lunedì 25 gennaio 2021

Da leggere: Sara Gallardo


Sara Gallardo



Gennaio è il più crudele dei mesi

All’inizio del nuovo secolo, Riccardo Piglia tenne a La Habana una conferenza poi pubblicata dalla rivista Casas de las Américas, che sin dal titolo, “Tre proposte per il prossimo millennio (e cinque difficoltà)” si presenta come un dialogo con le “Lezioni americane” di Italo Calvino e le “Cinque difficoltà per chi scrive la verità” di Bertold Brecht, in cui lo scrittore e critico argentino si interrogava sul futuro della letteratura (o sulla letteratura del futuro), dal punto di vista di un intellettuale radicato “in una periferia del mondo (…). Il paese di Sarmiento, di Borges, di Cortázar, di Sara Gallardo, di Manuel Puig”.

Nel breve elenco di nomi spicca, a sorpresa, quello di una scrittrice scomparsa prematuramente alla fine degli anni ‘80, sconosciuta fuori dall’Argentina e dimenticata anche in patria, che tuttavia Piglia giudicava imprescindibile, tanto da riproporla in una celebre collana di classici argentini da lui diretta. Ha avuto inizio così, dopo una cancellazione radicale quanto rapida e inspiegabile, la riscoperta di Sara Gallardo, che si è articolata in svariate riedizioni di cinque romanzi e di uno splendido libro di racconti, la compilazione di due nuove antologie di testi tratti da una trentennale produzione giornalistica, una diversa attenzione della critica e un certo numero di traduzioni in altre lingue, cui si aggiunge oggi quella di Bruno Arpaia per l’editore Solferino, che pubblica a giorni “Gennaio”(pp. 144, e.15), opera prima apparsa nel 1958, quando l’autrice aveva ventisette anni.

“Gennaio” narra di una gravidanza non voluta, “un fungo nero” annidato nel corpo gracile e quasi infantile di Nefer, una sedicenne che, stuprata da un ubriaco durante una festa campestre, si scopre incinta ed è paralizzata dalla vergogna, dalla paura e dalla certezza che nessuno sarà dalla sua parte, tra gli abitanti dell’immensa tenuta in cui lei e la sua famiglia accudiscono il bestiame, soggetti al potere quasi assoluto di una padrona dalla mano di ferro, dispensatrice di buoni consigli e massime morali. A niente serviranno le dolorose fantasticherie su come estirpare il “nemico” che Nefer si porta dentro, o il suo dibattersi da animale preso al laccio: schiacciata da leggi non scritte, tramandate e imposte dalla madre e dalla Signora, la ragazzina non può che rassegnarsi a un destino stabilito altrove, che la espropria del suo stesso corpo, di ogni possibile desiderio, di una voce per dire di sé.

Una storia semplice, insomma, situata con precisione nello spazio e nel tempo (la campagna argentina a metà del ventesimo secolo), e connotata da una trama di ingannevole esilità, da un ritmo lento e austero, dall’assenza di enfasi e soprattutto da un’abilissima fusione di voci: la terza persona del narratore si alterna o si intreccia di continuo al monologo interiore di Nefer, spezzato e convulso, e il lettore si rende presto conto che in realtà è il personaggio a esprimersi con la voce del narratore, mentre i frequenti dialoghi provvedono a una polifonia segnata dal ricorso all’oralità popolare. Nefer, chiusa nella solitudine e nel silenzio come in un’armatura, vaga a cavallo nella pampa (a forza di galoppare, forse, quell’oscuro “fungo” sparirà), spia il ragazzo di cui è inutilmente innamorata, passa da luoghi chiusi e opprimenti (la stamberga familiare e la casa della Signora, la chiesa, la casupola della “strega” che pratica aborti) a un esterno sconfinato e dall’orizzonte irraggiungibile, che Gallardo trasforma in una sorta di specchio dove si riflettono e prendono forma i pensieri e gli stati d’animo della protagonista.

La narrazione poggia su un linguaggio così sobrio e trattenuto da sembrare in contrasto con la silenziosa disperazione di Nefer, ma che riesce a esprimerla con estrema lucidità, senza forzature né cedimenti, giocando sul silenzio e il non detto come avviene nella frammentaria rievocazione dello stupro, raccontato attraverso dettagli minimi, reticenze e vuoti che ne sottolineano la ferocia. E quietamente feroce, di una violenza sussurrata ma inequivocabile, nonostante il lirismo delle avvolgenti descrizioni degli ambienti naturali e degli animali in cui Nefer cerca un breve conforto, è l’intero romanzo, che in un primo tempo venne erroneamente considerato un’espressione tardiva del filone ruralista così a lungo presente nella letteratura argentina, da Eugenio Cambaceres a Ricardo Güiraldes, ma divenuto ormai residuale e anacronistico nel periodo in cui Gallardo fece il suo debutto nella narrativa.

A confermare una classificazione così superficiale contribuiva, inoltre, il cognome illustre dell’autrice (Gallardo Drago Mitre), che la segnalava come appartenente al patriziato argentino e rimandava a una famiglia composta da “padri della patria”, intellettuali, scienziati celebri, e, ovviamente, proprietari terrieri: l’universo delle estancias Sara Gallardo lo conosceva bene, era anche il suo, prima che l’inquietudine la spingesse a intraprendere una vita errante e cosmopolita.

Ci sono volute nuove e più accorte letture critiche per rendersi conto di quanto fosse discutibile il tentativo di applicare una simile etichetta a un’opera come “Gennaio”, che, tanto per la proposta estetica come per i contenuti, è non solo inclassificabile, ma pronta a disintegrare stereotipi ancora radicati nell’immaginario e lungamente evocati da un genere che offriva una visione della vita nella pampa gonfia di luoghi comuni e colore locale.

Affrontando temi come l’aborto e la violenza, calandosi interamente nel dolore di un’adolescenza derubata di tutto e rappresentando el campo come un mondo maschile soffocante e claustrofobico, retto da un rigido sistema di caste in cui le donne sono “le serve di tutti” e regna un tempo circolare, che sottolinea l’infinita reiterazione della fatica quotidiana e dell’abuso, Sara Gallardo non si è limitata a mettere in questione la tradizione letteraria nazionale, ma, grazie all’originalità delle sue scelte formali, ha brillantemente inaugurato un progetto narrativo che si è dispiegato in testi assai diversi l’uno dall’altro, caratterizzati da una sperimentazione di stili e linguaggi sempre più accentuata ed eccentrica, culminante, negli anni ‘70, in testi prodigiosi quali “Eisejuaz” e “El país del humo”, dove affiorano innumerevoli brandelli di materiali, voci e immagini recuperati al margine di vie poco battute e sottoposti a una rielaborazione raffinatissima.

Pur rivelandosi, dunque, come il frutto di un’inclinazione a produrre “pezzi unici” estranei a ogni canone, sin dalla pubblicazione di “Gennaio” le opere di Gallardo dimostrano una coerenza di fondo che è proprio Ricardo Piglia a illuminare, quando, al termine della sua conferenza, afferma: “Bisogna creare nel linguaggio un luogo in cui l’altro possa parlare” e lasciarsi abitare da “ciò che dall’altro arriva”.

   

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il Manifesto nel gennaio del 2021

domenica 10 gennaio 2021

Da leggere: Lucía Sánchez Saornil

Lucía Sánchez Saornil

 

 

Di quale femminismo abbiamo bisogno?

In uno dei vialetti del Cemeterio General di Valencia, ogni due di giugno, un gruppo di donne usa riunirsi tra mazzi di fiori, pugni chiusi e bandiere anarchiche, intorno a una lapide di pietra grigia sulla quale è incisa la frase "Ma... è vero che la speranza è morta?", seguita da un nome e da una data: un piccolo ma significativo omaggio alla memoria di Lucía Sánchez Saornil, una delle figure femminili più interessanti e troppo a lungo dimenticate della Spagna novecentesca.

Sempre più spesso rievocazioni, video e documentari che la riguardano vanno sommandosi a saggi, raccolte di articoli e antologie di versi, come il Romancero de Mujeres Libres, pubblicato per la prima volta nel 1937 e riapparso il 13 dicembre a cura della CGT, a testimoniare un crescente interesse per la vita e il pensiero di una donna eccezionale. E il frutto più recente di questo lento riaffiorare è "Ho sempre detto noi. Lucía Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile" (Viella, pp.384, e,35), appassionante e minuziosa biografia compilata dalla giovane studiosa italiana Michela Cimbalo, un testo che non si limita a esplorare le vicende di Lucía, nata nel 1895, ma le inquadra in un contesto storico e culturale, illustrando dettagliatamente la condizione delle donne spagnole sotto regimi diversi. Dallo sfondo dei quartieri popolari di Madrid ci viene così incontro il profilo aguzzo di una ragazza minuta, rimasta precocemente orfana di madre e che sin da giovanissima si è dovuta far carico del padre e della sorella malata, ma che non ha mai smesso di leggere e studiare, riuscendo a conquistarsi un'istruzione, a prendere lezioni di pittura e a debuttare con versi ancora acerbi, appena quattordicenne, su un modesto settimanale

L'accesso al mondo della letteratura non appare facile nemmeno per altre e ben più privilegiate componenti della cosiddetta Generazione del '27, ma, nonostante tutto, la proletaria e autodidatta Lucía a poco più di vent'anni diventa l'unica donna poeta dell'ultraismo, effimera avanguardia spagnola aperta alle influenze futuriste e dadaiste, che, tramite Borges e suo cognato Guillermo de Torre, si sarebbe insediata brevemente anche in Argentina. Sono, quelli che Lucía pubblica sui giornali ultraisti, versi pieni di esplicito desiderio per il corpo femminile, firmati con uno pseudonimo maschile (Lucíano de San-Saor) nato non tanto dall'ansia di nascondersi, come sottolinea Michela Cimbalo, quanto di giocare con l'identità di genere e di alludere alla propria "sessualità dissidente", in un'epoca che vedeva l'amore tra donne come una malattia o una perversione.

Ben presto, però, assunta dalla compagnia Telefónica (che nel 1931 la licenzia per la sua attività sindacale), Sánchez Saornil entra nell'orbita del movimento anarchico, si iscrive alla Confederación Nacional de Trabajo e rinnega l'ultraismo per consacrarsi alla politica e al giornalismo, occupando ruoli di spicco nelle principali pubblicazioni anarchiche e assumendo posizioni sempre più battagliere e polemiche nei confronti dei "compagni maschi", che le attirano le diffidenza di molti esponenti libertari. Nei suoi articoli su Solidaridad Obrera, Tierra y Libertad e La Revista Blanca venivano sottolineate con vigore le contraddizioni dei militanti, che, pur dichiarando di voler trasformare profondamente ogni aspetto della società, incluse le relazioni tra i sessi, nella pratica quotidiana imponevano alle donne il rispetto dei ruoli tradizionali, confinandole nell'ambito dei doveri domestici e soprattutto della maternità, in perfetto accordo con le norme patriarcali. Nei suoi fiammeggianti articoli Lucía affronta temi come il matrimonio (per le donne sprovviste di qualsiasi risorsa, scrive, equivale alla prostituzione), critica la doppia morale sessuale mai cancellata dall'aspirazione anarchica all'amore libero, e afferma che essere madre rappresenta solo una possibilità fra le tante e non una missione sacra, legata a un ineludibile destino biologico: una tesi che nella Spagna di allora appariva audacissima ed era avversata anche da autorevoli personalità anarchiche, come Federica Montseny ("Una donna senza figli è un albero senza frutti, un rosaio senza rose").

Da queste premesse nasce, nel 1936, l'organizzazione Mujeres Libres, fondata poco prima della guerra civile da Sánchez Saornil, Mercedes Comaposada e Amparo Poch, insieme a una rivista dello stesso nome che vanta una grafica audace, illustrazioni pregevoli e foto non banali, scattate a volte dalla grande fotografa Kati Horna, con la quale Lucía collabora anche sulle pagine del giornale anarchico Umbral.

Mujeres Libres non è affatto, come si è tentati di credere, una delle tante "sezioni femminili", spesso puramente strumentali e create soprattutto per garantirsi il voto delle donne, introdotto in Spagna nel 1931; le fondatrici, Lucía per prima, sono convinte che l'emancipazione può mettere radici solo in spazi liberi dall'autorità e dall'influenza maschili (l'organizzazione è forse l'unica pensata, creata e gestita interamente da donne), attraverso un'adeguata formazione che garantisca a tutte l'accesso all'indipendenza economica e a una coscienza nuova, così da renderle padrone di sé stesse e del proprio corpo, e poter scegliere, se lo desiderano, una maternità consapevole. Gelosamente autonoma, Mujeres libres rimane comunque fedele ai principi dell'anarchia: quello che propone è un femminismo proletario e di classe, pronto a lottare per la rivoluzione sociale, e se l'esplicita definizione di "femminista" viene rifiutata, è perché all'epoca il termine viene identificato con il riformismo borghese delle suffragette.

Nel corso della guerra, grazie a una fitta di rete di gruppi attivi su buona parte del territorio spagnolo, Mujeres Libres si diffonde al punto da contare su almeno ventimila membri che si prodigano in innumerevoli iniziative concrete a sostegno della popolazione civile e della Repubblica, organizzando corsi professionali, di alfabetizzazione e di puericultura, mense popolari, distribuzioni di viveri, asili d'infanzia. In quanto segretaria nazionale di Mujeres Libres e redattrice della rivista omonima, Lucía Sánchez Saornil è ovunque, e allo stesso tempo continua una febbrile attività giornalistica, fatta di reportages dal fronte e programmi radio, oltre a diventare capo redattrice di Umbral e ad assumere, nel '37, la carica di segretaria della Società Internazionale Antifascista, creata dalla CNT per sollecitare all'estero aiuti e solidarietà.  

Nel '39, però, la vittoria di Franco la costringe a intraprendere il durissimo cammino dell'esilio insieme ad América (Mery) Barroso, che tre anni prima era diventata la sua compagna di vita e che lo sarebbe rimasta sino alla fine. In Francia le attende l'ostilità di un governo che disperde i profughi spagnoli in spaventosi campi di concentramento, e nel 1942 l'assidua sorveglianza della polizia e la minaccia di essere deportata in Germania la convincono a rientrare clandestinamente in Spagna, dove lei e Mery condurranno una vita di privazioni, rischiando costantemente di venire arrestate in quanto anarchiche, repubblicane e lesbiche: il loro orientamento sessuale, un tempo liberamente vissuto, è ormai un reato che può farle rinchiudere in carcere o in manicomio, per essere "rieducate".

Accolte infine nella casa valenciana della famiglia Barroso, si guadagnano da vivere confezionando retine per i capelli o lavorando per un laboratorio di ritocco fotografico, finché Mery non viene assunta come impiegata al consolato argentino e Lucía si inventa pittrice di ventagli. Isolata e silenziosa, lontana da ogni attività politica, trascorre un trentennio nel più assoluto anonimato e lascia tracce così lievi da non essere quasi avvertibili, in una Spagna che aveva privato le donne di ogni diritto conquistato durante la Repubblica, riportandole indietro di secoli, sotto il ferreo controllo di un regime misogino e androcentrico.

Alla sua morte, avvenuta nel 1970 per un cancro ai polmoni, Lucia non lascia diari, epistolari o memorie, ma nuove poesie che assomigliano a brace sotto la cenere e rivelano l'impossibilità di arrendersi del tutto. Sono i suoi versi migliori, differenti sia da quelli del periodo avanguardista che dalle strofe militanti degli anni successivi, e in parte riuniti in un volume postumo curato da Rosa María Martín Casamitjana (Pre-Textos, 1996) in cui si riflettono la sconfitta, la malattia, i dubbi, l'angoscia per l'avvicinarsi della fine, ma non la negazione di tutto ciò in cui ha creduto. L'ultima testimonianza, insomma, su una vita coraggiosa e piena, fatta di scelte e intuizioni sorprendentemente contemporanee, tanto da indurci a pensare, ogni volta che il nome di Lucía  Sánchez Saornil viene pronunciato: qual è il femminismo di cui abbiamo bisogno, per cambiare la vita e la condizione di tutte e di ciascuna?

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2020