martedì 8 dicembre 2020

Da leggere: Pedro Lemebel

Pedro Lemebel


Il giovane Lemebel

Sono passati quasi sei anni dalla morte di Pedro Lemebel, artista visuale, scrittore e soprattutto autore di cronache, forma narrativa da lui reinventata come “un insieme di ritagli, di materiali bastardi, un pastiche di canzone popolare, testimonianze e voci della strada (…) una corazza poetica davanti ai poteri della letteratura e del giornalismo”. Qualcuno che ha usato il corpo come barricata contro il potere, dinamitando una cultura trasversalmente maschilista (impossibile dimenticare le scarpe di vernice rossa dal tacco vertiginoso, posate sulla sua bara insieme alla bandiera del partito comunista) e attaccando con furia da “guerrigliera suicida” la cancellazione della memoria e il disastro neoliberista.

La sua presenza/assenza si è più che mai fatta sentire attraverso murales e scritte comparsi nelle strade di Santiago durante il cosiddetto estallido social dei mesi scorsi: una devota memoria “di strada” cui si aggiungono recenti profili biografici, nuove letture critiche della sua opera, raccolte di interviste, uno splendido documentario di Juana Reposi Garibaldi premiato alla Berlinale del 2019 e il film Tengo miedo torero, presentato quest’anno a Venezia, lodato da alcuni e considerato da altri una versione “decaffeinata” del romanzo da cui è tratto (l’unico di Lemebel, a lato di sette raccolte di cronache).

Non mancano, ovviamente, i recuperi postumi di testi inediti o poco noti, per una volta tutt’altro che inutili o deludenti: all’affettuoso libretto Mi amiga Gladys dedicato a Gladys Marín, defunta segretaria del partito comunista, è seguito due anni fa Incontables, raccolta di racconti giovanili pubblicata ora in italiano da Edicola Ediciones, (Irraccontabili, traduzione di Silvia Falorni, pp. 112, e. 15), con le stesse illustrazioni in bianco e nero dell’autoedizione in trecento esemplari del 1986, composta da sette racconti stampati su carta da pacchi e racchiusi in una scatolina di cartone da imballaggio.

Il volume include altre due storie e tre microracconti apparsi in antologie e riviste, oltre a una bella introduzione di Pía Barros, ottima scrittrice cilena fieramente femminista, che disegna il ritratto a tutto tondo di un ragazzo cresciuto in un poverissimo quartiere popolare, ovvero Pedro Mardones, giovane professore di liceo presto licenziato, presenza assidua nei laboratori di scrittura, venditore ambulante di piccolo artigianato, poeta che avrebbe rinnegato i propri versi, scrittore debuttante intento a confezionare insieme a Pía quel suo primo libro-oggetto.

Nati nella Santiago della dittatura, tra coprifuoco e repressione poliziesca, i racconti contengono già i temi, i personaggi, le voci e gli sfondi urbani caratteristici dell’opera di colui che, rinunciando al cognome paterno per adottare quello della madre, sarebbe diventato Pedro Lemebel, pronto a lanciarsi in memorabili performances e a produrre il suo primo, meraviglioso libro di cronicas, La esquina es mi corazón, nel quale, scrive Soledad Bianchi, “inaugurò uno stile letterario dal linguaggio critico, caustico e audace, creando nuove strutture a partire dal colloquiale e dal reincontro con le radici profonde della parlata popolare”.

Se la scrittura non è ancora quella sontuosa e stupefacente delle cronache, non c’è dubbio che nei racconti si intravedano il tono lirico e dolente e l’ansia di denuncia della futura proposta di Lemebel, così lontana dalla letteratura della Transizione, pronta a nascondersi “sotto il lenzuolo bianco dell’amnesia”. Passando da un Babbo Natale pedofilo a un vescovo lascivo, dal brillare di un dente d’oro nella bocca di una prostituta a una vecchia a caccia di ragazzini, dalle violenze dei militari a reazioni estreme e testarde, Irraccontabili narra con sorprendente perizia i sogni irrealizzabili dei poveri, gli adolescenti indifesi e crudeli delle periferie, i corpi logorati, gli orizzonti fangosi delle poblaciones, una quotidianità fatta di esclusione e paura. Un altro Lemebel, diverso eppure riconoscibile e non meno affascinante, che prepara l’irruzione sulla scena sociale e letteraria cilena della loca intesa come soggetto politico ed eversivo, decisa a esplorare le vie di una resistenza sempre più esplicita e rabbiosa.
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2020

Da leggere: Diamela Eltit


Diamela Eltit


La merce, dio oscuro

Una ragazza vestita di nero, armata di secchio e straccio, si inginocchia davanti a uno dei più miseri bordelli di Santiago del Cile e comincia a lavare il marciapiede. Poco prima ha letto, davanti ad un piccolo pubblico composto da prostitute, brani del romanzo che sta scrivendo (uscirà nel 1983 e si chiamerà Lumpérica), imperniato su un corpo femminile torturato ed esposto al centro di una piazza crudamente illuminata. Siamo nel 1980 e la donna si chiama Diamela Eltit, nata trent’anni prima a Santiago e membro del CADA (Colectivo Acciones de Arte), che, in una città schiacciata dalla dittatura, organizza performances provocatorie come questa, intitolata Zona de dolor. “Un gruppo interamente pensato all’interno della sinistra”, dirà anni dopo Eltit, la cui opera letteraria, da tempo considerata la più significativa, complessa e coerente del Cile contemporaneo, si radica proprio nell’esperienza fondante del CADA, stabilendo intensi rapporti con le arti visuali e restando fedele a una sorta di epica della marginalità.

Alla prima parte del romanzo corrispondono otto monologhi recitati dalla voce anonima di uno scaffalista che a poco a poco rivela il controllo cui è sottoposto, racconta l’assillo dei clienti - tra i più fastidiosi: i bambini, consumatori futuri, e i vecchi, che esorcizzano la morte con petulanza -, i turni estenuanti e i tormenti del corpo, costretto a pagare un tributo quotidiano a quell’oscura divinità che è la merce. Denso di ripetizioni, ostacolato da frequenti parentesi, a volte barocco e visionario, altre volte meditativo, il suo linguaggio si adegua al meccanismo che lo ha intrappolato, ma anche alla disintegrazione fisica e alla perdita di identità.

Nella seconda parte del romanzo tutto cambia: ai monologhi individuali si sostituisce una voce che parla a nome di un “noi” tumultuoso e contraddittorio, ovvero di alcuni impiegati del supermercato che ricoprono incarichi diversi e condividono un appartamento per far fronte alle spese, riproducendo le gerarchie, le dinamiche, gli abusi e perfino, in versione degradata e stracciona, l’estetica del luogo di lavoro. I coinquilini vogliono sentirsi, e lo dichiarano, una famiglia che dispensa calore e attenzioni, ma li vediamo via via dibattersi in un groviglio di opportunismi, intrighi, soprusi, proprio come accade tra gli scaffali o alle casse. La prosa inconfondibile di Eltit, che qui scivola per la prima volta verso un realismo grottesco, quasi espressionista, conferisce alla loro vita quotidiana tocchi di parodia esasperata e, a tratti, perfino di angosciosa comicità.

A presentarceli, uno dopo l’altro, è un rosario di lodi affettuose che, quando si affaccia il rischio di perdere lavoro e introiti, diventano minacce di espulsione e gergo osceno. Come il linguaggio, anche i corpi, consegnati per intero al mercato, consumati dalla precarietà e dal terrore di perdere quel poco che consente di sopravvivere, decadono e si corrompono: spurgano sangue e liquidi nauseabondi, oppure assorbono e sprigionano odori mefitici. E se lo spazio domestico replica la vocazione al cannibalismo di quello lavorativo, anche lingua e sintassi si adeguano a una violenza verbale che non destabilizza l’ordine dominante ma ne diventa il riflesso. Nulla, né le delazioni né la supina accettazione delle regole, potrà tuttavia salvarli dal licenziamento e dallo sfratto, a opera di quello che consideravano il loro leader e che è asceso nella gerarchia lavorativa.

Non potranno fare altro, allora, che avviarsi verso un domani ignoto, guidati da un nuovo capo (il più giovane e ribelle fra loro), che ha intenzione di strappare qualcosa al futuro. Un finale che sembra agganciarsi all’ultimo romanzo di Eltit, Sumar (2018), imperniato sulla marcia di un gruppo di venditori ambulanti esasperati dalle privazioni e decisi a rivendicare i propri diritti, e presago dell’immensa protesta iniziata in Cile nell’ottobre del 2019. I personaggi di Manodopera non sono ancora a quel punto, ma basta leggere i paratesti del romanzo (a cominciare dai versi dell’epigrafe, della poetessa argentina Sandra Cornejo: “Qualche volta, per un istante, /la storia dovrebbe provare compassione/ e metterci in guardia”) per rendersi conto che avrebbero a portata di mano una memoria sulla quale riflettere, senza nostalgia né illusioni.

I titoli della due parti del romanzo e degli otto monologhi, infatti, sono quelli di altrettanti giornali dei secoli scorsi destinati alle organizzazioni operaie, ciascuno corredato dalle date di momenti storici significativi (tra tutti, spicca Puro Chile, il combattivo giornale che accompagnò la presidenza Allende e venne chiuso il giorno successivo al colpo di Stato). È evidente che Eltit li sottopone al lettore per stabilire una tensione tra passato e presente; ma, al di là della testimonianza su un’epoca perduta, si intravede un’altra strategia: mettere in discussione il capitalismo a partire da uno scenario testuale in cui ogni piega della forma rappresenti una scelta politica.

Oggi come allora, Eltit (che è anche una brillante saggista e ha alle spalle una lunga carriera accademica) continua a dispiegare strategie narrative sorprendenti e sempre rinnovate, intrecciando un discorso sul potere e i suoi effetti sul corpo, l’identità e le relazioni, a una continua e rigorosa sperimentazione formale, e collegando quel primo audace testo ai successivi, che siano stati scritti nel clima soffocante del regime di Pinochet o durante l’eterna transizione cilena. Il primo romanzo in cui, dopo gli anni della dittatura, Eltit affronta esplicitamente la violenza di un neo-liberismo estremo quanto feroce, è Manodopera (Alessandro Polidoro Editore, pp. 160, e. 16), ora volto in italiano da Laura Scarabelli, traduttrice e acuta studiosa: il suo saggio Escenarios del nuevo milenio. La narrativa de Diamela Eltit 1998-2018 (Cuarto Proprio, 2018) tratta appunto della produzione più recente della scrittrice cilena, in cui affiorano le enormi disuguaglianze del Cile di oggi.

Apparso per la prima volta nel 2002, Manodopera ruota intorno alla rappresentazione di un immenso supermercato e della forza-lavoro che lo abita, trasparenti allegorie di una società dominata dalla collusione tra le tenaci e longeve oligarchie nazionali e i poteri globali. Se il riferimento visivo di Lumpérica era la performance, quello di Manodopera è un palcoscenico con attori terrorizzati dal licenziamento e intenti a recitare meglio che possono, tra merci scadute e rese appetibili da una segreta “cosmesi”. Un vero e proprio teatro della crudeltà, dove l’imbustatore, la cassiera o la squartatrice di polli si esibiscono con abilità da “artisti popolari”, ma anche un panopticon costantemente illuminato e sorvegliato da telecamere, supervisori, colleghi spioni in balìa di un’assoluta precarietà, che non osano concedersi il minimo gesto solidale.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2020