lunedì 29 gennaio 2018

Anniversari e addii: Nicanor Parra


Nicanor Parra


Nicanor Parra: vado e torno

Nel suo discorso di inaugurazione della Fiera del Libro di Santiago de Chile del 2010, Sebastián Piñera (allora al suo primo mandato, e oggi nuovamente eletto Presidente della Repubblica) fece omaggio ai presenti di uno dei suoi celebri strafalcioni, o gaffes, o stupidaggini senza perdono, definiti con apposito neologismo piñericosas. Nel ricordare i grandi poeti cileni del presente e del passato – un’impressionante parata di nomi noti in tutto il mondo, da Neruda a Mistral, da Huidobro a de Rokha – incluse nella schiera dei defunti anche Nicanor Parra, che era invece vivissimo e ancora attivo, sia pure nella lontana solitudine di Las Cruces, un paesetto di duemila abitanti in riva all’oceano, dove si era ritirato da diversi anni.

Più che centenario (era nato nel 1914 a San Fabián de Alico, sulla cordigliera andina), ormai fragilissimo ma lucido fino alla fine, Parra è morto invece il 23 gennaio di quest’anno ed è stato sepolto in forma privata nel piccolo cimitero di Las Cruces, salutato dai figli, da molti nipoti, dagli amici e anche da Michelle Bachelet, presidente in carica fino a metà marzo. Nei due giorni precedenti, però, le istituzioni, il governo e gli abitanti di Santiago si sono congedati dal poeta in modo ben più solenne ed ufficiale, con due giorni di lutto nazionale, una veglia prolungata nella Cattedrale Metropolitana (luogo bizzarro, per qualcuno che diceva di sé: “Sono ateo, grazie a Dio”) e una schiera di personalità, compreso quel Piñera che lo aveva prematuramente “ucciso”. Il tutto, come sarebbe probabilmente piaciuto al defunto, tra molte polemiche e qualche sberleffo postumo: per poco, infatti, i parenti non si sono portati via la bara perché le autorità ecclesiastiche si rifiutavano di adottare come musica di accompagnamento le canzoni di Violeta Parra, amatissima sorella minore di Nicanor; sul feretro, inoltre, insieme a una vecchia coperta patchwork cucita in anni lontani dalla sarta Rosa Sandoval, madre degli otto fratelli Parra, è stato appoggiato un cartellino con su scritto “Vado e torno”. Un cartellino che ha una storia, naturalmente, perché fa parte di un’opera di Parra intitolata El pago de Chile ed esposta per la prima volta nel 2006, con grande scandalo, nel Museo de la Moneda: un enorme crocifisso vuoto su cui è applicato un cartiglio con la frase Voy y vuelvo, e dietro il quale penzolano (appese o impiccate?) le immagini dei presidenti cileni.

Nemico degli omaggi e delle celebrazioni inutili, ormai circondato da un vero e proprio culto del quale non poteva che ridere, nel corso della sua lunga vita Parra aveva fatto di tutto per demolire la solennità e l’autoreferenzialità della poesia ufficiale, conducendo per anni una sorta di personale “guerra fredda” con Pablo Neruda, spingendosi sempre più lontano e sperimentando di continuo, come del resto fecero, per altre vie, poeti cileni altrettanto eterodossi, dal quasi sconosciuto e singolarissimo Juan Luis Martínez a Enrique Lihn (del quale, tra l’altro, ricorre quest’anno il trentennale della morte). Proprio con Lihn e Jodorowsky, nel 1952 Parra aveva realizzato una serie di interventi riuniti sotto il nome di Quebrantahuesos (Spezzaossa), occupando i muri di vari luoghi di Santiago (per esempio della calle Bandera, di fronte al Tribunale) con testi creati utilizzando ritagli di giornali: un’opera di cui restano solo fotografie incluse nell’unico numero della rivista Manuscritos, del 1975.

Più tardi, nel 1966, Parra avrebbe cominciato a pubblicare i suoi famosi Artefactos, veri esempi di poesia visuale, come una serie di cartoline con testi, immagini, slogan, frasi in cui abbondano lo scherzo, le parole “volgari”, le beffe, gli attacchi alla Chiesa e al potere, leggibili in qualsiasi ordine e contenuti in una scatola; nel 1970, poi, prese ad alterare l’ortografia e la punteggiatura, adottando segni e abbreviazioni che sembrano anticipare il linguaggio contratto e sintetico degli SMS. Un passo in più sulla strada di quella che l’autore chiamava “antipoesia”: non una scuola, non una tendenza letteraria o una bandiera, quanto un modo di vedere il mondo e l’arte, sull’onda di una continua e imprendibile ribellione, ma anche di una vita singolare e fuori dagli schemi.

Primogenito di una famiglia povera ed errante (il padre cambiava spesso mestiere e città), Parra fu l’unico dei suoi fratelli a studiare e a laurearsi in matematica e fisica, lavorando per mantenersi, finché nel ’43 ottenne una borsa di studio per un dottorato negli Stati Uniti; nel ’49 un’altra borsa gli permise di frequentare l’università di Oxford per due anni, e per quarant’anni fu professore di fisica all’Università di Santiago: uno scienziato, dunque, e di un certo prestigio. Ma prima di tutto un poeta, che aveva cominciato a scrivere i primi versi quando ancora frequentava il liceo, e che nel 1937 aveva esordito con un primo volume per nulla “antipoetico” e vagamente ispirato a García Lorca, Cancionero sin nombre, che in qualche modo si opponeva all’ermetismo , al surrealismo, al soggettivismo allora in voga; una prima tappa di breve durata, destinata a lasciare il posto a una poesia diversa da tutte le altre, secca, aspra, sarcastica, che fa largo uso dell’umorismo e dell’assurdo, passando di frequente dal verso libero al ritmo e al metro del verseggiare popolano e popolare, lo stesso che Violeta inseguiva nella sua musica. Era, quello di Parra, un tentativo di fare poesia con parole comuni e chiare, con persone, voci, oggetti di tutti i giorni, cercandola dove nessuno l’aveva cercata, togliendole sacralità, annullando le distanze tra verso e vissuto, insomma calandola interamente nella vita.

A partire dal suo secondo libro Poemas y antipoemas, del 1954, fino al ventiquattresimo e ultimo Antiprosa, del 2015, l’opera di Parra è una fonte continua di soprese, provocazioni, esperimenti, passaggi dall’avanguardia alla più cilena e maliziosa della cuecas: quasi un succedersi di piroette e balzi destinati a sottrarlo alla sistematicità dell’approccio critico (e lo sa bene Ignacio Echeverría, il critico spagnolo che ha curato per Lumen l’edizione delle sue opere complete). E altrettanto mutevole era stata, negli anni, la sua posizione politica, mai veramente definita: di sinistra in gioventù, sinceramente democratico ma deluso da tutto durante la maturità, capace di prendere il tè con la moglie di Nixon negli anni ’70, nel corso di un incontro ufficiale tra poeti a Washington (un episodio che non gli venne mai perdonato), apertamente critico nei confronti della dittatura ma con scarsa simpatia per Unidad Popular, e, per una buona metà della sua vita, fermamente ecologista e ossessionato dalla distruzione della natura e del pianeta.

Che lo volesse o no, per ironia della sorte e nonostante l’isolamento volontario in una casetta spartana e remota, l’incapacità di “parlare sul serio” e la dichiarata vocazione di guastafeste, Parra ha finito comunque per condividere lo stesso pantheon degli autori che non gli piacevano e che contrastava: un poeta carico di onori (“È la prima volta che ottengo un premio immeritato” disse, quando gli fu assegnato il Cervantes, “e spero che non sia l’ultima!”), per il quale Harold Bloom reclamava il premio Nobel e che Roberto Bolaño idolatrava in modo quasi adolescenziale. Un poeta ultracentenario che non ha mai smesso di scrivere della morte, soprattutto della propria, dettando in una lunga poesia i suoi desideri per una eccentrica veglia funebre, per concludere infine che, una volta chiusa la sua sepoltura, tutti potranno fare quel che vogliono, ridere, piangere, ballare, ricordandosi però di mantenere un minimo di compostezza se urtano una lapide perché “in quel buco nero vivo io”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2018

martedì 23 gennaio 2018

Da leggere: Juan Marsé

Juan Marsé


Ultime sere con Teresa

Autore ampiamente tradotto in Italia, dove sono apparsi presso case editrici diverse almeno nove dei suoi quindici romanzi, Juan Marsé è tuttavia poco noto al pubblico italiano, come del resto lo sono, con rare eccezioni, gli scrittori spagnoli della sua generazione, protagonisti negli anni ’50 e ’60 di un rinnovamento profondo della letteratura nazionale. Non c’è da stupirsi, allora, che un vero classico contemporaneo come Ultime sere con Teresa (Bompiani, pag. 430, e. 19) appaia nel nostro paese a oltre cinquant’anni dalla prima edizione spagnola del 1966, preceduta nel 1965 dall’assegnazione del Premio Biblioteca Breve per la narrativa inedita istituito dal geniale editore Carlos Barral: un riconoscimento importante per l’allora trentacinquenne scrittore, che all’epoca ebbe seri problemi con la censura (Ultime sere con Teresa corse qualche rischio e nel 1973 un capolavoro come Adiós muchachos fu pubblicato in Messico per aggirare il divieto franchista), ma la cui lunga e fortunata carriera è stata coronata, all’inizio del nuovo secolo, da un più che meritato Premio Cervantes.

Considerato una pietra miliare della narrativa spagnola, il romanzo è anche la prima opera davvero importante del barcellonese Marsé, che nei primi anni ’60 aveva pubblicato due libri in cui già si delineavano temi e personaggi poi sviluppati con ampiezza e quasi sempre collocati in un territorio mitico e insieme reale e riconoscibile, “la Barcellona spaventata, schiacciata e grigia del dopoguerra”. Nella parte allora più povera e remota della città, il distretto di Horta-Guinardó, Marsé aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza, età della vita che tornano da protagoniste in molti suoi romanzi, ed è lì che comincia la storia di Manolo detto Pijoaparte (pijo per la sua pretesa di eleganza, a parte perché è un tipo a sé), ladro di motociclette e truffatore, bello, senza scrupoli ma pieno di sogni romantici.

Manolo è un xarnego, cioè un immigrato che non parla catalano, e basta questo termine dispregiativo e caduto in disuso a situare il romanzo negli anni ‘50, un periodo che Marsé – rientrato nel 1960 da Parigi, dove si era iscritto al partito comunista – non aveva scelto a caso. In quegli anni, infatti, una vasta immigrazione interna aveva garantito alla cintura industriale barcellonese un costante afflusso di mano d’opera a basso costo, facendo crescere un immenso quartiere di baracche sul Monte Carmelo, tra ripide strade fangose e vecchi orti. Il murciano Manolo è tra gli emarginati che ci vivono (e che oggi, ha fatto notare Marsé in un’intervista, sarebbero marocchini, pachistani o latinoamericani) e non smette di pensare a come uscirne, magari seducendo e sposando una ragazza capace di garantirgli il futuro; una come Teresa, per esempio: ricca, bionda, bella, inconsapevole delle proprie contraddizioni di giovane borghese viziata eppure idealista e ribelle, legata agli studenti di buona famiglia che, proprio in quel 1957, organizzano a Barcellona una protesta subito repressa e si dichiarano di sinistra, anticipando i fasti della futura gauche divine.

Teresa, convinta che Manolo sia un operaio impegnato in politica, ne resta ammaliata e lui non la disillude; si innamorano e, per lo spazio di un’estate, rappresentano l’uno per l’altra l’incarnazione delle rispettive fantasie, circondati da un coro di comprimari ostili o perplessi: gli amici universitari (ovvero i “signorini di merda”) che trattano Manolo con paternalismo insultante; la gente del Carmelo, crudamente descritta; la famiglia di Teresa, simbolo dei pregiudizi dell’alta borghesia locale, endogama e classista, pronta a combinare lucrosi affari col regime. Una storia d’amore che non può finir bene e che diviene il pretesto per un ritratto corrosivo della società catalana della posguerra, in cui spazi sociali separati e incomunicanti si identificano con gli spazi urbani disegnati dai passi di Manolo, o cancellati dalla velocità delle moto rubate, spinte al massimo su strade fiancheggiate da paesaggi in fuga.

Per nulla intaccato, anzi arricchito dal trascorrere del tempo, che ne ha messo in risalto la qualità letteraria, il romanzo rivela il rapporto difficile di Marsé con la catalanidad (“Per me è lo stesso sentirmi spagnolo o catalano, nessuna delle due cose mi riempie di entusiasmo e ancora meno di fervore patriottico. La patria è un pericoloso artefatto sentimentale di cui sono stufo”, ha dichiarato di recente), e l’affacciarsi di uno sguardo sarcastico, pessimista e disilluso – coniugato però a un’intensa empatia nei confronti dei vinti e degli esclusi – sulla società e sulla politica, che in Ultime sere con Teresa prende atto del modo forse ingenuo e velleitario in cui si comportò, allora, la sinistra intellettuale. Più di ogni altra cosa, però, è la testimonianza del nascere di un’avventura estetica e letteraria fuori del comune, che unisce la fedeltà alla memoria intesa come fonte di senso, di coscienza e di conoscenza (un deciso rifiuto “all’obbligatoria amnesia dello sconfitto”, scrive Vázquez Montalbán nella postfazione) alla fiducia nell’immaginazione, e la capacità di osare nuove forme narrative a quella di reinventare la tradizione.

Fin dall’inizio era evidente che il giovane Marsé (grande lettore e precoce aspirante scrittore, anche se a tredici anni aveva lasciato la scuola per lavorare in un laboratorio artigiano) aveva seguito da vicino i dibattiti e le polemiche di quegli anni, e che, a partire dalla sua condizione di proletario letterato e autodidatta, andava lentamente tirando le proprie conclusioni, pronto a spiazzare e a confondere chi lo avrebbe visto volentieri come scrittore-operaio votato a una narrativa testimoniale. Se nel primo romanzo appare vicino allo stile oggettivo propizio alla “sparizione dell’autore” auspicata da Josep Maria Castellet nel suo saggio L’ora del lettore, nel secondo sembra già prendere le distanze dal realismo sociale allora in voga, finché, in Ultime sere con Teresa, opta per un cambiamento radicale e, come nel romanzo ottocentesco di cui si dichiara grande ammiratore, impone un’onniscienza autoriale quasi dickensiana, riassumendo, anticipando, elargendo giudizi e prendendo in giro Castellet attraverso il “prezioso ridicolo” Ricardo Borrell, studente dell’entourage di Teresa, che commenta con devozione il saggio del critico.

Nei romanzi successivi Marsé tenterà altre strade, proponendo voci narranti diverse, tornando spesso alla prima persona oppure aggirandola, ma sviluppando comunque un universo narrativo ben definito e connotato da un umorismo ricco di sfumature, dall’ironia sottile alla parodia esplicita, lasciandosi felicemente influenzare da un’accanita cinefilia e senza smettere di sperimentare con libertà e di cercare, correggendo all’infinito, la parola giusta. E libero è il suo uso dei generi letterari, citati per spezzarne le regole e mescolarli a echi della letteratura “alta”, come in Ultime sere con Teresa: Pijoaparte potremmo incontrarlo in un romanzo picaresco, non fosse per il suo fondo di malinconia, e allo stesso tempo ha qualcosa degli eroi di Stendhal o di Balzac, che cercano di ascendere socialmente attraverso la seduzione; il feuilleton affiora nel sospetto di Manolo d’essere figlio di un misterioso gentiluomo inglese, ma anche in certe coloriture melodrammatiche che presiedono a morti precoci e tradimenti, e il fantasma del romanzo sentimentale viene messo in fuga ogni volta che osa affacciarsi. Perché Ultime sere con Teresa è una storia d’amore, certo, scritta proprio negli anni in cui i romanzetti della Liala spagnola, Corín Tellado, vendevano milioni di copie e la rivista Hola!, pioniera della “stampa del cuore”, consolidava il suo successo; e tuttavia Marsé sembra alludere al linguaggio e agli stereotipi del “rosa” solo per farli a brandelli, cancellando ogni possibilità di lieto fine e chiarendo che il vero tema del romanzo non è la passione amorosa, ma l’equivoco, la disillusione, la fine irrimediabile della giovinezza. 

*** 

Post Scriptum 

L’edizione italiana di Ultime sere con Teresa possiede due pregi che si spera non sfuggiranno ai lettori: il primo è la presenza di Hado Lyria, alias Myriam Sumbulovitch, nata a Barcellona ma milanese da tempo, traduttrice d’eccezione, poetessa squisita, pittrice e intellettuale di valore che ha dato un grande contributo alla diffusione della letteratura spagnola in Italia. Sua è la voce italiana di Manuel Vázquez Montalbán, del quale Hado Lyria è stata amica per tutta la vita, e sua è anche quella di Juan Marsé: nessuno meglio di lei poteva cogliere tutte le sfumature del suo linguaggio vario e ricco. Il secondo “tesoro” è una celeberrima fotografia – purtroppo assai maltrattata nella copertina italiana – ripresa dall’edizione originale del 1966, dove la modella Susan Holmquist evoca Teresa al volante della sua spider. A scattarla fu Oriol Maspons, che insieme a Joan Colom, Xavier Miserachs, Leopoldo Pomés e altri, apparteneva alla «Nova avantguarda», un gruppo di brillantissimi fotografi degli anni ’50 e ’60: le sue opere sono oggi riunite nel Museu Nacional d’Art de Catalunya, ma anche esposte al MoMa.

Accanto ai pregi, però, vanno citate anche le sciatterie stipate nelle ventisette righe complessive delle due alette, in cui si dice che il romanzo si svolge nel 1965, invece che tra il giugno del ’56 e il settembre del ’57 (anno delle rivolte studentesche barcellonesi), che il protagonista si chiama Ricardo (nome falso con cui Manolo el Pijoaparte si imbuca a una festa e che usa per un esiguo numero di pagine), che Mario Vargas Llosa è uno scrittore spagnolo (definirlo così sembra un po’ audace, anche se nel 1993 ha preso la cittadinanza spagnola) e che Vázquez Montalbán appartiene alla Generazione del ’50, mentre di solito lo si inserisce in quella del ’68 (se si ricorre a queste categorie, discusse quanto usate, forse è meglio esseri precisi). Può sembrare pignoleria, ma viene inevitabilmente da pensare che l’editoria italiana non sia più quella che era. 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2018