascondere” l’opera, consapevole di quanto fosse estranea all’estetica del tempo e alla volontà di creare un immaginario radicato nella realtà americana (il racconto inizia con un ironico rifiuto della letteratura coloniale) e utile a esaltarne gli aspetti più nobili e la possibilità di un luminoso futuro.

Il mattatoio, invece, rimanda a zone marginali e oscure, mette in scena con involontaria ma palese fascinazione la barbarie di un’alterità vertiginosa, si immerge senza remore in una violenza che può sfociare solo nella morte, e restituisce infine un’oralità rozza e vigorosa, una pluralità di voci fitta di localismi, assoluta novità stilistica che lo sconcertato Gutierrez attribuisce alla “fretta” dell’autore. In poche pagine di una modernità che non manca di sorprendere, Echeverría ricostruisce così l’immagine di un paese intero e, come sottolinea Piglia, dimostra che “la letteratura ha sempre un segno utopico e annuncia il futuro”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022

Storie: L’Ebro, storie vere che sembrano leggenda

 




L’Ebro, storie vere che sembrano leggenda 

Due colossali pinnacoli d’acciaio poggiano sull’unico pilastro di un ponte ormai distrutto, che ancora emerge al centro del fiume. In cima al più alto, la figura bronzea di un soldato sostiene una stella, mentre il più basso è coronato da un’aquila in volo, i cui artigli hanno a lungo sorretto un emblema franchista eliminato nel 1986, insieme alle iscrizioni inneggianti al Caudillo. E dal 2008 è sparita anche la targa che ricordava alla cittadina catalana di Tortosa l’inaugurazione del monumento, onorata nel 1964 dalla presenza del Generalissimo.

Una volta asportati i più evidenti simboli della dittatura, e sorvolando su un’origine e un’estetica marcatamente fasciste, chi legga la superstite scritta sulla base (“Ai combattenti che trovarono gloria nella Battaglia dell’Ebro”) potrebbe forse convincersi che si tratti di un omaggio ai caduti di entrambe le parti. Non sono in pochi, tuttavia, a nutrire la speranza che la collera dell’Ebro – l’antico e bellicoso Hiberus, noto per la violenza delle sue piene – prima o poi faccia giustizia del mostro di metallo collocato, a gloria del regime, nel cuore d’acqua di una città semidistrutta dalle bombe di Franco.

L’Ebro, che attraversa la Spagna da nord a sud per quasi mille chilometri, nel corso dei secoli ha assistito (e in certo senso partecipato) alle guerre puniche e a quelle fra Pompeo e Cesare, che lo cita più volte nel De Bello Civili, ai saccheggi dei vichinghi che lo risalirono nel IX secolo, alla cacciata dei “mori” per mano dell’aragonese Alfonso El Batallador, alla pax dei Templari, alle guerre napoleoniche e carliste, ed è stato di volta in volta confine naturale, ostacolo o via di comunicazione, fonte di benessere o di rovina. Se ancora oggi è circondato da un’aura mitica, però, lo si deve alla battaglia combattuta nel 1938 tra l’esercito repubblicano, che lo aveva attraversato in una notte di fine luglio (El Ejército del Ebro/una noche el río pasó, ripete la più famosa canzone della guerra civile), e i franchisti già vicini alla vittoria definitiva, ma bloccati lungo il fiume per quattro lunghi mesi da un avversario male armato e quasi privo di risorse, che sperava nell’aiuto di una corrente tumultuosa e infida.

Per conoscere la Storia e le storie di quella battaglia si può attingere a una considerevole quantità di studi che, a ottantatré anni di distanza, continuano ad arricchirsi grazie a nuove riflessioni e scoperte, cui si aggiungono la ricchissima fioritura di memorie dei sopravvissuti o le biografie di quanti hanno perso la vita lungo le rive dell’ Ebro: gli uomini chiamati a difendere la Repubblica sin dal 1936, i ragazzini della Quinta del Biberón (così battezzata dall’anarchica Federica Montseny, che non poté trattenersi dall’esclamare: «Diciassette anni? Ma se ancora hanno bisogno del biberon!»), le reclute quasi anziane della Quinta del Saco. E poi i volontari delle Brigate Internazionali, migliaia di uomini e donne provenienti da più di cinquanta paesi che, scrive Ignacio Echeverría nella prefazione a Sois Historia, Sois Leyenda, un recente libretto del giornalista Miguel De Luca (Contexto, 2022), «rischiarono la vita in cambio di niente, e lo fecero per un popolo composto in buona parte da contadini e operai ai quali nulla li legava. Si dirà che questo è un modo assai romantico di esporre la cosa, e in effetti è così. Queste pagine sono piene di romanticismo, perché in definitiva disegnano una leggenda. Una leggenda romantica».

Dall’Ebro e dall’ultimo tratto del suo corso impetuoso, tra Aragona e Catalogna, di storie vere che sembrano leggenda ne sono germogliate e sbocciate un’infinità, come quelle raccolte in Ebro 1938. No pasarán. I garibaldini caduti nella battaglia dell’Ebro, edito nel 2011 dall’Aicvas (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna), con un saggio introduttivo di Marco Puppini e un testo scritto nel 1939 da Alessandro Vaia della Brigata Garibaldi. Volontari diversi dagli altri, gli italiani, perché come i compagni tedeschi combatterono una propria guerra civile all’interno di quella spagnola: dall’altra parte, infatti, c’erano anche le truppe di Hitler e Mussolini, compresi gli aviatori che intorno al fiume bombardarono senza sosta postazioni repubblicane, paesi e imbarcazioni.

Autentica è anche la storia di Manuel Mena, zio materno di Javier Cercas: un volontario franchista di diciannove anni, morto sull’Ebro e diventato così un eroe per la famiglia, ma non per il nipote, che in Il signore delle ombre (Guanda, 2017) indaga su di lui e si interroga su di sé e sulla Spagna intera.
Anche Arturo Pérez Reverte, ex corrispondente di guerra da anni riconvertito in scrittore superventas, ha aggiunto un romanzo fluviale (l’aggettivo è d’obbligo) alla già imponente mole di opere letterarie sulla Battaglia dell’Ebro: Línea de fuego (Alfaguara, 2020), settecento pagine stroncate su El País da Jordi Gracia, che sottolinea come il testo sappia di equidistanza, più che di equanimità, e riduca a quasi niente «i motivi legittimi che giustificano quella guerra. Perché è vero, la guerra è un orrore, ma è anche “la lotta del bene contro il male”, almeno a partire dal momento in cui Franco organizza un colpo di stato contro la Repubblica».


Curiosamente, il romanzo di Pérez Reverte si svolge tra Mequinensa e Fayón, nel medesimo scenario che fa da sfondo all’opera di un autore poco noto in Italia, Jesús Moncada, nato nel 1941 proprio a Mequinensa e scomparso nel 2005. Teatro di combattimenti asprissimi, i due paesi facevano parte della Franja de Aragón, la striscia di territorio aragonese cui fa da confine meridionale un Ebro ingrossato dalla confluenza con il Segre, che secondo i repubblicani avrebbe dovuto rappresentare un ulteriore ostacolo alla conquista della Catalogna da parte dei fascisti.


Nella Franja si parla catalano, idioma che il franchismo aveva espulso dalle scuole e che per Moncada, come per i suoi conterranei cresciuti durante la dittatura, era la lingua in cui pensava e parlava, ma non quella in cui scriveva, finché Pere Calders (grande scrittore e umorista per anni esiliato in Messico) lo incoraggiò a servirsene. Ed è in un catalano limpidissimo che Moncada ha fatto dell’Ebro e di Mequinensa i veri protagonisti dei suoi tre romanzi e di altrettante antologie di racconti, e in particolare di Camì de Sirga (Il testamento dei fiumi, gran vía, 2014): un libro che non è azzardato definire straordinario nella forma come nel contenuto, e che fonde un irresistibile umorismo con la poesia, l’elegia con la memoria, l’amarezza con l’ironia, indugiando a ogni pagina sulla luce che gioca con l’acqua, sulle voci e i colori del fiume, sul modo in cui riflette e condiziona pensieri, azioni e sentimenti umani.


Abitato da centinaia di personaggi e composto da altrettante microstorie che confluiscono in un’unica e polifonica vicenda, il romanzo ha inizio nel 1971, con un fragore simile a quello dei bombardamenti e con il suono lacerante della stessa sirena che li annunciava in tempo di guerra, ma che ora accompagna la demolizione della “vecchia” Mequinensa, sacrificata alla costruzione della diga di Ribarroja e sommersa insieme alla vicina Fayón, che regala all’Ebro un altro monumento emergente dalle acque, un’impavida torre campanaria.


Un romanzo sul dopoguerra, quindi? Non proprio, perché in un continuo andare e venire tra presente e passato, Moncada racconta e trasfigura un secolo e mezzo di storia del suo paese di minatori e naviganti, isola operaia in un mondo rurale, e lo fa attraverso i ricordi individuali (gli amori, i tradimenti, le burle) e le inarrestabili fabulazioni collettive (le lotte dei minatori, le avventure dei barcaioli, le guerre antiche e nuove, la brutale e ridicola stupidità del regime, la costante e ineludibile eco dell’ultima battaglia repubblicana, dei campi di concentramento, dell’esilio e del maquis), il tutto accompagnato dal fluire della corrente, dal via vai dei llauts – le imbarcazioni tradizionali, cariche di carbone all’andata e di riso al ritorno –, dai passi cadenzati lungo le alzaie dove uomini e animali trascinano gli scafi per mezzo della sirga, la grossa corda da traino. Un mondo perduto, che la diga ha cancellato e al quale Moncada ridà vita.


È fin troppo facile vedere nella Mequinensa di Moncada, inghiottita in nome del “progresso” dall’acqua che per secoli le è passata accanto (a volte minacciandola, ma consentendole sempre di darle del tu), una metafora della perduta libertà e dello spirito repubblicano, perché lo sfondo sociale e politico del romanzo è inequivocabile e la memoria del paese si muove in parallelo a quella di una nazione intera. Ma Moncada non si riteneva uno storico né nutriva intenzioni didattiche o ideologiche: era prima di ogni altra cosa un narratore e voleva soprattutto raccontare storie, con lo stesso ritmo ipnotico e il medesimo procedere sinuoso dell’Ebro in cui nuotava da bambino.

 
 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022

venerdì 15 luglio 2022

Da leggere: Roberto Arlt

 


Roberto Arlt



Lo scrittore nel bosco di mattoni 

Scoperto tardivamente dalla nostra editoria, Roberto Arlt è un autore il cui nome è diventato familiare ai lettori italiani in anni recenti, quando alle traduzioni dei suoi romanzi più importanti (Il giocattolo rabbioso, I sette pazzi, I lanciafiamme), già in circolazione dagli anni ’70, si sono aggiunte quelle dei racconti, di un quarto e ultimo romanzo a lungo trascurato (L’amore stregone), di parte delle celebri Acqueforti apparse soprattutto sul quotidiano El Mundo, e perfino di alcune brevi pièce teatrali. Un ampio arco di titoli, dunque, offerti a un pubblico che si suppone al tempo stesso esigente, curioso e non ignaro dell’importanza di uno scrittore definito da César Aira «il più grande romanziere argentino».

Nonostante il successo che l’aveva accompagnato in vita, dopo la morte avvenuta a soli quarantadue anni, su Arlt calò tuttavia un quasi assoluto silenzio, finché a partire dalla metà degli anni Cinquanta un’agguerrita pattuglia di studiosi prese a rileggerlo in chiavi nuove e diverse, conferendogli una posizione centrale che nessuno mette più in discussione. anche se Ricardo Piglia (il suo esegeta più attento ed entusiasta) afferma in Critica e Finzione che Arlt mantiene ancora «il sigillo dell’illegittimità» dovuto al suo rapporto conflittuale con la cultura dominante e alla provenienza da un limbo decentrato e marginale.

Tra coloro che hanno contribuito a riportare in primo piano un autore così radicale, dando il via a una valanga di studi e analisi critiche, c’è indubbiamente Sylvia Saitta, ordinaria di Letteratura all’Università di Buenos Aires, che non solo ha curato diverse edizioni degli inediti di Arlt e ha scritto diversi saggi su di lui, ma è anche autrice della sua più importante biografia, finalmente disponibile in Italia (sia pure a più di vent’anni dalla prima edizione argentina) grazie ai traduttori Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi che l’hanno proposta a Miraggi Edizioni.

Arlt. Lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia (pp. 262, e. 18) è un testo documentatissimo e avvincente, nel cui prologo Saitta dichiara che il testimone meno affidabile, per il biografo, è stato proprio il biografato, incline a mentire e a fornire su di sé dati erronei e contraddittori, al fine di costruirsi una figura pubblica da ribelle misconosciuto e messo al bando dai suoi pari e dalla critica. Un’immagine, nota Saitta, «corretta e smitizzata dalla sua forte visibilità nei giornali e nelle riviste dell’epoca e dal pronto riconoscimento di altri scrittori», nonostante la prolungata ostilità dell’influentissimo gruppo riunito intorno alla rivista Sur e la condiscendenza che traspare dall’omaggio di alcuni colleghi illustri.

Proveniente da una classe sociale di scarse risorse economiche, autodidatta nutrito di letture eterogenee (da Ponson du Terrail agli almanacchi e alle dispense scientifiche, fino ai grandi scrittori europei), con le sue modeste menzogne Arlt sembrava sottolineare il difficile accesso alla letteratura da parte di chi non poteva vantare né la preparazione culturale né la solida tradizione familiare delle élites, e al loro posto esibiva un solido orgoglio proletario.

Nonostante la parziale reinvenzione di sé, sappiamo comunque con certezza che era figlio di immigrati (il capofamiglia Karl, violento e autoritario, veniva da Poznan, e la madre Ekatherine Ibstraibitzer da Trieste), che la difficile situazione della famiglia lo aveva costretto ad abbandonare precocemente la scuola e a guadagnarsi la vita sin dall’adolescenza, per poi iniziare una carriera da giornalista che gli garantì una considerevole notorietà grazie alle leggendarie Acqueforti, brevi cronache in cui affrontava e commentava vita e costumi di Buenos Aires (ma anche le ingiustizie, la corruzione e i vizi della politica), apprezzatissime da quel comune lettore cui apertamente si rivolgevano.

Saitta espone in dettaglio queste e altre vicende: i viaggi in qualità di inviato (immortalati in altre Acqueforti) tanto in America latina che in Spagna e in Nordafrica; l’infelice matrimonio con la figlia di danarosi bottegai italiani, Carmen Antinucci («Lei e i suoi genitori non hanno mai saputo parlare se non di soldi, sempre di soldi. Quella donna non sa cosa siano i sentimenti. Ha un cuore di pietra…», scrive Arlt alla sorella); le seconde e turbolente nozze con la redattrice editoriale Elizabeth Shine, donna indipendente ed emancipata; la fallimentare attività di inventore dilettante («Non sono uno scrittore che inventa, sono un inventore che scrive»), attribuita anche ai suoi personaggi (l’Erdosain di I sette pazzi o il Silvio Astier di Il giocattolo rabbioso), decisi come il loro creatore a ideare e fabbricare qualcosa che li renderà ricchi una volta per tutte.

Facendo ricorso a fonti di prima mano, oltre che a un’attenta ricerca d’archivio, Saitta ha il merito di inquadrare il dato biografico in un grande affresco della società argentina del tempo e delle sue tensioni culturali e politiche, restituendoci «una figura nuova di intellettuale, prodotto della massificazione e della commercializzazione della stampa e della letteratura» favorite da nuove conquiste tecniche, che non ignora le sollecitazioni del mercato ma sa anche governarle, in quanto partecipe e interprete del processo di modernizzazione in corso.

Arlt, scrittore eminentemente urbano che saprà allargare i suoi orizzonti al resto del mondo, nei romanzi e nelle cronache dà conto di una babelica metropoli invasa da una nuova popolazione di immigrati, con una nuova estetica e un nuovo immaginario. E, ovviamente, nuovi conflitti ideologici e di classe, cui lo scrittore fu spasmodicamente attento, tanto da collaborare a due riviste legate al Partito Comunista e a partecipare alla nascita della Unión de Escritores Proletarios, i cui obiettivi erano la difesa dell’Unione Sovietica e la lotta contro il fascismo.

Una militanza entusiasta quanto breve, che indusse Raúl Larra, comunista e autore nel 1950 della prima biografia arltiana, ad affermare «Arlt è dei nostri!», senza coglierne il carattere rivoltoso e anarchico. Saitta, che ne è ben consapevole, disegna invece con chiarezza l’ondivago percorso politico di Arlt, animato da un’indubbia coscienza di classe e sempre dalla parte degli sfruttati, ma insofferente alle direttive di partito e nemico del realismo socialista.

Stabilendo un continuo e fitto dialogo tra una vita breve e tumultuosa e un’opera multiforme (il ciclo dei romanzi, inaugurato nel 1926 e concluso nel 1932, i racconti, i copioni legati al Teatro del Pueblo fondato da Leónidas Barletta e infine l’enorme produzione giornalistica, sempre connotata da indubbia qualità letteraria), la biografa mette in luce la straordinaria novità dei temi, dello stile e della lingua di Arlt, irregolare e composita, con un fraseggio definito da Piglia «ibrido e in ebollizione», che da più parti gli guadagnò l’accusa di scrivere male (si vedano in proposito le condiscendenti osservazioni di Cortázar nel prologo a I sette pazzi), là dove si opponeva frontalmente e per scelta «alla norma piccolo borghese dell’ipercorrezione che serviva a definire lo stile medio», annunciando il linguaggio di avanguardie future. E proprio come «uno storico del futuro» (sempre in parole di Piglia) ci appare oggi Arlt, le cui opere e la cui figura sono più che mai capaci di parlare del presente, con indiscutibile e visionaria potenza.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2022