martedì 27 settembre 2022

Anniversari e addii: Alejandra Pizarnik

 


Alejandra Pizarnik



Anniversari e addii: Alejandra Pizarnik 

«Qual palombaro nel suo scafandro/o qual nevrotico nel suo tic,/mi rifugio in te, Alejandra/Pizarnik./O tu, agile balandra,/o letterario pic-nic,/con la tua aria da salamandra/modellata da Lalique! O Alejandra,/o mia Cassandra/chic!».

 

Citata dalla grande studiosa argentina Sylvia Molloy in un saggio su Pizarnik, cui era unita da un’amicizia nata nei loro anni parigini, la buffa poesiola è opera di Manuel Mujica Lainez che la dedicò ad Alejandra nel 1966, quando le assegnarono il Premio Nazionale di Poesia per il volume di versi Los trabajos y las noches. Critico raffinato e autore del monumentale romanzo Bomarzo ispirato a Pierfrancesco Orsini, nonché uomo di eccelsa eleganza, Mujica Lainez può sembrare l’antitesi di colei che, simile a un ragazzaccio incline al turpiloquio e sprofondato in maglioni sformati e logori giacconi da marinaio, si sforzava di apparire come l’ultima incarnazione dei poeti “maledetti”.

Che i due si apprezzassero a vicenda, però, lo testimoniano le lettere inserite nell’epistolario di Pizarnik curato da Cristina Piña e Ivonne Bordelois (Lumen 2017), ed è sempre Molloy ad affermare che l’esteta Mujica e la trasgressiva Alejandra avevano molto in comune: in quanto dediti «alla costruzione del corpo come oggetto culturale leggibile» (e quindi parte integrante della propria opera), erano entrambi dei dandy, dei poseurs, sempre che si utilizzi il termine «posa» come sinonimo di «performance dell’io», sia testuale che corporale.

La «Cassandra chic» evocata da Muijca Lainez sembra, inoltre, coincidere ben poco con la consueta immagine di Pizarnik, morta suicida il 25 settembre del 1972 nella Buenos Aires dov’era nata trentasei anni prima, e tutt’ora circondata da un’aura di follia, fragilità e sofferenza: un mito oscuro quanto riduttivo, che contribuisce a tramandare la figuretta di una tragica «bambina perduta» e insonne, alle prese con mostri, incubi, solitudini, disamori, messa ora in discussione, una volta per tutte, dalla biografia proposta nel cinquantesimo anniversario della morte (Alejandra Pizarnik. Biografia de un mito, Lumen, pp. 427, e. 18,67), da Cristina Piña e Patricia Venti, cui già si devono studi approfonditi su quella che ancora oggi è la più celebre e amata esponente della poesia argentina novecentesca.

Il libro fa seguito a una prima e relativamente scarna biografia di Pizarnik scritta trent’anni fa da Piña, che all’epoca aveva dovuto misurarsi con troppi silenzi, senza poter attingere alla consistente mole di materiali ora custoditi all’Università di Princeton; ampliato a partire da una impressionante documentazione – dalla versione integrale dei diari (apparsi a distanza di anni presso Lumen, in due versioni differenti e comunque incomplete, che hanno suscitato notevoli polemiche) a lettere finalmente recuperate, alle testimonianze di familiari e amici – il nuovo testo rivela una Pizarnik ben più sfaccettata e complessa e ce la mostra come un universo in espansione, che continua a riservare sorprese.

Piña e Venti fanno luce su molti aspetti della breve esistenza di Alejandra, nata in una famiglia ebrei russi in fuga da un’Europa dove i campi di sterminio avrebbero presto inghiottito i loro parenti, e approdati in un’Argentina tumultuosa e non del tutto aliena dall’antisemitismo, dove riuscirono a prosperare e a garantire alle figlie un’ottima istruzione. Bambina che la sorella Myriam ricorda come gioiosa e amatissima, Alejandra divenne un’adolescente difficile, scontenta del proprio aspetto e in conflitto perpetuo con i genitori, ai quali attribuirà una implacabile incomprensione che la nuova biografia, però, sembra smentire. Irrequieta, capricciosa, ingenua, esasperante, aveva tuttavia chiaro, sin da allora, che «voleva la gloria» ed era destinata «a una vita eccezionale», realizzata non nel matrimonio o nella maternità, come si aspettavano la famiglia e la società, ma interamente votata alla poesia e a un autentico, ininterrotto corpo a corpo con il linguaggio: una vita in cui scrivere significava essere, trovarsi, definirsi.

Dalle incertezze di un apprendistato trascorso a Buenos Aires tra il 1955 e il 1960, che la vede cambiare nome (da Flora, quello ricevuto alla nascita, a uno soltanto suo, Alejandra), abbandonare gli studi universitari, stringere una quantità di amicizie tra artisti e intellettuali in vista e pubblicare le prime raccolte di versi, Pizarnik procede a una sempre più consapevole e decisa costruzione di sé come poeta e come inconfondibile personaggio (l’importanza del suo lato «performativo e teatrale » non è sottolineata soltanto da Molloy, ma anche da altri studiosi e dalle due biografe), finché un soggiorno parigino di quattro anni – i più felici, segnati da strette relazioni con personaggi come Julio Cortázar e Octavio Paz – e libri ormai prossimi a un’essenziale perfezione le conferiscono, al ritorno in patria, un crescente prestigio.

È il rientro a Buenos Aires, però, a segnare l’inizio di un periodo sempre più inquieto, tra abuso di alcol e di farmaci, ricoveri in una clinica per malattie mentali, tentativi di suicidio e notti sfrenate, mentre la sua poesia si fa sempre più rarefatta e i diari (in piccola parte da lei stessa rivisti e pubblicati proprio in quegli anni) crescono e si dilatano, fin quasi a diventare una sorta di romanzo autobiografico, quello che aveva sempre voluto scrivere senza mai decidersi ad affrontare l’impresa. Ed è allora che Pizarnik prende a cimentarsi sempre più spesso con la prosa, in buona parte pubblicata postuma: racconti brevi e brevissimi, esercizi bizzarri come La bucanera de Pernambuco o La condesa sangrienta (novella travestita da recensione dell’omonimo romanzo di Valentine Penrose), testi in cui uno humor feroce si fonde con infiniti giochi di parole e con un assortimento di oscenità, e che fanno pensare ad autori come Copi, Osvaldo Lamborghini o Nestor Perlongher, anche se la parentela è sottile e resta indefinita, perché una delle caratteristiche principali di Pizarnik è la sua unicità in seno al panorama letterario sia nazionale che latinoamericano.

Se la si può in qualche modo collegare ai neoromantici e ai surrealisti argentini (secondo César Aira, che su di lei molto ha scritto, la sua opera nasce e si sviluppa alla luce del surrealismo), appare evidente che i riferimenti sono soprattutto europei (Mallarmé, Artaud e Lautréamont) e che un solco profondo la separa dalle correnti poetiche nazionali, in genere assai sensibili ai cambiamenti sociali e politici, dei quali, invece, nei suoi scritti non si trova traccia. Indifferente ai cinque colpi di stato avvenuti nel corso della sua vita, all’avvento del peronismo, alla repressione e alla censura, Pizarnik era impegnata in una continua e spietata introspezione, senza per questo prescindere dallo sguardo altrui: guardarsi di continuo, essere continuamente guardata per poter esistere, e dunque per poter scrivere, sempre attingendo ad altre scritture, in un minuzioso riutilizzo di citazioni che testimonia la qualità postmoderna della sua opera.

Quello che la nuova biografia mette in luce è soprattutto l’esistenza di tante e diverse Alejandra, incatenate l’una all’altra dalla nostalgia dell’infanzia, dall’insicurezza e insieme dalla consapevolezza del proprio valore, da un senso dell’umorismo che la rendeva straordinariamente vivace e divertente, dall’improvviso sprofondare nell’angoscia, da una esibita incapacità – o piuttosto dal rifiuto – di affrontare la vita quotidiana (a mantenerla furono, per tutta la vita, i genitori pur insultati e disprezzati), da una sessualità turbolenta e forse esasperata, dice Piña, dai farmaci prescritti da uno psicoanalista incauto, e da una fame d’amore che nessuno dei suoi molti amanti, uomini o donne, riusciva a soddisfare.

Poeta grandissima e pronta ad annullarsi nella propria opera, figuretta androgina di per sé eversiva e in anticipo sui tempi, incapace di invecchiare e perciò di vivere, Pizarnik ci appare inesauribile, contraddittoria, ammaliante, mai raccontata fino in fondo. Anche Piña e Venti, così attente e minuziose, davanti ad alcuni episodi dei suoi ultimi anni e a certi suoi «terribili e pornografici» scritti privati hanno deciso di mantenere il silenzio, perché a volte non si può né si deve sapere tutto. Oppure sì?

I lettori e i critici continueranno a chiederselo, compresi, forse, i suoi molti estimatori italiani, che per ora la conoscono solo attraverso le traduzioni di Claudio Cinti (La figlia dell’insonnia, Crocetti 2020) o di Roberta Buffi (Poesia completa, LietoColle 2018), e alla breve selezione di lettere a cura di Andrea Franzoni e Flavio Orecchini (L’altra voce, Giometti e Antonello, 2019).

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto il 25 settembre 2022

lunedì 12 settembre 2022

Da leggere: Diamela Eltit

 


Diamela Eltit




Errante, erratica 

Quando il Salone del Libro di Torino scelse il Cile come paese ospite per l’edizione del 2013, il Presidente della Repubblica cilena era Sebastián Piñera, ricchissimo imprenditore e fratello del Ministro del Lavoro di Pinochet, uno dei principali responsabili della full immersion nel neoliberismo teorizzata da Milton Friedman. Della delegazione ufficiale di scrittori, poeti e studiosi designati a rappresentare la letteratura nazionale avrebbe dovuto far parte anche Diamela Eltit, che tuttavia rifiutò l’invito formulato da un governo «percorso da segni, tracce, conseguenze della passata dittatura», aggiungendo: «Come abitante dell’inxilio (cioè l’esilio interiore) di quegli anni, ho un rapporto traumatico e irreversibile con quel periodo e non posso smettere di evocare l’adesione della destra cilena al momento storico più distruttivo del XX secolo».

Era in uscita, proprio in quei giorni, la prima traduzione italiana di un suo romanzo (Imposto alla carne, Atmosphere), che Eltit scelse di non presentare al Salone non solo per ragioni squisitamente politiche, ma anche perché convinta che i libri «viaggiano da soli», in attesa di «quell’incontro casuale che distingue la lettura». Il rifiuto, dunque, si estendeva anche a quella che il mercato editoriale ritiene ormai una necessità imprescindibile, ovvero l’esibizione illimitata del corpo dello scrittore, spinto a farsi personaggio e a presentarsi al pubblico «con il libro tra le braccia, per chiedere che lo leggano».

Alla luce di questi consapevoli “no”, tanto più interessante appare oggi la presenza di Eltit al Festival di Mantova e, pochi giorni dopo, all’Università di Milano e all’Istituto italo-latinoamericano di Roma: un breve tour che non ha caratteristiche promozionali, ma piuttosto quelle di una presa di contatto, di un “fare conoscenza” (in tutte le accezioni del termine) con una delle più importanti, rigorose e poliedriche intellettuali dell’America latina contemporanea, che negli ultimi anni ha ricevuto premi di grandi prestigio e ha visto crescere la già notevole mole di studi critici sulla sua opera. Ancora poco nota da noi, nonostante siano stati recentemente tradotti altri due dei suoi undici romanzi (Mano d’opera, proposto da Alessandro Polidoro nel 2020, e Mai e poi mai il fuoco, edito da gran vía nel 2022), l’autrice arriva in Italia insieme a una raccolta di saggi scelti e prefati da Laura Scarabelli, che ne ha curato la traduzione dopo essersi brillantemente cimentata con quella della narrativa eltiana: Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica, pubblicato da Mimesis (pp. 238, e. 20), un libro che pone domande, suggerisce punti di vista divergenti e insinua che, nonostante la letteratura non possa cambiare il mondo, sia più che mai giusto provarci, anche se per fallire gloriosamente nell’intento.

Nata a Santiago de Chile nel 1949 in una famiglia di origine palestinese, Eltit ha insegnato per lunghi anni in scuole e università, in Cile e all’estero, e viene spesso considerata un’autrice ermetica, sperimentale, di difficile comprensione; eppure, come fa notare lei stessa in un’intervista, «la narrativa che rompe la linearità e lavora sul linguaggio e la sua torsione» era una realtà da tempo consolidata – il riferimento a Joyce e al neobarocco latinoamericano, da Lezama Lima a Severo Sarduy, viene spontaneo –, quando apparve quasi clandestinamente Lumpérica (1983), il primo dei tre romanzi scritti durante la dittatura.

Da allora, Eltit ha continuato a fare della sua prosa fratturata (una prosa che si fa immagine, che esplora i margini, sonda gli interstizi del linguaggio, spinge il lettore a decifrare e ricomporre il testo) uno spazio di resistenza e uno strumento di rivolta contro l’ordine dominante, si tratti della dittatura o del neoliberismo puro e duro che ha reso il Cile uno dei paesi latinoamericani in cui le disuguaglianze sono più aspre e tenaci, per poi allargare il discorso a una realtà non solo nazionale o latinoamericana, che ci coinvolge tutti. Concepita, dice Scarabelli, «come un esercizio permanente di sincronizzazione con i principali accadimenti che contrassegnano la contemporaneità̀, una corrispondenza che non vuole catturare le “esigenze del tempo” ma le sue ombre», quella di Eltit è un’opera in cui l’opzione estetica non prescinde mai da quella etica e politica, lontanissima dalla «letteratura selfie» (la definizione è sua) favorita da una cultura neoliberale che, fatte le debite eccezioni, raramente arriva a sfiorare e indagare l’altro.

I saggi, brillantissimi e limpidi, mostrano una evidente contiguità con i romanzi e utilizzano in altro modo i medesimi materiali: il trauma della dittatura, il potere e il controllo, l’alleanza tra Stato e mercato, la memoria e il suo uso, le sperequazioni sociali ed economiche, le questioni di genere, la riduzione del cittadino a consumatore, la maternità e le relazioni filiali, la relazione tra arte e politica. Il tutto connotato dalla fondamentale presenza del corpo, oggetto di dominazione e colonizzazione, strategicamente modellato dall’omologazione tra biologia e cultura, tradizionalmente relegato alla prigione della dicotomia maschile-femminile. Le quattro sezioni in cui è diviso il volume di saggi (Spettri della dittatura; L’archivio e il testimone; Corpo, politica e scrittura; Mercato e potere) sono attraversate da una lunga teoria di corpi: da quelli vigili e inesorabili dei militari golpisti, ai cadaveri torturati degli oppositori, ai lavoratori inchiodati alla precarietà e asserviti «da un modo selvaggio di rinegoziare il capitale», e infine alle donne, la cui corporeità resta un territorio ultrasorvegliato, fonte di lavoro sottopagato e cura non remunerata, investimento redditizio per l’industria cosmetica, riproduttiva e dell’intrattenimento (e al momento, va detto, per quella editoriale).

La centralità di questo corpo-segno rimanda (anche) all’attività di performacera in seno al CADA, il Colectivo Acciones de Arte fondato da Eltit nel 1979 insieme al poeta Raúl Zurita, agli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo e al sociologo Fernando Balcells, in un Cile culturalmente desertificato dalla censura e dell’esilio: una minuscola comunità autoriale che interveniva a proprio rischio nello spazio pubblico, documentando ogni cosa con video e foto. E, nei saggi come nei romanzi e nelle “azioni” del Collettivo, l’attenzione per il corpo si accompagna a quella per tutto ciò che esce da una normalità imposta e, per il solo fatto di esistere, si oppone.

Un altro elemento di interesse offerto al lettore di Errante, Erratica sta negli scritti in cui l’autrice dispiega la propria concezione della letteratura, le considerazioni sulla progressiva «estinzione del libro letterario» che a suo parere ha connotato la seconda metà del ventesimo secolo e insieme la rivendicazione del perpetuarsi, tra le pieghe del mercato, di sacche di resistenza che, come i corpi dissidenti, si rivelano irriducibili, nonostante tutto sia «programmato per livellare ogni forma di differenza». Né bisogna dimenticare che, oggi, il libro di Eltit può anche rappresentare un peculiare punto di partenza per la riflessione sul recentissimo no alla nuova costituzione, in un Cile dove, nonostante tutto, Pinochet «è una macchina che non si spegne, una macchina di distruzione e di abuso che si chiama Pinochet, in una delle sue identità̀ possibili», come scriveva l’autrice nel 2008. «Siamo sopravvissuti a uno dei tanti Pinochet ma ne esistono degli altri e degli altri ancora, all’infinito. Per questo non riposeremo in pace. Mai».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2022

venerdì 2 settembre 2022

Da leggere: José Esteban Echeverría

 


José Esteban Echeverría




La vertigine della barbarie 

Nonostante in passato non siano mancate alcune traduzioni italiane, sono in pochi a conoscere un’opera capitale della letteratura argentina, analizzata con estrema attenzione sia dalla critica novecentesca che da quella più recente: la novella El matadero di José Esteban Echeverría, scritta fra il 1838 e il 1839, alla vigilia dell’esilio cui l’autore, seguace del Partito Unitario, fu costretto in quanto oppositore di Juan Manuel de Rosas, capo dei Federali e dittatore di un’Argentina ancora in formazione, travagliata da gravi contrasti interni. Un libro da scoprire, appena riproposto da Elliot (Il mattatoio, pp. 48, e. 6) nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto, autore anche della prefazione che inquadra il contesto storico e sociale del racconto e informa sulla vita breve e turbolenta del suo autore, morto a Montevideo nel 1851, a quarantacinque anni.

Considerato uno dei fondamenti della moderna narrativa argentina, come tutti i classici anche Il mattatoio offre risposte sempre nuove a sempre nuove domande, e secondo Martin Kohan continua a essere non solo letto, ma anche riscritto di continuo, come se la letteratura nazionale “o buona parte di essa, fosse solo una serie di variazioni sul testo di Echeverría”, a partire da La festa del mostro (firmato nel 1955 da Borges e Bioy Casares con lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq), o dal crudelissimo Il bambino proletario di Osvaldo Lamborghini, che ne dilata all’estremo l’allegorica crudezza.

Il racconto di Echeverría, dice Ricardo Piglia, “è una storia della violenza argentina attraverso la finzione, la ricostruzione di una trama dove si possono decifrare o immaginare le tracce che lasciano nella letteratura i rapporti di potere, le forme della violenza”, qui evidenti nello scontro tra i colti e liberali Unitari e l’autoritario oscurantismo del governo Federale e della Chiesa sua complice e alleata, ma visibili soprattutto nel selvaggio ritratto di una plebe sedotta dal populismo ipocrita di Rosas: due mondi inconciliabili, espressione del contrasto che qualche anno dopo verrà teorizzato da Domingo Faustino Sarmiento in un altro testo fondativo (Facundo. Civiltà o barbarie), e che, affrontato in modi diversi, affiorerà a lungo nella cultura e nella politica argentine.

La trama – racchiusa in un unico giorno di Quaresima e in solo ambiente, il mattatoio, assurto a simbolo dell’intera nazione – è apparentemente semplice e si affida tanto al sarcasmo sferzante del narratore, quanto alle descrizioni del mattatoio, sordido avamposto rurale alle soglie di Buenos Aires, tra il fango e le pozze di sangue, i corpi squartati dei manzi che Rosas ha offerto al popolo stremato da carestia e alluvioni, la brutalità dei macellai, i pezzi di carne contesi da una turba umana e animale (cani, topi, gabbiani, vecchie negre che nascondono tra i seni il grasso rubato o sbrogliano gomitoli di budella). Un bambino viene casualmente decapitato da un lazo, ma la sua morte è archiviata senza emozioni; un fierissimo toro tenta la fuga e viene inesorabilmente abbattuto. E un giovane Unitario transita nei pressi del mattatoio ed è subito catturato dai macellai, fanatici rosisti, decisi a infliggergli una tortura che è poi uno stupro – la letteratura argentina ha inizio con una violazione, scrive in proposito David Viñas –, al quale il ragazzo si sottrae con una morte improvvisa, quasi un suicidio provocato dal furore, emettendo un fiume di sangue come il toro appena ucciso (il parallelo tra uomini e animali è continuo, a sottolineare la reciproca disumanizzazione degli avversari).

Si è molto discusso sul perché l’autore non volle pubblicare un testo che ci appare perfetto, di rara intensità narrativa e ricco di immagini così potenti da aver ispirato numerosi artisti, per esempio Carlos Alonso, autore delle magnifiche illustrazioni di un’edizione del 1966, o Enrique Breccia, che nel 1984 ha realizzato per la rivista Fierro uno splendido adattamento a fumetti, pubblicato in Italia dalle Edizioni 001. Il mattatoio emerse infatti dalle carte di Echeverría solo a trent’anni dalla sua morte, grazie all’amico Juan María Gutierrez, come lui membro della Generazione del ’37, i giovani letterati illuministi che tentarono di delineare un progetto di nazione (toccò a Echeverría scriverne nel 1848 il manifesto, noto come Dogma Socialista). Secondo un’ipotesi consolidata fu proprio lui, poeta cui si deve l’introduzione in Argentina del romanticismo europeo, a “nascondere” l’opera, consapevole di quanto fosse estranea all’estetica del tempo e alla volontà di creare un immaginario radicato nella realtà americana (il racconto inizia con un ironico rifiuto della letteratura coloniale) e utile a esaltarne gli aspetti più nobili e la possibilità di un luminoso futuro.

Il mattatoio, invece, rimanda a zone marginali e oscure, mette in scena con involontaria ma palese fascinazione la barbarie di un’alterità vertiginosa, si immerge senza remore in una violenza che può sfociare solo nella morte, e restituisce infine un’oralità rozza e vigorosa, una pluralità di voci fitta di localismi, assoluta novità stilistica che lo sconcertato Gutierrez attribuisce alla “fretta” dell’autore. In poche pagine di una modernità che non manca di sorprendere, Echeverría ricostruisce così l’immagine di un paese intero e, come sottolinea Piglia, dimostra che “la letteratura ha sempre un segno utopico e annuncia il futuro”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022

Storie: L’Ebro, storie vere che sembrano leggenda

 




L’Ebro, storie vere che sembrano leggenda 

Due colossali pinnacoli d’acciaio poggiano sull’unico pilastro di un ponte ormai distrutto, che ancora emerge al centro del fiume. In cima al più alto, la figura bronzea di un soldato sostiene una stella, mentre il più basso è coronato da un’aquila in volo, i cui artigli hanno a lungo sorretto un emblema franchista eliminato nel 1986, insieme alle iscrizioni inneggianti al Caudillo. E dal 2008 è sparita anche la targa che ricordava alla cittadina catalana di Tortosa l’inaugurazione del monumento, onorata nel 1964 dalla presenza del Generalissimo.

Una volta asportati i più evidenti simboli della dittatura, e sorvolando su un’origine e un’estetica marcatamente fasciste, chi legga la superstite scritta sulla base (“Ai combattenti che trovarono gloria nella Battaglia dell’Ebro”) potrebbe forse convincersi che si tratti di un omaggio ai caduti di entrambe le parti. Non sono in pochi, tuttavia, a nutrire la speranza che la collera dell’Ebro – l’antico e bellicoso Hiberus, noto per la violenza delle sue piene – prima o poi faccia giustizia del mostro di metallo collocato, a gloria del regime, nel cuore d’acqua di una città semidistrutta dalle bombe di Franco.

L’Ebro, che attraversa la Spagna da nord a sud per quasi mille chilometri, nel corso dei secoli ha assistito (e in certo senso partecipato) alle guerre puniche e a quelle fra Pompeo e Cesare, che lo cita più volte nel De Bello Civili, ai saccheggi dei vichinghi che lo risalirono nel IX secolo, alla cacciata dei “mori” per mano dell’aragonese Alfonso El Batallador, alla pax dei Templari, alle guerre napoleoniche e carliste, ed è stato di volta in volta confine naturale, ostacolo o via di comunicazione, fonte di benessere o di rovina. Se ancora oggi è circondato da un’aura mitica, però, lo si deve alla battaglia combattuta nel 1938 tra l’esercito repubblicano, che lo aveva attraversato in una notte di fine luglio (El Ejército del Ebro/una noche el río pasó, ripete la più famosa canzone della guerra civile), e i franchisti già vicini alla vittoria definitiva, ma bloccati lungo il fiume per quattro lunghi mesi da un avversario male armato e quasi privo di risorse, che sperava nell’aiuto di una corrente tumultuosa e infida.

Per conoscere la Storia e le storie di quella battaglia si può attingere a una considerevole quantità di studi che, a ottantatré anni di distanza, continuano ad arricchirsi grazie a nuove riflessioni e scoperte, cui si aggiungono la ricchissima fioritura di memorie dei sopravvissuti o le biografie di quanti hanno perso la vita lungo le rive dell’ Ebro: gli uomini chiamati a difendere la Repubblica sin dal 1936, i ragazzini della Quinta del Biberón (così battezzata dall’anarchica Federica Montseny, che non poté trattenersi dall’esclamare: «Diciassette anni? Ma se ancora hanno bisogno del biberon!»), le reclute quasi anziane della Quinta del Saco. E poi i volontari delle Brigate Internazionali, migliaia di uomini e donne provenienti da più di cinquanta paesi che, scrive Ignacio Echeverría nella prefazione a Sois Historia, Sois Leyenda, un recente libretto del giornalista Miguel De Luca (Contexto, 2022), «rischiarono la vita in cambio di niente, e lo fecero per un popolo composto in buona parte da contadini e operai ai quali nulla li legava. Si dirà che questo è un modo assai romantico di esporre la cosa, e in effetti è così. Queste pagine sono piene di romanticismo, perché in definitiva disegnano una leggenda. Una leggenda romantica».

Dall’Ebro e dall’ultimo tratto del suo corso impetuoso, tra Aragona e Catalogna, di storie vere che sembrano leggenda ne sono germogliate e sbocciate un’infinità, come quelle raccolte in Ebro 1938. No pasarán. I garibaldini caduti nella battaglia dell’Ebro, edito nel 2011 dall’Aicvas (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna), con un saggio introduttivo di Marco Puppini e un testo scritto nel 1939 da Alessandro Vaia della Brigata Garibaldi. Volontari diversi dagli altri, gli italiani, perché come i compagni tedeschi combatterono una propria guerra civile all’interno di quella spagnola: dall’altra parte, infatti, c’erano anche le truppe di Hitler e Mussolini, compresi gli aviatori che intorno al fiume bombardarono senza sosta postazioni repubblicane, paesi e imbarcazioni.

Autentica è anche la storia di Manuel Mena, zio materno di Javier Cercas: un volontario franchista di diciannove anni, morto sull’Ebro e diventato così un eroe per la famiglia, ma non per il nipote, che in Il signore delle ombre (Guanda, 2017) indaga su di lui e si interroga su di sé e sulla Spagna intera.
Anche Arturo Pérez Reverte, ex corrispondente di guerra da anni riconvertito in scrittore superventas, ha aggiunto un romanzo fluviale (l’aggettivo è d’obbligo) alla già imponente mole di opere letterarie sulla Battaglia dell’Ebro: Línea de fuego (Alfaguara, 2020), settecento pagine stroncate su El País da Jordi Gracia, che sottolinea come il testo sappia di equidistanza, più che di equanimità, e riduca a quasi niente «i motivi legittimi che giustificano quella guerra. Perché è vero, la guerra è un orrore, ma è anche “la lotta del bene contro il male”, almeno a partire dal momento in cui Franco organizza un colpo di stato contro la Repubblica».


Curiosamente, il romanzo di Pérez Reverte si svolge tra Mequinensa e Fayón, nel medesimo scenario che fa da sfondo all’opera di un autore poco noto in Italia, Jesús Moncada, nato nel 1941 proprio a Mequinensa e scomparso nel 2005. Teatro di combattimenti asprissimi, i due paesi facevano parte della Franja de Aragón, la striscia di territorio aragonese cui fa da confine meridionale un Ebro ingrossato dalla confluenza con il Segre, che secondo i repubblicani avrebbe dovuto rappresentare un ulteriore ostacolo alla conquista della Catalogna da parte dei fascisti.


Nella Franja si parla catalano, idioma che il franchismo aveva espulso dalle scuole e che per Moncada, come per i suoi conterranei cresciuti durante la dittatura, era la lingua in cui pensava e parlava, ma non quella in cui scriveva, finché Pere Calders (grande scrittore e umorista per anni esiliato in Messico) lo incoraggiò a servirsene. Ed è in un catalano limpidissimo che Moncada ha fatto dell’Ebro e di Mequinensa i veri protagonisti dei suoi tre romanzi e di altrettante antologie di racconti, e in particolare di Camì de Sirga (Il testamento dei fiumi, gran vía, 2014): un libro che non è azzardato definire straordinario nella forma come nel contenuto, e che fonde un irresistibile umorismo con la poesia, l’elegia con la memoria, l’amarezza con l’ironia, indugiando a ogni pagina sulla luce che gioca con l’acqua, sulle voci e i colori del fiume, sul modo in cui riflette e condiziona pensieri, azioni e sentimenti umani.


Abitato da centinaia di personaggi e composto da altrettante microstorie che confluiscono in un’unica e polifonica vicenda, il romanzo ha inizio nel 1971, con un fragore simile a quello dei bombardamenti e con il suono lacerante della stessa sirena che li annunciava in tempo di guerra, ma che ora accompagna la demolizione della “vecchia” Mequinensa, sacrificata alla costruzione della diga di Ribarroja e sommersa insieme alla vicina Fayón, che regala all’Ebro un altro monumento emergente dalle acque, un’impavida torre campanaria.


Un romanzo sul dopoguerra, quindi? Non proprio, perché in un continuo andare e venire tra presente e passato, Moncada racconta e trasfigura un secolo e mezzo di storia del suo paese di minatori e naviganti, isola operaia in un mondo rurale, e lo fa attraverso i ricordi individuali (gli amori, i tradimenti, le burle) e le inarrestabili fabulazioni collettive (le lotte dei minatori, le avventure dei barcaioli, le guerre antiche e nuove, la brutale e ridicola stupidità del regime, la costante e ineludibile eco dell’ultima battaglia repubblicana, dei campi di concentramento, dell’esilio e del maquis), il tutto accompagnato dal fluire della corrente, dal via vai dei llauts – le imbarcazioni tradizionali, cariche di carbone all’andata e di riso al ritorno –, dai passi cadenzati lungo le alzaie dove uomini e animali trascinano gli scafi per mezzo della sirga, la grossa corda da traino. Un mondo perduto, che la diga ha cancellato e al quale Moncada ridà vita.


È fin troppo facile vedere nella Mequinensa di Moncada, inghiottita in nome del “progresso” dall’acqua che per secoli le è passata accanto (a volte minacciandola, ma consentendole sempre di darle del tu), una metafora della perduta libertà e dello spirito repubblicano, perché lo sfondo sociale e politico del romanzo è inequivocabile e la memoria del paese si muove in parallelo a quella di una nazione intera. Ma Moncada non si riteneva uno storico né nutriva intenzioni didattiche o ideologiche: era prima di ogni altra cosa un narratore e voleva soprattutto raccontare storie, con lo stesso ritmo ipnotico e il medesimo procedere sinuoso dell’Ebro in cui nuotava da bambino.

 
 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022