martedì 25 ottobre 2016

Da leggere: Tre autori, due madri


Alberto Chimal 



Alberto Laiseca 

                             

 

Tre autori, due madri 

I nomi di due scrittori latinoamericani importanti e insoliti come l’argentino Alberto Laiseca e il messicano Alberto Chimal probabilmente non dicono molto ai lettori italiani, che hanno a disposizione solo un paio di traduzioni dovute alla competenza e all’impegno di due piccole case editrici: Arcoiris, che nel 2013 ha pubblicato Avventure di un romanziere atonale di Laiseca, e Bibliofabbrica, nel cui catalogo si può trovare Gregge di Chimal, una raccolta di racconti uscita nel 2007. E non c’è dubbio che questa scarsa presenza sia uno dei tanti peccati per nulla veniali della nostra editoria, la cui accresciuta attenzione per gli autori di lingua spagnola sembra, a volte, favorire misteriosamente testi piuttosto banali.

Oggi, però, c’è un’occasione in più per familiarizzare con un autentico monumento come il grandioso, eccessivo, stravagante Laiseca, che in settantacinque anni di vita e oltre cinquanta di scrittura ha prodotto romanzi fuori del comune come El jardín de las máquinas parlantes, La puerta del viento e Los sorias (secondo Ricardo Piglia “il migliore romanzo argentino dopo I sette pazzi di Roberto Arlt”), e come il più giovane Chimal, narratore singolare che nei suoi racconti ci restituisce una quotidianità resa inquietante dal progressivo, quasi sommesso, innesto di elementi fantastici.

È appena arrivato in libreria, infatti, La madre e la morte/La perdita (pag. 56, e. 23,50), che l’editore Logos ha acquistato dal Fondo de Cultura Economica, casa editrice messicana dalla lunga storia, fondata nel 1934 e tutt’ora di proprietà statale, nel cui vasto catalogo sono via via apparsi tutti i nomi più importanti della letteratura iberoamericana. Un libro a tripla firma e con due copertine, che contiene un racconto di Laiseca, La madre e la morte, elaborato a partire dalla tenebrosa novella di Andersen Storia di una madre, e uno di Chimal, La perdita, entrambi dedicati al tema della lotta contro la morte di una madre che ha perso un figlio, ed è disposta a tutto pur di riaverlo indietro.

La terza firma è quella di un illustratore argentino non ancora quarantenne e davvero prodigioso, Nicolás Arispe, coautore a tutti gli effetti di queste narrazioni imparentate con la letteratura gotica e le antiche ballate popolari, fiabe nere e senza tempo, e tuttavia profondamente attuali; benché Laiseca e Chimal non facciano esplicito riferimento a tragedie riconoscibili e presenti, basta aprire il libro per far nascere accostamenti inevitabili con le Madres e Abuelas argentine in cerca di figli e nipoti perduti (i bebès robados dalla dittatura militare), con le madri di Aleppo, con quelle del collettivo Las Rastreadoras, formato nel 2014 da donne di Sinaloa i cui figli sono svaniti nel nulla, e che li cercano senza farsi illusioni, scavando nei campi e nei terreni abbandonati dove, nel giro di qualche anno, hanno ritrovato una cinquantina di corpi da identificare e seppellire.

L’illustratore ambienta La madre e la morte in luoghi devastati da una guerra qualsiasi, e colloca La perdita sullo sfondo di un colossale terremoto, costruendo con inchiostro e pennino minuziosissime immagini in bianco e nero, che a tratti richiamano quelle celebri di Posadas (l’inventore di una classica icona messicana, la Muerte elegante) e aggiungono ai testi infiniti dettagli e metafore. Narratore a sua volta, Arispe interpreta e arricchisce il crudele racconto di Laiseca, spoglio e diretto, in cui la madre intraprende un viaggio verso il centro del deserto (dove, “come tutti sanno”, abita la Morte) che le costerà sofferenza e mutilazioni, per ottenere in cambio soltanto il cadavere del figlio. E la durezza del racconto non è attenuata dalla scelta di attribuire fattezze animali ai personaggi, a esclusione della “rapitrice”, una Morte vagabonda e scheletrica in abiti da soldato; scheletri sono, a loro volta, i protagonisti di La perdita, madre e figlio riuniti da un dio mostruoso che risponde beffardamente alla preghiere materne, restituendole un corpo putrefatto nel quale solo l’anima è viva (alla fine la donna lo brucerà pietosamente, e dalle ceneri sparse avrà origine la Tristezza). Le due storie arriveranno a congiungersi grazie a un’immagine centrale che le conclude entrambe, con le madri sconfitte e contemplate da una lepre, simbolo diabolico nei bestiari medioevali, ma in altre culture legata alla luna – e quindi alla rinascita –, alla fertilità, alle dee madri, e, nella Grecia antica, sacra ad Afrodite e suo figlio Eros. Una speranza, insomma, alla fine di storie disperate, e l’affacciarsi di una possibile elaborazione del lutto.

Splendide e leggibili come testo parallelo, le immagini accompagnano senza offuscarli i testi di due grandi autori dai percorsi differenti e dalle differenti intenzioni. Anche stavolta Laiseca riafferma, reiventando Andersen, la massima paradossale enunciata nel suo saggio Por favor ¡plágienme! (“Perché creare, se esiste il plagio?”), all’origine delle molte reminiscenze di Poe, Lovecraft, Meyrink, rintracciabili nei suoi scritti, e di una bizzarra riscrittura del Dracula di Stoker; allo stesso tempo, con La madre e la morte conferma tanto la sua idea della paura come strumento “pedagogico”, che stimola l’immaginazione e aiuta ad affrontare la realtà, quanto il peso di una sorprendente vocazione di narratore orale, che per qualche anno ha ri-raccontato storie del terrore per una tv argentina via cavo: l’idea del libro, infatti, è nata quando Arispe ha ascoltato lo scrittore che narrava a modo proprio la novella di Andersen, rendendone più aguzzi gli spigoli e più cupe le tinte.

Quanto a Chimal, l’inclinazione per il mito e una scrittura intensamente poetica modulano un racconto archetipico e fitto di simboli, già apparso in una sua antologia di qualche anno fa, El País de los hablistas, collage di dieci magnifiche “leggende” su cui l’autore sembra fondare una personale cosmogonia. Ed è proprio Chimal ad aver dato la risposta migliore a chi gli ha chiesto se il meraviglioso, fosco e coltissimo volume illustrato da Arispe fosse o no destinato ai più piccoli (una domanda inevitabile, trattandosi di un album che il FCE ha collocato in una collana di specialissimi titoli per l’infanzia) “Questo non è tanto un libro per bambini – ha detto lo scrittore messicano, – quanto un libro per lettori”.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta 2 nell’ottobre del 2016

venerdì 21 ottobre 2016

Anniversari e addii: Violeta Parra



Violeta Parra


Violeta Parra, poeta

A pochi passi da Plaza Italia, nel centro di Santiago de Chile, c’è un edificio basso e imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra tagliata a metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il Museo Violeta Parra, che, inaugurato nel 2015, a partire da ottobre sarà il fulcro di almeno trecento iniziative nazionali organizzate in vista del 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il fratello Nicanor, poeta tra i più grandi, chiama “Viola piadosa, admirable, volcánica”, nei versi del lungo poema Defensa de Violeta Parra, oggi incisi lungo la rampa d’ingresso al museo.

Non va dimenticato, però, che in una delle strofe della Difesa (pubblicata per la prima volta nel 1958, e apparsa in una versione ampliata nel 1969), aggiunte dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche “Viola funebris”, aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario, quello della morte di Violeta, suicida con un colpo di pistola nel febbraio del 1967; tra la venuta al mondo e la scomparsa di una donna straordinaria corrono dunque solo cinquant’anni, durante i quali ha preso vita un’opera vastissima che l’ha resa celebre non solo nel suo paese, ma in tutta l’America latina e in Europa, dove è vissuta per alcuni anni tra Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre nazioni per portarvi la sua musica.

È stata davvero lunga la strada percorsa dalla bambina nata in una famiglia assai povera (dieci figli, una madre sarta; un padre stroncato dalla tubercolosi e dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna ed emigrata nei quartieri popolari di Santiago, dalla giovane donna sposata con un ferroviere comunista e incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata, dalla piccola cantora che si guadagnava la vita esibendosi per strada e nei bar. E il Museo, insieme alla Fondazione che porta lo stesso nome, dà conto di questo percorso tumultuoso accostando immagini e suoni, documenti, oggetti, musica (una sala è occupata da un “bosco sonoro” dove, appoggiando l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono ascoltare le canzoni di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri, le ceramiche, le sculture in filo di rame e soprattutto le stupende arpilleras (grandi arazzi di juta ricamata) che “la Viola” produceva a getto continuo e che nel 1959 espose a Parigi, in un padiglione del Louvre.

Se quella di artista visuale è una delle meno note tra le tante identità di Violeta, più che celebre è quella di musicista, compositrice e cantante, nonché di folclorista che ha registrato almeno 3000 canti popolari del suo paese, e che nutriva il sogno di offrire a tutti il frutto del lavoro suo e di altri nell’ormai leggendaria Carpa de la Reina, un tendone da circo alla periferia di Santiago: un progetto difficile, osteggiato da molti, che le costò duro lavoro e amare delusioni, e finì per essere lo scenario del suo congedo definitivo. Ancor meno conosciuta della Violeta pittrice e ricamatrice è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi raccolti finalmente in Poesia, un volume di oltre 400 pagine curato da Paula Miranda, professore presso l’Università Cattolica del Cile e già autrice nel 2013 di un saggio notevole, La poesía de Violeta Parra.

Presentato il 4 ottobre presso il Museo per dare inizio all’anno parriano, il libro include, oltre ai contributi di grandi poeti e scrittori che la stimarono e le furono amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i testi delle 118 canzoni composte da Violeta (tra esse, alcune varianti sconosciute di Gracias a la vida, la più famosa e la più fraintesa), ma anche molti testi inediti e un’autobiografia in versi intitolata Decimas, scritta tra il ’54 e il ’58 per incitamento di Nicanor. Pubblicata due anni dopo la morte di Violeta, Decimas utilizza un metro arcaico e tipico del folclore, che incatena strofe di dieci versi ottosillabi, in rima e con l’obbligo di trattare un medesimo argomento per ogni strofa. Un esercizio complicato, che Violeta praticava con meravigliosa naturalezza, fondendo poesia popolare e letteratura colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la strada alle sue creazioni musicali più significative, come le canzoni splendide e a volte strazianti riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e proprio congedo, prima del suicidio già altre volte tentato).

Proprio dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più che mai incontro: dotata di innumerevoli talenti e di energia spropositata, orgogliosa, iraconda e autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor, che “non si veste da pagliaccio, non si compra e non si vende, parla la lingua della terra”. Ma anche qualcuno che certi settori della società cilena di allora, profondamente classista e oligarchica, e della sua cultura ufficiale, elitaria e votata al mantenimento dello status quo, non sapevano né potevano accettare, e non solo per via delle posizioni politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano indignazione, dolore, rabbia e ironia. Se per una parte del Cile “la Viola” è stata troppo a lungo una nemica alla quale negare sostegno e riconoscimento – uno dei primi gesti della dittatura di Pinochet fu quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare di Santiago –, lo si deve anche al suo rigore, alle sue scelte di vita, al suo essere incredibilmente in anticipo sul proprio tempo.

Il suo approccio al folclore, per esempio, non era certo quello più diffuso e ufficialmente accettato, che considerava cultura e usanze del popolo come un pittoresco cadavere da imbalsamare per garantirne l’incorruttibilità, pronto per essere esibito in occasione di qualche festa patronale. Invece lei, la Viola, non intendeva semplicemente “salvare” la musica e la cultura popolare, anche se dedicò tempo ed energia a sottrarre all’oblio canzoni, leggende, musiche raccolte nei suoi infiniti viaggi attraverso il Cile; quello che voleva era rivitalizzare e usare materiali e forme del folclore, come nota Arguedas, “nel modo più lucido e aggressivo”, per creare qualcosa di originale che parlasse a tutti, uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse contaminazioni continue tra mondo contadino e urbano, tra “alto” e “basso”, tra vecchio e nuovo, in modo da evitare che ogni diversità venisse cancellata dall’imposizione di un modello culturale unico.

Il tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più grande, era però il suo modo di essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa, insofferente di ogni costrizione – lo testimonia, tra le altre cose, la sua intensa e instabile vita amorosa, mai sacrificata alla strada che vedeva tracciata davanti a sé –, lontana dai modelli di femminilità domestica e conciliante proposti/imposti in quell’epoca, e non solo in America Latina. Sono le donne del popolo, impegnate come sua madre Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una sopravvivenza difficile, quelle cui Violeta dà voce e che incarna scegliendo panni modesti, ignorando la moda, rifiutando il trucco e le apparenze, vivendo in case dal pavimento di terra battuta, scrivendo canzoni e cantandole, trovando le parole per raccontarsi, ricamando, modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme espressive femminili in arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta, sempre lontana da ogni compiacenza o criterio commerciale.

“Uccello in volo che nessuno può fermare”, pronta a correre i rischi che la sua etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le sue scelte audaci comportavano, logorata infine dall’enorme stanchezza e dallo sconforto che colgono il combattente solitario e ostinato (troppo facile ricondurne il suicidio a un amore deluso, al fallimento della Carpa, alle pressioni dei creditori, piuttosto che a un’ultima sfida), Violeta Parra è oggi onorata da un paese che l’ha misconosciuta a lungo, eppure non rischia di trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi imprigionare nel Museo che giustamente la celebra: la qualità eversiva della sua opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del tutto metabolizzata neppure adesso, nel tempo del suo centesimo compleanno.

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’ottobre del 2016

lunedì 10 ottobre 2016

Da tradurre: Roberto Bolaño



Roberto Bolaño


L’eredità di Roberto Bolaño, tra recuperi e polemiche 

La discussione sull’opportunità di pubblicare gli inediti di uno scrittore defunto, lasciati nel cassetto o rinnegati, è così antica e logora che sembra inutile riprenderla: eppure, dopo ogni ritrovamento di qualche importanza, sull’argomento non manca di rinascere un certo dibattito. Chi è favorevole tirerà fuori l’emblematico caso dei manoscritti di Kafka, salvati da Max Brod, o quello dei Papeles inesperados di Cortázar, portati meritoriamente alla luce da Aurora Bernárdez. Altri sosterranno che i testi dovrebbero essere a uso esclusivo degli studiosi; altri ancora chiederanno rispetto per la memoria e la volontà degli scomparsi, alla cui gloria le opere inconcluse o mal riuscite non aggiungono nulla, e porteranno esempi opposti: le scelte della vedova di Borges, Maria Kodama, che fa circolare rimasugli di ogni tipo, comprese le sbobinature di quattro conferenze sul tango del 1956, piene di banalità e di cose già dette, apparse in giugno per l’editore Sudamericana; oppure la fedeltà di Mercedes Barcha, che per non tradire la decisione del marito García Márquez rifiuta di dare alle stampe En agosto nos vemos, romanzo rimasto inedito perché l’autore lo giudicava insoddisfacente.

A simili querelles, però, sembra estraneo il mercato editoriale, che da tempo propone una valanga di reperti, accompagnati da fabulazioni sul recupero miracoloso di una merce il cui valore commerciale non sempre è pari a quello letterario, e che spesso si trova al centro dell’avidità incrociata di editori ed eredi. Può accadere, così, che autori non più in vita producano un congruo numero di novità, come sta succedendo a Roberto Bolaño, scrittore grandissimo e santo laico di un culto planetario, che alla sua morte ha lasciato sia testi inediti ma conclusi, da lui stesso destinati alla pubblicazione, sia una montagna di pagine prodotte in trent’anni di scrittura e già esibite nella mostra “Archivo Bolaño 1977-2003”, inaugurata a Barcellona nel 2013. Da questo materiale – che, dice il critico Ignacio Echevarría, amico di Bolaño e curatore di alcuni suoi titoli postumi, “possiede un interesse in un certo senso archeologico, perché consente di portare allo scoperto gli strati e le fondamenta sepolti sotto l’opera pubblicata per volontà dello scrittore” – sono già stati tratti otto titoli tra narrativa, saggistica e poesia, e altri se ne annunciano.

Il 3 novembre, infatti, esce in America latina El espíritu de la ciencia ficción, che verrà poi presentato alla Fiera del libro di Guadalajara: un romanzo dei primi anni ottanta, offerto al pubblico dalla Editorial Alfaguara, oggi proprietà del colosso Penguin Random House che da anni fa incetta di marchi spagnoli e latinoamericani e che, in accordo con la vedova Carolina López e il suo agente Andrew Wylie, a marzo ha portato via l’intera opera di Bolaño, inediti inclusi, ad Anagrama, il cui direttore Jorge Herralde è stato il primo a credere nello scrittore cileno. Uno strappo al centro di vivaci polemiche, non ultima quella scatenata da Echevarría con un articolo apparso alla fine di settembre, che critica la gestione di López e interpreta la sua rottura con Herralde e con quanti furono vicini allo scrittore, alla luce di una vera e propria “cancellazione” degli ultimi anni di Bolaño, quelli in cui ebbe come compagna un’altra donna.

Al netto dei veleni e delle perplessità, il libro è comunque attesissimo, e il nuovo editore – che si accinge a ripubblicare in formato tascabile e in e-book l’intera opera di Bolaño – ne garantisce la compiutezza, confermata dalla firma e dalla data (1984) apposte dall’autore (ma dalle lettere indirizzate all’amico García Porta risulta che nel 1986 il romanzo non era concluso e che l’autore nutriva dubbi sulla sua riuscita, tanto da lasciarlo poi affondare tra abbozzi e brutte copie). Della storia, dedicata a Philip K. Dick, si sa soltanto che si svolge a Città del Messico negli anni ’70, e che i protagonisti ricordano quelli di I detective selvaggi, ma in versione adolescente; a concludere il testo ci sono poi alcune “lettere aperte” a famosi autori di fantascienza. Un nuovo/vecchio titolo si aggiunge così alla bibliografia bolañiana, ma anche, si è limitato a commentare Herralde, a quella assai vasta “sulle vedove degli scrittori, della quale Carolina López entrerà a far parte”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di ottobre 2016

Da leggere: Valeria Luiselli



Valeria Luiselli




Il work in progress di Valeria Luiselli

Che rapporti ci sono tra l’arte, la letteratura e i succhi di frutta? Più di uno, perlomeno a Città del Messico: al principale produttore locale di succhi e bibite, il Grupo Jumex, si devono sia la nascita di una grande Galleria alla periferia della capitale messicana, sia quella del Museo Jumex, immenso edificio ultramoderno nell’elegantissima Colonia Polanco, che presenta, oltre a una ricca collezione di opere contemporanee, mostre di importanza internazionale. Quanto alla letteratura, il suo legame con le suddette bevande è subito evidente a chiunque legga le ultime pagine del secondo romanzo di Valeria Luiselli (La storia dei miei denti, La Nuova Frontiera, pag. 185, e. 16,50, appena uscito nell’ottima traduzione di Elisa Tramontin), in cui l’autrice racconta che è stata proprio la Jumex a chiederle di scrivere qualcosa capace di collegare la Galleria alla vicina fabbrica di succhi e al desolato quartiere suburbano di Ecatepec, in cui entrambe sorgono.

Ma quello che doveva essere solo un testo da inserire nel catalogo di una mostra si è trasformato in un romanzo vero e proprio, scritto all’inizio in forma di fascicoli settimanali che un gruppo di operai della fabbrica ha letto via via ad alta voce (sul modello delle “letture da tabaccheria” in auge nella Cuba del XIX secolo), per poi discuterli e commentarli. Rivisto più volte, corredato delle foto dei luoghi dove le vicende si svolgono e di un titolo insolito, il libro è apparso nel 2013 presso Sexto Piso (editore indipendente tra i migliori dell’America latina), lasciando alquanto perplessa la critica messicana. Negli Stati Uniti, al contrario, due anni dopo critici e pubblico lo hanno accolto trionfalmente: un successo confermato da riconoscimenti importanti e perfino superiore a quello, già notevole, che il romanzo aveva riscosso in Germania.

Che in Messico La storia dei miei denti non sia piaciuto quanto all’estero, si deve forse al fatto che, dopo le lodi riservate a Carte false (a metà tra narrativa e saggistica) e al suo primo romanzo Volti tra la folla, la Luiselli ha preferito allontanarsi bruscamente da un sentiero che pareva già tracciato, per imboccare la via della sperimentazione più irriverente e spiazzare così quanti le avevano subito assegnato un posto tra le giovani scrittrici nazionali a vocazione intimista e metaletteraria, con sfumature nuove ma comunque riferibili a una tradizione consolidata.

La storia dei miei denti, invece, ha tutte le caratteristiche di un irrefrenabile sberleffo e, pur rimandando apertamente al romanzo picaresco o a certi aspetti dell’avanguardia latinoamericana degli anni ’70 (non a caso qualcuno ne parla come di un romanzo-installazione), respinge qualsiasi etichetta, sfugge a ogni categoria e pratica una libertà inventiva quasi anarchica nel narrare la storia di Gustavo Sánchez Sánchez detto Autostrada, bambino di rara bruttezza e poi custode di una fabbrica di succhi di frutta, ballerino fallito, marito infelice, fabulatore ai confini della mitomania, e infine collezionista accanito e banditore d’asta di talento, che al posto della propria irregolarissima dentatura si fa impiantare quella un po’ ingiallita della defunta Marilyn Monroe, e che in denti celebri (o presunti tali: non mancano quelli di Platone, Petrarca e Virginia Woolf) traffica con spudorata esuberanza, vendendoli grazie agli aneddoti iperbolici che inventa su di essi.

Romanzo comico, surreale, rapido, frammentario, fatto di tante piccole storie incastrate una nell’altra e di inquietanti episodi beckettiani, come quello che vede Sánchez rinchiuso nella sala di una galleria d’arte (o meglio, della Galleria), alle prese con quadri parlanti e con la crudeltà di un figlio perduto, La storia dei miei denti non esita ad affrontare un certo numero di questioni sostanziose, dal rapporto tra arte e mercato o tra artista e committente, fino a una riflessione su ciò che Sánchez chiama “i collezionabili”, ovvero l’enorme quantità di oggetti prodotti, consumati e scartati dal capitalismo maturo: una discarica planetaria in cui si può frugare all’infinito e che, tramite l’assegnazione di nuovi significati (quelli che trasformano la spazzatura in memorabilia), offre la possibilità di riciclare – cioè di vendere ancora, ricavandone altro profitto – praticamente qualsiasi cosa.

Tutti i personaggi minori del libro (sarte, negozianti, operai), portano i nomi di scrittori e artisti del presente e del passato, e accanto a quelli noti ovunque ce ne sono molti che i lettori italiani non riconosceranno, ma che tracciano una specie di mappa minima e personale della letteratura latinoamericana: una scelta che può far pensare a un gioco di società, a un ammiccamento destinato ai lettori forti, finché non ci si accorge che, così svuotata di significato, la girandola dei nomi sembra alludere con leggerezza all’autoreferenzialità della produzione culturale, e insinua che la comunità letteraria sia un mondo sconosciuto e inconoscibile, quindi irrilevante, per quanti non le appartengono.

Ad aggiungere un ultimo, speciale elemento di fascino al romanzo di Valeria Luiselli è infine il suo essere a tutti gli effetti un work in progress; confrontando la versione in lingua originale con quella in inglese o in italiano, è possibile notare numerose differenze: personaggi che cambiano nome, episodi aggiunti, eliminati o trasformati, e perfino l’apparizione di un’incantevole cronologia finale che situa nel tempo la vicenda di Gustavo Sánchez, opera della traduttrice americana Christina MacSweeney. Quasi un altro romanzo, insomma, che si sovrappone a quello immediatamente precedente, perché l’autrice approfitta di ogni passaggio a una nuova lingua per ripensare e rivedere la sua opera, in stretta collaborazione con chi la traduce: un editing costante che nasce dalla sua ossessione per la riscrittura e la correzione. E anche dalla convinzione, è lei stessa a dirlo, che avesse ragione Borges, quando sosteneva che ogni traduzione è un nuovo originale.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2016