giovedì 21 febbraio 2019

Da leggere: Adriàn Bravi


Adriàn Bravi



Lingue e popoli di una terra remota

Sono più o meno vent’anni che Adriàn Bravi, nato vicino a Buenos Aires nel 1963 e dagli anni ’80 residente in Italia (dove fa il bibliotecario all’Università di Macerata), scrive in italiano, lingua in un certo senso ereditata, ma che, in quanto argentino di seconda generazione, nipote di emigranti marchigiani, aveva ormai perduto. Già nel 2004, tuttavia, è apparso il suo primo romanzo pensato e scritto in italiano, seguito da altri cinque, tutti pubblicati da Nottetempo: storie bizzarre, svagate e insieme profonde, sottilmente umoristiche, che a volte nascono dal ricordo e dall’immagine di una remota Argentina e testimoniano la fecondità di un complesso incrocio linguistico e culturale. Non c’è da stupirsi, dunque, che la lingua, anzi le lingue (usate, dimenticate, evocate, “luogo” di sentimenti ed emozioni) siano uno dei temi principali dell’ultimo romanzo di Bravi, L’idioma di Casilda Moreira (Exorma, pag. 187, e. 15,50), in cui un giovane studioso lascia le colline delle Marche per raggiungere la Patagonia, dove, gli ha raccontato un suo eccentrico professore, vivono due anziani tehuelches, superstiti di un popolo decimato e disperso, e ultimi a parlare una lingua in procinto di scomparire. Da anni, però, i vecchi non si rivolgono la parola: le frasi usate nei giorni di un amore poi tradito, tanto e tanto tempo prima, per loro sono inutilizzabili, morte insieme a quel sentimento. Ma Annibale è così ostinato che riuscirà a provocare e registrare un loro dialogo, forse l’ultimo…

La storia, però, non è tutta qui: tra i molti fili che attraversano un vero e proprio viaggio iniziatico, ci sono un nuovo amore, un trionfale incantesimo, la memoria delle popolazioni indigene, e soprattutto le sconfinate solitudini di una terra leggendaria.

 

D. In La gelosia delle lingue un suo libro del 2017 a metà tra saggio e racconto autobiografico, si affronta il tema del vivere, e soprattutto dello scrivere, tra (o in) lingue diverse: L’idioma di Casilda Moreira, continua e approfondisce questa sua riflessione?

 

R. Le lingue determinano il nostro modo di essere e di stare al mondo. Non parliamo questa o quella lingua ma siamo in questa o quella lingua e questo crea una tensione sentimentale dentro di noi. Guardiamo il mondo e lo interpretiamo attraverso la lingua. D’altra parte, mi piace pensare, le lingue non hanno frontiere e non appartengono a nessuno, solo a chi le parla e le vive dall’interno. A volte ho l’impressione che certi ricordi o le nostre storie d’amore non possano vivere con la stessa intensità in due lingue diverse. E questa, in parte, è l’idea che viene fuori da L’idioma di Casilda Moreira: innamorarsi in una lingua e non poterla più usare con la persona amata, una volta che cessa l’amore.

 

D. Nel romanzo, i due anziani Casilda e Bartolo sono gli ultimi a parlare una lingua che sparirà con loro. Nella realtà i günün a künä (o teuhelches) stanno riavvicinandosi alla lingua perduta, tanto che Daniel Huircapán ha pubblicato un libro, Hable günün a yájüch, per favorirne il (ri)apprendimento. Questo tentativo ha un senso, secondo lei, oppure hanno ragione Casilda e Bartolo, quasi indifferenti alla scomparsa della propria lingua?

 

R. Alla fine degli anni Cinquanta l’antropologo e storico argentino Rodolfo Casamiquela, racconta di aver intervistato l’ultimo parlante di questa lingua, il cacicco José María Kual, morto nel 1960 all’età di 90 anni. Con il suo aiuto, Casamiquela era riuscito a stabilire le basi grammaticali del günün a yajüch (il nome che i günün a künä davano alla propria lingua). Negli ultimi anni è iniziato un processo di ricostruzione linguistica. Mi fa piacere che citi Daniel Huircapan, un discendente dei tehuelches, impegnato sul fronte della ricostruzione culturale del suo popolo, perché mi sono confrontato proprio con lui per quanto riguarda la parte linguistica del libro. Nella finzione, mi piace l’idea che Casilda e Bartolo rimangano un po’ indifferenti alla scomparsa della propria lingua (in verità, più che d’indifferenza di tratta d’inconsapevolezza). Nella realtà, invece, sono molto favorevole al recupero del loro mondo, artistico, mitologico, astronomico, ecc. Sono convinto che il vento, la pianura, i fiumi e tutto il resto non possano vivere allo stesso modo senza la lingua parlata per anni dai primi uomini che hanno calpestato quelle terre.

 

D. In Argentina la cancellazione delle lingue e delle culture indigene è stata, per varie ragioni, molto più radicale che in altri paesi dell’America latina. Il romanzo mi è sembrato anche una sorta di omaggio a un’alterità da lungo tempo sopraffatta, che se ne va portando con sé i propri segreti, come fanno Casilda e Bartolo.

 

R. L’Argentina è sempre stato un paese con lo sguardo rivolto all’Europa. Quando, però, si è accorta delle ricchezze che possedeva al suo interno, è iniziata, nella seconda metà dell’ottocento, la famigerata Conquista del desierto, che ha comportato una campagna di appropriazione indebita delle terre (tutt’ora in corso) e il massacro di intere popolazioni (i primi desaparecidos della storia di questo paese) che abitavano da sempre quei luoghi, e di conseguenza la cancellazione di lingue, di sguardi sul mondo, ecc. Quando a scuola si studiavano gli indios non si riusciva mai a fare una seria distinzione tra le varie etnie, se ne parlava in generale, anche questa negazione faceva parte di un indottrinamento. Nel romanzo ho voluto parlare di un popolo quasi scomparso e, nel mio piccolo, provare a restituirgli la sua dignità. Sì, in parte il libro l’ho pensato anche come un omaggio a quella gente che non riusciva e non voleva identificarsi con lo stato, liberi dalla soggezione del mercato e dell’autorità. È stato un modo di fare i conti con la storia e con quel paesaggio che fa parte di un immaginario comune.

 

D. Sin dal XVI secolo, si sono accumulati gli scritti sulla Patagonia di esploratori e studiosi, ma anche quelli di cronisti e scrittori, che hanno trasformato questa zona del mondo in un “luogo dell’immaginazione”. Che Patagonia è la sua? C’è qualche riflesso di narrazioni altrui, o si tratta di un territorio narrativo del tutto personale?

 

R. Ho sempre pensato alla Patagonia come a un grande laboratorio onirico. “America è stata un’invenzione dei poeti” segnalava Alfonso Reyes in Ultima Tule, per sintetizzare quella inclinazione verso il fantastico che hanno manifestato i primi cronisti. La stessa cosa potrebbe dirsi dell’immensità della Patagonia. Credo che possiamo descriverla meglio per via negationis, come una sorta di teologia negativa, e trasformare la sua geografia in un’unica cosa con l’immaginazione. “C’è un’ora della sera in cui la pianura sta per dire qualcosa; non la dice mai, o forse la dice infinitamente e non lo capiamo, o lo capiamo ma è intraducibile come una musica” dice Borges. Insomma, la mia Patagonia, questa topografia immaginifica, è quella dell’infanzia di William H. Hudson, quella di Juan José Saer ed Ezequiel Martínez Estrada, ma anche la pianura che César Aira scopre attraverso Rugendas, il pittore fulminato che va tra gli indios per dipingere una battaglia.

 

D. Annibale, il protagonista, è deciso a far dialogare Casilda e Bartolo in nome della scienza, e pur di riuscirci ricorre all’inganno. Ma l’ultima pagina ci offre un’altra possibilità di lettura che cambia (o svela) il senso del viaggio del giovane studioso di etnolinguistica.

 

R. Nel libro si incontrano due concezioni diverse del mondo: da un lato la visione magica di Bartolo e dall’altro quella scientifica di Annibale. Bartolo osserva la pianura in groppa al suo cavallo, sempre chiuso nel recinto, e vede o immagina lo spazio mitico degli antenati, dove l’uomo e la natura formavano un corpo unico, quasi inscindibile. Pensa ancora al posto dove crescono i nomi e spera di essere sepolto insieme al cavallo per poterlo cavalcare dopo la morte e raggiungere il desiderato sud. Annibale, invece, da europeo qual è, ha un approccio opposto, distaccato, mi verrebbe da dire quasi “museale”, di chi vuole appropriarsi di una lingua per conservarla. Insomma, uno è legato all’oralità o alla voce che sfiora la pianura, l’altro alla scrittura e al suo alfabeto fonetico. E alla fine si scopre che anche il günün a yajüch, come tutte le lingue, serba dentro di sé una sua magia, che si dispiega in un incantesimo. Il libro, in verità, è anche e soprattutto la storia di un viaggio che l’eroe intraprende non verso un luogo, anche se il luogo c’è ed è lontanissimo, ma verso una lingua che vorrebbe salvare. E, come in tutti i viaggi, durante il percorso accadono (e cambiano) tante cose.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2019


sabato 2 febbraio 2019

Da leggere: Vera Giaconi

Vera Giaconi


Un reticente minimalismo 

Quella di Vera Giaconi, nata a Montevideo sul finire del 1974, è una storia comune a tanti bambini latinoamericani di quegli anni: la storia di una fuga, di un esilio, di un’infanzia diversa che gli adulti si sforzarono di rendere comunque “normale”. Vera aveva nove mesi, quando insieme alla madre raggiunse in Argentina un padre che, costretto ad espatriare dopo il colpo di stato del ’73, come tanti altri uruguayani aveva preso la via di Buenos Aires, forse rassicurato dall’elezione alla Presidenza del peronista di sinistra Héctor José Campora. Non molto tempo dopo, però, anche in Argentina i militari avrebbero preso il potere, costringendo gli esuli giunti da altri paesi a scegliere se andarsene ancora una volta o restare, pagando un alto prezzo – solo tra gli uruguayani si contano 138 desaparecidos –, oppure rassegnandosi a vivere in semiclandestinità, tra mille silenziose cautele.

È forse nel silenzio di quegli anni, nelle parole a lungo misurate e trattenute, l’origine del reticente minimalismo di Giaconi, che oggi vive e lavora nella città dov’è cresciuta (uruguayana tra gli argentini e argentina tra gli uruguayani), scrivendo pagine che assegnano al non detto un ruolo fondamentale e possiedono l’apparente nitidezza di una foto che bisogna osservare più volte per scoprire, intuire, immaginare cosa si nasconde ai margini, nei chiaroscuri e nelle ombre. Ed è proprio lesinando o negando informazioni, fermandosi sull’orlo di una conclusione, sospendendo il giudizio ed elaborando strategie impercettibilmente allusive, che Giaconi offre al lettore un inconsueto spazio di libertà e di interpretazione.

Mostrare la realtà, piuttosto che spiegarla, sembra infatti l’intenzione dell’autrice, il cui stile personalissimo, già evidente in Carne viva – libro d’esordio pubblicato nel 2011 da Eterna Cadencia –, acquista maturità e sicurezza nei dieci racconti di Persone care (SUR, pp. 56, e. 15, da poco in libreria nella bella traduzione di Giulia Zavagna), accentuando l’asciutto realismo, la sobrietà della frase e l’attenzione accordata a dettagli e circostanze minime. Non a caso Marcelo Cohen (critico acuto e grande scrittore ancora poco noto in Italia) collega i racconti di Giaconi a un imponente filone di scrittrici anglosassoni, da Flannery O’Connor ad Alice Munro, “che ha dato alla letteratura non meno prospettive e al lettore non meno ampiezza (e inquietudini) della grande narrativa sperimentale”.

Ma sembra innegabile anche il legame con la schiera delle sorprendenti cuentistas latinoamericane che oggi proseguono l’opera di scrittrici considerate ormai veri e propri classici: gli intimi inferni e le sommesse atrocità domestiche di Silvina Ocampo, Amparo Davila, Sara Gallardo, Clarice Lispector (della quale troviamo in epigrafe una frase rivelatrice sulla “crudele necessità di amare” e “la malignità del nostro desiderio di essere felici”) non sono poi così lontani da quelli contemporanei di Mariana Enríquez, Andrea Jeftanovic, Samanta Schweblin e altre ancora, inserite in un ventaglio di scritture molto diverse tra loro, ma che hanno in comune l’assenza di consolazione e la capacità di metterci a confronto, in un modo o nell’altro, con quello che preferiremmo non vedere.

Anche Vera Giaconi, come la maggior parte di loro, avvolge la spirale della sua prosa intorno ai rapporti familiari, alle “persone care” (un titolo che, alla luce delle storie narrate, può apparire ironico), a legami ineludibili in cui si insinuano invidia, risentimento, rancore, perfino furia, ma anche condivisione e complicità, come in Al buio, uno dei due racconti – l’altro è Dumas – in cui l’autrice accenna all’infanzia attraversata dalla dittatura, discostandosi dalla neutra atemporalità che le è consueta ed evitando allo stesso tempo la tentazione memorialista: nascosti in fondo all’armadio dove la madre ha preparato per loro un rifugio di emergenza, i fratellini Roxy e Facundo si offrono a vicenda protezione e conforto, immersi nel duplice buio delle inattendibili spiegazioni materne e in quello, più tangibile ma altrettanto misterioso, dell’appartamento dove la baby sitter “gioca” a spegnere tutte le luci.

Al loro abbraccio corrisponde, in Piranha, il dispettoso contrasto tra Romina e Víctor, che ha perso due dita in un corso d’acqua invaso dai terribili pesci e che ingaggia con la sorella piccole e violente battaglie, riflesse come in un gioco di specchi nella lite a porte chiuse dei genitori e nella lotta libera trasmessa in tv. Ed è sempre davanti alla tv, mentre va in onda un assurdo programma in cui si assegna un prezzo agli oggetti portati dal pubblico, che il protagonista del riuscitissimo Stimatore valuta a sua volta il futuro che lo aspetta, calcolando i costi rovinosi dei prossimi vent’anni di vita dell’anziana madre addormentata in poltrona, fastidiosa quanto il costoso orologio che gli ha regalato: “Un oggetto caro ma ordinario, qualcosa che gli appartiene e di cui non riesce a sbarazzarsi, qualcosa che detesta e con cui non sa che fare”.

Tutto, in Persone care, avviene in spazi chiusi e domestici, come in Resti, cronaca dettagliata dell’efficienza e del segreto tripudio con cui due donne, dopo la morte della ricca sorella minore, allestiscono il suo ricevimento funebre, e intanto esplorano cassetti, frugano negli armadi, si provano il sontuoso abito da sposa della defunta. L’esterno viene evocato solo tramite vaghi accenni (il percorso della domestica Rosa, in Beati, tra il lussuoso quartiere residenziale dove lavora e la sua casa – due autobus, un viaggio in treno, quindici isolati a piedi –, oppure il McDonald’s dove un uomo e la figlia adolescente riusciranno forse a riannodare i fili di una comunicazione spezzata dalla morte della madre, in Carne) o più spesso filtra attraverso le avventure fasulle dei reality e l’irresistibile trash vomitato dal video.

Sono storie scomode e mai ovvie, quelle di Persone care, che con una serie di sottili, quasi inavvertibili spostamenti lasciano affiorare dalla superficie, magari per un attimo, significati e perfino pericoli inattesi, come nel decimo racconto, Rincontro, lontano dal solido realismo degli altri nove e più prossimo al perturbante fantastico “nero” della Enríquez e della Schweblin, ma anche alle insolite atmosfere di Armonia Somers, straordinaria scrittrice uruguayana morta nel 1994. Un possibile annuncio, questa brusca virata finale, delle sorprese che in futuro saprà riservarci Vera Giaconi, con la sua voce misurata e tagliente?

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2019