lunedì 15 dicembre 2014

Da leggere: Juan José Saer



Juan José Saer




Un enigma sfuggente 

La letteratura argentina conta numerosi scrittori celebri che si sono cimentati con il giallo, occasionalmente e alla loro maniera. Il più ligio alla tradizione, fra tutti, è stato Rodolfo Walsh, con i racconti di Variazioni in rosso, in cui le regole del “genere” vengono applicate con una certa rigidezza e quasi meccanicamente, mentre i “problemi” risolti dal don Isidro Parodi di Borges e Bioy Casares parodizzano il poliziesco deduttivo di stampo inglese e vi innestano una inequivocabile satira della società argentina. Tutt’altro discorso per il Soriano di Triste solitario y final e per José Pablo Feinmann , che, da Gli ultimi giorni della vittima a Los crimenes de Van Gogh alla trilogia sul detective-killer Joe Carter, rivisitano e stravolgono l’hard boiled letterario e cinematografico nordamericano, rendendogli allo stesso tempo omaggio, come pure fa Manuel Puig in uno dei suoi migliori romanzi, The Buenos Aires Affair, mentre Ricardo Piglia, autore dei sofisticatissimi Soldi bruciati e Bianco notturno, usa il genere per cercare (è lui stesso a sottolinearlo) di “ricostruire una storia che è fuori dalla scena, fuori della superficie della narrazione”.

Nessuno di questi punti di riferimento, con i loro differenti modi di avvicinarsi al poliziesco e di usarlo, tuttavia, può preparare il lettore al sorprendente incontro con L’indagine (pag. 159, e.13,50) di Juan José Saer, saggista, poeta e scrittore argentino scomparso nel 2005 a sessantotto anni, la cui narrativa, elaborata con estremo e appartato rigore, si fonda su una ricerca formale che l’ha portata molto lontano dal realismo sociale e da quello fantastico – due proposte per lungo tempo dominanti nelle letterature latinoamericane – in direzione di un’avanguardia intesa non come movimento codificato, ma come “atteggiamento nei confronti dell’arte” e come tensione incessante verso il nuovo.

Già pubblicato nella nostra lingua nel 2006 da Einaudi, e ora riproposto nella traduzione davvero ottima di Gina Maneri da La Nuova Frontiera (che nel 2012 aveva presentato ai lettori italiani Cicatrici, il primo grande romanzo saeriano della maturità), L’indagine potrebbe avere, piuttosto, dei punti di contatto con El aire di un crimen di un altro grande scrittore, lo spagnolo Juan Benet, se non altro perché i due testi sono fortemente connotati dalla peculiare ricerca stilistica degli autori, che piegano il genere alle proprie esigenze e ne fanno qualcosa di inconfondibilmente personale. Entrambi i romanzi, poi, sono ingiustamente considerati minori in seno a corpus narrativi di straordinaria importanza e spessore, simili a un labirinto costantemente modificati dall’aggiunta di nuovi segmenti.

E il labirinto è l’immagine che più spesso viene evocata, non a sproposito, quando si parla di L’indagine, in cui il lettore si trova davanti a un intreccio di enigmi diversi che sembrano sfociare uno nell’altro, e che spesso disegnano uno spazio sia fisico che interiore, in cui i personaggi vagano, tornano sui propri passi, si perdono, alla ricerca di un’uscita impossibile. Il primo enigma è quello della voce narrante che occupa la prima delle tre parti in cui è diviso il romanzo: non sappiamo a chi appartenga, dove si trovi, chi siano gli ascoltatori cui sta raccontando la vicenda di un serial killer che ha violentato, ucciso e ritualmente sezionato ventisette vecchie signore e, nella gelida Parigi pre-natalizia, si accinge a eliminare la ventottesima.

Il secondo enigma è ovviamente l’identità dello spietato assassino, sulla quale si interroga l’assorto ispettore Morvan, soggetto a trances misteriose che lo portano a vagare nottetempo per un dedalo di strade e piazze, dove crede di scorgere mostri simili a quelli del libro di mitologia avuto in regalo da bambino. E’ la sua complessa storia personale a contenere il terzo enigma (quello della sua nascita e paternità, piene di segreti), mentre il quarto, che occupa tutta la seconda parte del libro, riguarda l’identità dell’autore di un manoscritto anonimo, un romanzo sulla guerra di Troia intitolato En las tiendas griegas, del quale ci viene offerto, come un regalo a sorpresa, un breve apologo sulla natura del narrare. E l’ultimo enigma, fuggevolmente accennato ma non meno importante, è la scomparsa di un uomo e della sua amante, sequestrati nel corso dei terribili anni ’70.

Al contrario di quanto accade nel classico romanzo poliziesco, basato su una trama che porta al raggiungimento della verità e alla catarsi che ne consegue, a buona parte di questi enigmi L’indagine non offre risposte, ma sembra suscitare altre domande: il detective è incapace di ristabilire l’ordine, e la ricomposizione del caos non può essere che fluttuante e instabile, a seconda del punto di vista attorno al quale si organizza.

Certo, la voce narrante finisce per rivelarsi come Pichón Garay, santafesino residente a Parigi da molti anni (come Saer stesso, che nella capitale francese visse fino alla morte, insegnando Estetica all’Università di Rennes), capace di trasformare un truce fatto di cronaca in un fluido racconto pieno di riferimenti personali, deliziosi ritratti di vecchiette inaffondabili che offrono il tè ai loro assassini, acuti commenti sulla società dei consumi e sulla percezione della realtà imposta dai media, allusioni letterarie – per esempio al giallo francese delle origini e alla Parigi di Poe – e mitologiche, ovviamente intrise del sadismo sanguinario che dèi, mostri ed eroi praticano con divina naturalezza. E la scoperta che gli ascoltatori di Pichón sono il suo amico di sempre Tomatis, giornalista e scrittore, e un giovanotto di nome Soldi, riuniti intorno al tavolo della cena tra sigari e birre, ci riconduce alla Zona (il nordest argentino dove l’autore era nato e cresciuto, Santa Fé e il suo litorale, il Paranà e i suoi affluenti), un luogo al tempo stesso reale e immaginario in cui, da un romanzo all’altro, si muovono gli stessi personaggi, da sempre sodali e complici: un universo circoscritto ma dilatabile all’infinito, presente sin dal libro d’esordio di Saer - la raccolta di racconti En la zona, del 1960 - che, dice Beatriz Sarlo, come Onetti o Faulkner ha scelto di focalizzarsi su uno “spazio del narrato, che smette di essere un semplice sfondo contro il quale si muove la storia per diventare una materia poetica altrettanto centrale della storia che racconta”.

In questo mondo di spiagge, pianure e grandi corsi d’acqua, dove le charlas, le conversazioni – che delle storie di Saer sono un elemento portante – scorrono ampie e lente come i fiumi, i tre amici sono andati in cerca, senza trovarla, della conferma che l’autore di En las tiendas griegas è Jorge Washington Noriega, altro vecchio amico ormai defunto, figura carismatica ispirata da quello che Saer considerava il suo maestro, ovvero Juanele L. Ortiz, poeta grandissimo ma quasi segreto; uno degli enigmi resta così senza soluzione, come pure quello che riguarda la sorte di El Gato (fratello gemello di Pichón) e della sua innamorata Elsa, inghiottiti per sempre dalle sabbie mobili della dittatura e protagonisti di Nadie Nada Nunca, romanzo che idealmente precede L’indagine e ne annuncia i delitti attraverso una strage di cavalli senza spiegazione.

Nemmeno la paternità di Morvan verrà davvero chiarita (suo padre è il militante comunista che l’ha allevato, oppure l’ufficiale della Gestapo con il quale sua madre è fuggita?), ma del killer delle vecchiette sapremo finalmente il nome, con tanto di spiegazione psicanalitica acclusa, alla fine del racconto di Pichón… Oppure no? Perché c’è un’altra possibilità, suggerisce Tomatis, fornendo una sua interpretazione della storia agli amici; una nuova e convincente soluzione dell’enigma (quella, in un certo senso, che un lettore attento potrebbe divertirsi a elaborare alla fine di un romanzo, “riscrivendolo” secondo il proprio punto di vista) si affaccia così nelle ultime pagine, mentre Morvan sfoglia il suo libro di mitologia che contiene, da tempo infinito, tutti i mostri, tutto il sangue, tutte le passioni. E può darsi (oppure no) che sia quella giusta, perché, come Saer tenta di dirci in ogni pagina della sua opera, appoggiandosi a una scrittura luminosa, lenta e piena di dettagli, incredibilmente vicina alla perfezione, una storia è già vera per il semplice fatto di essere raccontata, e il suo compito è aggiungere peso, densità e senso a una realtà sfuggente, che va affrontata interrogandola di continuo con gli strumenti dell’arte.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre 2014