venerdì 15 luglio 2022

Da leggere: Roberto Arlt

 


Roberto Arlt



Lo scrittore nel bosco di mattoni 

Scoperto tardivamente dalla nostra editoria, Roberto Arlt è un autore il cui nome è diventato familiare ai lettori italiani in anni recenti, quando alle traduzioni dei suoi romanzi più importanti (Il giocattolo rabbioso, I sette pazzi, I lanciafiamme), già in circolazione dagli anni ’70, si sono aggiunte quelle dei racconti, di un quarto e ultimo romanzo a lungo trascurato (L’amore stregone), di parte delle celebri Acqueforti apparse soprattutto sul quotidiano El Mundo, e perfino di alcune brevi pièce teatrali. Un ampio arco di titoli, dunque, offerti a un pubblico che si suppone al tempo stesso esigente, curioso e non ignaro dell’importanza di uno scrittore definito da César Aira «il più grande romanziere argentino».

Nonostante il successo che l’aveva accompagnato in vita, dopo la morte avvenuta a soli quarantadue anni, su Arlt calò tuttavia un quasi assoluto silenzio, finché a partire dalla metà degli anni Cinquanta un’agguerrita pattuglia di studiosi prese a rileggerlo in chiavi nuove e diverse, conferendogli una posizione centrale che nessuno mette più in discussione. anche se Ricardo Piglia (il suo esegeta più attento ed entusiasta) afferma in Critica e Finzione che Arlt mantiene ancora «il sigillo dell’illegittimità» dovuto al suo rapporto conflittuale con la cultura dominante e alla provenienza da un limbo decentrato e marginale.

Tra coloro che hanno contribuito a riportare in primo piano un autore così radicale, dando il via a una valanga di studi e analisi critiche, c’è indubbiamente Sylvia Saitta, ordinaria di Letteratura all’Università di Buenos Aires, che non solo ha curato diverse edizioni degli inediti di Arlt e ha scritto diversi saggi su di lui, ma è anche autrice della sua più importante biografia, finalmente disponibile in Italia (sia pure a più di vent’anni dalla prima edizione argentina) grazie ai traduttori Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi che l’hanno proposta a Miraggi Edizioni.

Arlt. Lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia (pp. 262, e. 18) è un testo documentatissimo e avvincente, nel cui prologo Saitta dichiara che il testimone meno affidabile, per il biografo, è stato proprio il biografato, incline a mentire e a fornire su di sé dati erronei e contraddittori, al fine di costruirsi una figura pubblica da ribelle misconosciuto e messo al bando dai suoi pari e dalla critica. Un’immagine, nota Saitta, «corretta e smitizzata dalla sua forte visibilità nei giornali e nelle riviste dell’epoca e dal pronto riconoscimento di altri scrittori», nonostante la prolungata ostilità dell’influentissimo gruppo riunito intorno alla rivista Sur e la condiscendenza che traspare dall’omaggio di alcuni colleghi illustri.

Proveniente da una classe sociale di scarse risorse economiche, autodidatta nutrito di letture eterogenee (da Ponson du Terrail agli almanacchi e alle dispense scientifiche, fino ai grandi scrittori europei), con le sue modeste menzogne Arlt sembrava sottolineare il difficile accesso alla letteratura da parte di chi non poteva vantare né la preparazione culturale né la solida tradizione familiare delle élites, e al loro posto esibiva un solido orgoglio proletario.

Nonostante la parziale reinvenzione di sé, sappiamo comunque con certezza che era figlio di immigrati (il capofamiglia Karl, violento e autoritario, veniva da Poznan, e la madre Ekatherine Ibstraibitzer da Trieste), che la difficile situazione della famiglia lo aveva costretto ad abbandonare precocemente la scuola e a guadagnarsi la vita sin dall’adolescenza, per poi iniziare una carriera da giornalista che gli garantì una considerevole notorietà grazie alle leggendarie Acqueforti, brevi cronache in cui affrontava e commentava vita e costumi di Buenos Aires (ma anche le ingiustizie, la corruzione e i vizi della politica), apprezzatissime da quel comune lettore cui apertamente si rivolgevano.

Saitta espone in dettaglio queste e altre vicende: i viaggi in qualità di inviato (immortalati in altre Acqueforti) tanto in America latina che in Spagna e in Nordafrica; l’infelice matrimonio con la figlia di danarosi bottegai italiani, Carmen Antinucci («Lei e i suoi genitori non hanno mai saputo parlare se non di soldi, sempre di soldi. Quella donna non sa cosa siano i sentimenti. Ha un cuore di pietra…», scrive Arlt alla sorella); le seconde e turbolente nozze con la redattrice editoriale Elizabeth Shine, donna indipendente ed emancipata; la fallimentare attività di inventore dilettante («Non sono uno scrittore che inventa, sono un inventore che scrive»), attribuita anche ai suoi personaggi (l’Erdosain di I sette pazzi o il Silvio Astier di Il giocattolo rabbioso), decisi come il loro creatore a ideare e fabbricare qualcosa che li renderà ricchi una volta per tutte.

Facendo ricorso a fonti di prima mano, oltre che a un’attenta ricerca d’archivio, Saitta ha il merito di inquadrare il dato biografico in un grande affresco della società argentina del tempo e delle sue tensioni culturali e politiche, restituendoci «una figura nuova di intellettuale, prodotto della massificazione e della commercializzazione della stampa e della letteratura» favorite da nuove conquiste tecniche, che non ignora le sollecitazioni del mercato ma sa anche governarle, in quanto partecipe e interprete del processo di modernizzazione in corso.

Arlt, scrittore eminentemente urbano che saprà allargare i suoi orizzonti al resto del mondo, nei romanzi e nelle cronache dà conto di una babelica metropoli invasa da una nuova popolazione di immigrati, con una nuova estetica e un nuovo immaginario. E, ovviamente, nuovi conflitti ideologici e di classe, cui lo scrittore fu spasmodicamente attento, tanto da collaborare a due riviste legate al Partito Comunista e a partecipare alla nascita della Unión de Escritores Proletarios, i cui obiettivi erano la difesa dell’Unione Sovietica e la lotta contro il fascismo.

Una militanza entusiasta quanto breve, che indusse Raúl Larra, comunista e autore nel 1950 della prima biografia arltiana, ad affermare «Arlt è dei nostri!», senza coglierne il carattere rivoltoso e anarchico. Saitta, che ne è ben consapevole, disegna invece con chiarezza l’ondivago percorso politico di Arlt, animato da un’indubbia coscienza di classe e sempre dalla parte degli sfruttati, ma insofferente alle direttive di partito e nemico del realismo socialista.

Stabilendo un continuo e fitto dialogo tra una vita breve e tumultuosa e un’opera multiforme (il ciclo dei romanzi, inaugurato nel 1926 e concluso nel 1932, i racconti, i copioni legati al Teatro del Pueblo fondato da Leónidas Barletta e infine l’enorme produzione giornalistica, sempre connotata da indubbia qualità letteraria), la biografa mette in luce la straordinaria novità dei temi, dello stile e della lingua di Arlt, irregolare e composita, con un fraseggio definito da Piglia «ibrido e in ebollizione», che da più parti gli guadagnò l’accusa di scrivere male (si vedano in proposito le condiscendenti osservazioni di Cortázar nel prologo a I sette pazzi), là dove si opponeva frontalmente e per scelta «alla norma piccolo borghese dell’ipercorrezione che serviva a definire lo stile medio», annunciando il linguaggio di avanguardie future. E proprio come «uno storico del futuro» (sempre in parole di Piglia) ci appare oggi Arlt, le cui opere e la cui figura sono più che mai capaci di parlare del presente, con indiscutibile e visionaria potenza.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2022

domenica 3 luglio 2022

Da leggere: Pilar Quintana

 


Pilar Quintana




Là dove la selva è inesorabile 

Montagne, ricche miniere, innumerevoli corsi d’acqua, foreste che si affacciano sull’oceano, un clima umido e tempestoso connotato da piogge incessanti, una popolazione composta in buona parte dai discendenti dei popoli originari e degli schiavi africani: ecco el Pacífico, la “Colombia dimenticata” del sud-ovest, con i suoi dipartimenti – Cauca e Valle del Cauca – segnati dalla violenza, dalla discriminazione, ma anche da lotte e rivolte che datano dall’epoca coloniale e che non si sono mai fermate (da un paesetto del Cauca, non a caso, viene Francia Márquez, protagonista di grandi battaglie ambientaliste, nuova vicepresidente della Repubblica colombiana e simbolo delle speranze di un territorio in cui si registra il più alto livello di povertà della nazione).

Proprio in un villaggio caucano, avvolto da una natura sovrabbondante e minacciosa, è ambientato La cagna (pp. 110, e. 16,15, traduzione di Pino Cacucci) di Pilar Quintana, che dà inizio al nuovo corso di un marchio glorioso come La Tartaruga, fondato da Laura Lepetit nel 1975, acquistato qualche anno fa da La Nave di Teseo e ora affidato a Claudia Durastanti.

Con questo suo romanzo breve e bellissimo, Quintana (nata a Cali nel 1972 e autrice di cinque romanzi e una raccolta di racconti, che hanno collezionato premi importanti e numerose traduzioni) aggiunge un prezioso tassello alla letteratura sul Pacifico colombiano, poco o nulla esplorata dall’editoria italiana nonostante includa opere notevoli come Las estrellas son negras, capolavoro ormai classico di Arnaldo Palacios, o i più recenti e pregevoli El fin del Océano Pacífico di Tomás González ed Elástico de sombra di Juan Cárdenas. Allontanandosi dal contesto urbano e borghese che caratterizza la sua narrativa, l’autrice torna infatti alla costa del Cauca, dove è vissuta per quasi un decennio in una casa tra la foresta e l’oceano, affacciata su una caletta da attraversare in canoa, o con i piedi nel fango durante la bassa marea: un percorso identico a quello che compie ogni giorno la protagonista di La cagna, Damaris, per raggiungere il villaggio più vicino.

Difficile immaginare un luogo che esprima con più immediatezza la solitudine e l’abbandono collettivi, ma anche quelli più individuali e privati, perché Damaris è stata prima una figlia che il padre non ha riconosciuto e che la madre ha affidato ad altri per poter lavorare in città, poi una bambina che il mare ha privato del suo compagno di giochi, quindi una ragazzina che una pallottola vagante ha reso orfana, e adesso è una donna inquieta e goffa, sposata a un uomo sempre assente. La solitudine più dolorosa, tuttavia, le viene inflitta dal suo stesso corpo, che le nega la possibilità di generare: una delusione cocente, a un tratto alleviata dall’adozione di una cagnetta partorita da poco e rimasta orfana.

I monotoni doveri della quotidianità di Damaris si riorganizzano così intorno a una creatura che dipende completamente da lei, un oggetto d’amore da accudire per sentirsi meno fuori luogo, meno sbagliata. Una volta cresciuta, però, la cagna dà inizio a una serie di fughe e di ritorni, mette al mondo una cucciolata che lascia morire e scatena così un rancore e una furia crescenti, che indurranno la “madre” putativa a un gesto estremo e a una delirante fuga nella selva, da cui forse non farà più ritorno. A inseguirla non è solo il senso di colpa per il simbolico figlicidio appena commesso, ma anche la somma delle amarezze accumulate sin dall’infanzia, e soprattutto la profonda vergogna per la propria incapacità di assolvere alla funzione materna, imposta come primaria e “naturale” dal discorso egemonico. Una pressione che Damaris non riesce a sostenere, e alla quale corrisponde specularmente quella da lei esercitata sulla cagna, figlia surrogata che, invece di restarle accanto, obbedisce al proprio istinto.

Entrambe, ciascuna a suo modo, sembrano interrogarci sul lato oscuro della maternità, ed entrambe esprimono un’inconsapevole ribellione: la cagna rifiuta di lasciarsi umanizzare e afferma la propria animalità attraverso lunghe scorribande e l’abbandono dei cuccioli, mentre la donna, dopo aver tentato per tutta la vita di aderire alle norme del patriarcato, le rinnega con un unico gesto selvaggio e si avvia verso la sola via d’uscita che le appare praticabile, lasciandosi inghiottire dalla fitta vegetazione, “là dove la selva era inesorabile”.

La terza e spietata figura materna è proprio la foresta, personaggio a pieno titolo che assedia e condiziona non soltanto la sorte, ma le relazioni, i pensieri, i gesti, i sogni degli esseri umani, e che insieme al mare e al clima compone una triade divoratrice, pronta a sequestrare e annientare chi si distrae per un istante, come accade al bambino Nicolasito, villeggiante di città rapito da un’onda gigantesca mentre giocava con Damaris: una sorta di una vendetta della natura per l’intrusione dei ricchi vacanzieri che costruiscono case lussuose, abusando sia del paesaggio sia della gente del luogo, manodopera pagata poco o nulla.

Se la maternità, le sue tenebre e le leggi non scritte che continuano a definire una femminilità “utile” e produttiva, sono temi portanti di La cagna (e anche dell’ultimo romanzo di Quintana, Los abismos), risulta inevitabile sottolineare altre chiavi di lettura che avvicinano il romanzo alle ferocissime storie della selva di Horacio Quiroga e ai suoi personaggi sopraffatti da un ambiente naturale ostile e invincibile. Non è difficile, inoltre, cogliere dietro alla semplice e scarna storia di Damaris anche un accenno a quella della regione in cui si svolge: la costante presenza di uomini armati (il padre della protagonista è uno dei tanti soldati che dagli anni ’60 in poi hanno presidiato la zona), il passaggio di mano delle terre, l’enorme divario tra la povertà assoluta degli afro-colombiani e i bianchi che possiedono e sfruttano le risorse locali, la precarietà di esistenze in cui tutto può disfarsi e imputridire da un momento all’altro.

Votata a una densissima brevità e a un realismo nitido, quasi fotografico, Quintana affida a un narratore in terza persona, spassionato e preciso, il racconto di vite rassegnate, di corpi condannati, di una violenza costante; la sua scrittura concreta e disadorna amministra con misura il ritmo e la tensione narrativa, mentre dipana senza sbavature né retorica il filo di una vicenda dal sapore arcaico e universale, che viene spontaneo associare alla tragica Yerma di García Lorca (un rimando sottolineato dalla critica come dall’autrice). Senza mai cedere alla facile tentazione dell’esotismo e del colore locale, la scrittrice colombiana ci restituisce l’immagine di un tropico crudele quanto suggestivo, e, con ammirevole economia di mezzi, dà spazio a silenzi carichi di significato, in un testo che si affida magistralmente al non detto.

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Nel novembre del 2017 quarantadue scrittrici colombiane pubblicarono una sorta di manifesto intitolato Colombia tiene escritoras, in cui protestavano perché l’evento che avrebbe concluso le attività culturali dell’Anno Francia-Colombia (dedicato a un programma di conoscenza reciproca e cooperazione tra i due paesi) prevedeva la partecipazione di dieci autori più o meno noti, ma sempre e comunque uomini, quasi che, nonostante l’esistenza di un consistente numero di nomi femminili importanti, la letteratura colombiana si riducesse a un club esclusivamente maschile. Alla diffusione del manifesto seguirono polemiche animate e non inutili, visto che nel giro di qualche anno la Biblioteca Nacional de Colombia, in collaborazione con alcune case editrici indipendenti, ha dato il via alla Biblioteca de Escritoras Colombianas: diciotto volumi disponibili a partire dal giugno del 2022 in tutte le biblioteche pubbliche e in un’ottantina di librerie, così da recuperare e promuovere opere di autrici nate nel corso degli ultimi tre secoli, che la storia ufficiale della letteratura ha ignorato o relegato ai margini, ma che consentono “di ripensare la letteratura e la condizione delle donne nel panorama colombiano”. E a ideare un progetto così ambizioso e significativo è stata Pilar Quintana, firmataria a suo tempo del manifesto del 2017, che ne ha curato nei minimi dettagli la realizzazione.