lunedì 9 dicembre 2019

Da leggere: Juan José Saer


Juan José Saer


A guisa di un vastissimo mare

Un paesaggio che, visto dall’alto, è “il più austero, il più povero del mondo”. Un luogo piatto e desolato, immemore e vuoto, ovvero il punto in cui due grandi fiumi, il Paranà e l’Uruguay, confluiscono a formare l’immenso estuario del Río de la Plata, che nel 1729 il gesuita Gaetano Cattaneo descrisse così: “E quando si va verso il mezzo, si perde di vista la spiaggia, né altro si vede all’intorno che cielo ed acqua a guisa di un vastissimo mare”. A questo universo acquatico e ai piatti territori che lo circondano è dedicato Il fiume senza sponde. Trattato immaginario di Juan José Saer (La Nuova Frontiera, pp. 254, e. 18, pubblicato nel 1991 e oggi tradotto per la prima volta in italiano da Gina Maneri e dagli allievi della scuola Tutteuropa di Torino), uno dei rari titoli non-fiction del grande romanziere argentino e l’unico scritto su commissione, per una collana sui fiumi del mondo progettata da Alianza Editorial.

Saer – nato nel 1937 a Serodino, in vista del fiume Paranà, e residente a Parigi per buona parte della sua vita – pur tra molti dubbi aveva finito per accettare quell’insolita sfida, che sembrava allontanarlo da una scommessa letteraria orientata alla narrativa e alla più assoluta autonomia formale, ma che lo riportava alle origini e al punto focale di tutte le sue opere, una Zona fatta di acque, isole, pianure e città costiere, spazi fisici ben riconoscibili e allo stesso tempo luoghi dell’immaginario. Non a caso, nel lungo prologo in cui dà conto della genesi e della natura del libro, l’autore mette subito in chiaro che il suo sarà un saggio anomalo, in cui verranno inevitabilmente evocati impressioni personali ed episodi autobiografici, a cominciare dal contraddittorio senso di appartenenza e sradicamento suscitato dalle acque fangose dell’estuario, viste dal finestrino dell’aereo che lo porta in Argentina.

Altrettanto intensa, però, è la consapevolezza che né l’esperienza né la memoria gli forniranno sufficiente materia prima e che si renderà necessario l’esame di innumerevoli fonti e testimonianze (tra le quali primeggiano i resoconti di esploratori e viaggiatori del diciottesimo e diciannovesimo secolo: naturalisti, missionari, militari, ingegneri, marinai, animati da una vivissima e pragmatica curiosità), per dar vita a quello che dovrebbe essere un saggio, ma che in realtà è un ibrido riferibile a una letteratura nazionale ricca di opere difficili da classificare secondo precise tipologie testuali, libri unici e indefinibili i cui titoli Saer elenca profusamente a conclusione del suo Martín Fierro: problemas de género, breve saggio del 1992.

Dopo aver preso l’impegno di non includere nel racconto nulla di fittizio, pur sapendo che “le sottili fioriture” della finzione trasgrediscono spesso i protocolli del cronista più vigile, l’autore divide il testo in quattro parti – ciascuna corrispondente a una stagione dell’anno, presa a simbolo di aspetti diversi delle vicende argentine – e dispiega via via una sovrabbondanza di materiali eterogenei, esaminando contributi storici e dedicando pagine di grande fascino alla toponomastica, alla flora spontanea e agli animali, ai fenomeni atmosferici, agli spazi urbani, alla cultura ufficiale e non (memorabili i piccoli ritratti del gruppo riunito intorno alla rivista Sur e di due esuli profondamente diversi, Roger Caillois e Witold Gombrowicz), alla mescolanza di lingue e popolazioni, alle superbe e quasi oniriche descrizioni della pampa e del cielo sconfinato che le impone grandiose architetture di nubi, alla sanguinosa fondazione delle città e alla tragedia degli indios, ad acute analisi politiche ed economiche valide ancora oggi, al racconto delle prime spedizioni spagnole, come a quello terribile dell’ultima dittatura.

Ci viene così offerta, attraverso suggestive associazioni e la ricomposizione di mille diversi frammenti, una visione complessa, sfaccettata e magnificamente personale del territorio rioplatense, inteso come sinonimo dell’Argentina (la sponda uruguayana dell’estuario viene esclusa già dal prologo, là dove Saer afferma di non averne esperienza alcuna), la cui contemplazione trasmette allo scrittore, anche dopo anni di assenza, un piacere malinconico, “non privo di euforia né di collera e amarezza”.

Sin dal sottotitolo quasi provocatorio – quel Trattato immaginario in cui può leggersi la volontà di contenere, senza eliminarla, la pur ampia componente scientifica, storiografica o antropologica del saggio – è subito evidente che lo scrittore affronta il testo dalla prospettiva della narrazione e in funzione di quest’ultima, concepita come un organismo in continuo mutamento, pronto a sottrarsi alle rigide forme imposte dai generi e ad assecondare la voce di colui che racconta, adottando lo sguardo “esterno” dell’espatriato, ma senza rinunciare a un punto di vista “interno” e chiaramente soggettivo, che finisce per prevalere quando nel racconto irrompe lo spazio remoto dell’infanzia. L’autore/narratore diventa così personaggio di una trama che è poi lo stesso farsi del libro, il procedere della scrittura, la ricerca, la consultazione e il commento delle fonti, nonché l’impressione profonda suscitata da memorie così intime.

Sempre affiorante tra il fluire dei dati e le considerazioni sulle caratteristiche culturali degli argentini, sul loro immaginario e sugli archetipi dispensatori di identità, il ritorno all’origine comporta l’utilizzo di una mitologia personale che rimodella il territorio e la tradizione servendosi di una lingua “privata” (Lengua privada y literatura è appunto il titolo della relazione che Saer, già malato, non poté leggere a chiusura del Congreso de la Lengua Española del 2004), cresciuta però in un terreno collettivamente fecondato dalle culture e dagli idiomi – spagnolo, portoghese, gallego, italiano e altri ancora – portati dalle successive ondate migratorie, ma anche dai molti e diversi linguaggi aborigeni, la cui eco permane, inalterata e suggestiva, nella toponomastica e in numerosi termini di uso comune.

Di questa lingua ibrida, necessariamente condivisa ma resa unica da uno sfolgorante procedimento estetico, l’autore fa un uso prodigioso sia per quanto riguarda il racconto del vissuto, sia nel reinterpretare il taglio storico e scientifico del saggio, disseminato di considerazioni che demoliscono i luoghi comuni e i miti nazionali più abusati (a partire dalla figura del gaucho, esaltata da Borges e Lugones) e contribuiscono a decostruire l’idea del contrasto fra “civiltà e barbarie” proposto da Domingo Sarmiento nel suo Facundo, suggerendo che siano in realtà due facce di una stessa medaglia. Infine, e questo è forse l’aspetto più interessante di Il fiume senza sponde, Saer apre in questo tumultuoso, avvincente racconto spiragli che rimandano ai suoi ineguagliabili romanzi (in primo luogo L’arcano e Le nuvole, pubblicati entrambi da La Nuova Frontiera), permettendoci di scorgere la materia della quale la sua narrativa si è nutrita, e soprattutto di gettare uno sguardo su una concezione della letteratura che propone quale patria esclusiva dello scrittore “la fitta giungla del reale”, dove è in agguato la necessità di riflettere e interrogarsi sulla natura dell’esperienza, quanto sull’impossibilità di trasmetterla senza ricrearla.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2019

 

 

Scomparso a Parigi nel 2005, Juan José Saer ha lasciato una vasta opera narrativa che include quattro volumi di racconti pubblicati tra il 1960 e il 2000 e dodici romanzi (cinque sono tradotti in italiano). Poco estesa, ma fondamentale, è la sua produzione saggistica, riunita in quattro volumi tra i quali viene abitualmente collocato anche Il fiume senza sponde, nonostante sia universalmente riconosciuto come inclassificabile.

I veri e propri saggi i Saer sono raccolti in El concepto de ficción (1997), La narración-objeto (1999) e Trabajos (2005), tutti inediti in Italia nonostante siano di notevole interesse, e non solo perché delineano con chiarezza il progetto narrativo dell’autore (convinto dell’impossibilità di catturare e rappresentate il reale nella sua totalità, e impegnato nella costruzione di un’opera in perpetuo divenire, composta da testi collegati l’uno all’altro, che si modificano vicendevolmente), ma perché contengono un’analisi stimolante della tradizionale forma-romanzo, unita all’esame del rapporto che essa intrattiene con il contesto sociale, politico ed economico, fino all’individuazione dei generi letterari come merce funzionale agli interessi e al profitto delle grandi concentrazioni editoriali.

A una critica puntuale e severa del Boom letterario latinoamericano si unisce quella al concetto stesso di “letteratura latinoamericana” (lo scrittore occupò per anni, presso l’Università di Rennes, proprio una cattedra intitolata a quest’ultima), se intesa come categoria estetica che, secondo Saer, porta il doppio marchio del vitalismo e del volontarismo. L’errore più grave per la letteratura latinoamericana, insomma, sarebbe proprio quello di presentarsi a priori come tale: ciò che di latinoamericano può esserci nell’opera di uno scrittore dev’essere secondario e venire “per aggiunta”, poiché la specificità di un autore proviene dal suo lavoro, “non dal caso geografico della sua nascita”, senza contare che nessuna letteratura può davvero aderire a un’identità nazionale o rappresentarla, né è tenuta a farlo. Questo non significa rinunciare alla propria nazionalità o rifiutare la tradizione cui si appartiene, ma essere consapevole del fatto che, se la propria opera contraddice “una serie di valori presentati come indiscutibili”, ma che in realtà si limitano a essere “le convinzioni ristrette e tiepide della classe media” – non può essere se non quella di un “esiliato”, anche nel caso in cui non si siano mai varcati i confini del paese natale.


domenica 8 dicembre 2019

Da leggere: Brenda Navarro

Brenda Navarro



I bambini scomparsi

“Come tutti gli ospiti mio figlio mi disturbava/ occupando un posto che era il mio posto,/ esistendo fuori orario,/ facendomi spartire ogni boccone./ Brutta, malata, annoiata,/ lo sentivo crescere a mie spese,/ rubare il colore al mio sangue, aggiungere/ un peso e un volume clandestini/ al mio modo di stare sulla terra”.

Il sonetto di Rosario Castellanos, Si parla di Gabriel, sembra tendere un ponte tra le scrittrici latinoamericane del ‘900 – spesso grandissime e altrettanto spesso escluse da un canone connotato al maschile –, e una nuova generazione di autrici sensibili e potenti che stanno rinnovando le letterature di un intero continente, non senza rivendicare la presenza e la scrittura di quante le hanno precedute.

È difficile, infatti, leggere Case vuote (Giulio Perrone editore, pp. 173, e. 15, traduzione di Carlotta Aulisio), opera prima della giovane e già bravissima Brenda Navarro, senza pensare immediatamente a Castellanos, grande scrittrice fin troppo dimenticata: provenienti da un paese dove la mistica della maternità possiede ancora oggi l’imponenza opprimente del Monumento alla Madre che incombe sul Jardín del Arte di Ciudad de México, entrambe sanno restituirci il sentimento ambivalente e contraddittorio che in molte provano nei confronti della maternità.

Una delle protagoniste del romanzo di Navarro (in via di traduzione in diversi paesi europei) è appunto una donna che non ha scelto di essere madre, ma lo è diventata per rispondere alle aspettative della famiglia e della società. Alla sua voce corrisponde quella opposta di un’altra donna: se la prima è agiata, con una vita di coppia forse noiosa ma tranquilla, la seconda si guadagna stentatamente da vivere, mantiene un compagno manesco e soprattutto è divorata dall’angoscia per la propria sterilità, che la fa sentire un corpo “disabitato” e inutile (una casa vuota, insomma). Le loro vite si sfiorano solo per un attimo, quando la madre “borghese” si distrae per un attimo mentre il suo bambino di tre anni gioca nel parco, e la più povera e disperata – ma anche la più forte e decisa – lo rapisce per allevarlo come suo e avere finalmente, lei nata da un incesto e abituata alla violenza quotidiana, una famiglia costruita intorno alla miracolosa presenza infantile, garante di ogni felicità. Una sparizione, quella di Daniel (ribattezzato Leonel) che si ripete, facendo perdere le tracce del piccolo anche alla madre “abusiva” e precipitando le due donne in un inferno senza scampo, tra sensi di colpa, amare autoaccuse, feroci delusioni e il peso di una sofferenza non rimediabile.

I loro monologhi affannosi, duri, crudeli, si incrociano nel corso di tutto il romanzo, simili a un grido silenzioso e continuo che nessuno sembra raccogliere, e testimoniano la già notevole maturità dell’autrice, abilissima nel ricreare voci dissimili per intonazione e lessico, a partire da psicologie e da classi sociali diverse. Nel vortice delle confessioni, dei ricordi, dello strazio senza riparo, si fanno avanti altri personaggi ben disegnati (compagni pazienti con cui però è impossibile comunicare, uomini che conoscono solo il linguaggio dell’abuso, suocere e nonne fedeli ai valori del patriarcato), tra i quali spicca la poco amata Nagore, adottata dai genitori di Daniel: insieme al bambino, chiuso nel silenzio dell’autismo, l’unica figura luminosa della narrazione, che offre una speranza e suggerisce l’approdo a un nuovo modo di essere donna.

Quel che appare più interessante, in questo romanzo scomodo e doloroso, è però la capacità di Navarro di andare ben al di là di due storie “private” e di legarle a temi collettivi che sembrano formare un costante sottotesto: la solitudine e la mancanza di reti di sostegno in cui immense maggioranze femminili sono costrette a vivere la maternità, la tenace definizione di quest’ultima come principale o unico destino delle donne, il femminicidio e la violenza domestica (Nagore è figlia di un uxoricida), la precarietà del lavoro e la sempre più profonda diseguaglianza imposte dal neoliberismo, e infine l’atrocità delle sparizioni che il Messico si sta lentamente abituando a considerare “normali” e che hanno come simbolo quella dei quaranta studenti della Escuela Normal Rural Ayotzinapa, nello stato di Guerrero. Ben settemila, il 17,7 su un totale di molte migliaia di desaparecidos, sono i bambini messicani svaniti nel nulla, ed è innanzitutto di loro e delle loro madri mai stanche di cercarli che Navarro vuole parlarci, convinta che attraverso le storie dei singoli si possano e si debbano raccontare quelle di tutti. E la voce della madre di Daniel non può che colpirci come un pugno, mentre conclude: “Perché li chiamiamo scomparsi e non osiamo chiamarli morti? Perché i morti siamo noi che li cerchiamo, loro saranno vivi per sempre, per sempre”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2019

 

 

Sciami letterari – reti di autrici

Brenda Navarro, che il 7 dicembre ha presentato il suo libro a “Più libri più liberi”, è nata nel 1982 e si laureata in Sociologia e Relazioni di Genere. Oggi vive a Madrid, e dalla Spagna ha lanciato nel 2016 un progetto editoriale che prende il nome di Enjambre Literario (ovvero Sciame Letterario) per diffondere il lavoro di scrittrici e giornaliste latinoamericane, grazie alla scelta e alla pubblicazione online di inediti e opere prime. Si vanno così costruendo reti di autrici che, sostenendosi a vicenda, hanno la possibilità di esprimersi prescindendo dalle dinamiche del mercato editoriale. “Non si tratta solo di pubblicare libri scritti da donne” ha dichiarato Navarro in un’intervista a Letras Libres “ma di occupare spazi pubblici in luoghi che al momento risultano strategici, come il mondo digitale, e impedire che in esso si riproducano le disuguaglianze che viviamo ogni giorno”.

 

 

venerdì 22 novembre 2019

Da leggere: Eduardo Mendoza



Eduardo Mendoza

La città dei prodigi

Barcellona: una città chiusa tra il mare e la cerchia delle montagne, che ha conosciuto “anni di splendore e secoli grigi” e che, in balìa di ricorrenti forze centrifughe, pare da sempre impegnata nella costruzione di un’identità collettiva capace di sancire una volta per tutte la sua differenza. Uno spazio urbano concreto e insieme un luogo dell’immaginario, in apparenza offerto senza riserve allo sguardo dei rari viaggiatori e alla piaga biblica del turismo, ma in realtà pieno di segreti, zone buie e antiche contraddizioni, riflessi in un presente che sembra riassumersi nella profonda lacerazione del tessuto sociale provocata da nazionalismi opposti e speculari.

Le barricate, i roghi e le rivolte che in questi ultimi mesi hanno scatenato un’ininterrotta serie di “azioni e reazioni” sono tutt’altro che estranei, però, alla storia della capitale catalana, che in passato ha conosciuto ben altre violenze e ben più sanguinose esplosioni di furore; ce lo ricorda ancora una volta La città dei prodigi (DeA Planeta pag. 509, e. 18), romanzo del 1986 in cui uno dei più grandi scrittori spagnoli contemporanei, Eduardo Mendoza, compie una singolare ricostruzione delle vicende di Barcellona tra il 1888 e il 1929, gli anni delle due Esposizioni Universali che ne rivoluzionarono l’economia e l’immagine. Vasto e originalissimo affresco che, insieme a La verità sul caso Savolta (romanzo d’esordio dell’autore, pubblicato nel 1975), ha segnato l’avvento della postmodernità nella letteratura spagnola, La città dei prodigi riappare dopo una lunga assenza nelle librerie italiane, e, riletto nell’eccellente traduzione di Gina Maneri, conferma la qualità di una fabulazione straordinaria che elude sia il realismo sociale della posguerra, sia lo sperimentalismo degli anni ’70.

Partendo da una minuziosa documentazione sulla quale si innestano innumerevoli storie e personaggi, lo scrittore racconta la storia di Onofre Bouvila, nato nella Catalogna “selvaggia, cupa e rozza” dell’interno e approdato appena tredicenne a quella “prospera, luminosa, gioviale e un po’ pacchiana” della costa. In fuga dalla miseria più estrema, il giovane Onofre sarà distributore prezzolato di volantini anarchici tra gli operai impegnati nei cantieri della prima Esposizione, quindi venditore truffaldino di lozioni per capelli, poi delinquente e capobanda, infine ricchissimo speculatore edilizio, audace pioniere del cinema muto e deus ex machina dei più loschi affari cittadini, che durante la seconda Esposizione si inabissa in mare su un’avveniristica macchina volante, entrando definitivamente nella leggenda.

Bouvila, però, non è l’unico protagonista, perché la sua vita è indissolubilmente legata a quella della città, “personaggio” di pari (e forse maggiore) importanza: una Barcellona dipinta all’inizio come provinciale, quasi dimentica di un passato glorioso e incerta sul proprio futuro, ma presto rivoluzionata dal progetto di Ildefonso Cerdá, che, ispirandosi al francese Haussmann, demolisce le vecchie mura, disegna nuovi quartieri, apre ampi e lunghissimi boulevard per rispondere al desiderio di ordine e modernità di un’industriosa borghesia in perenne polemica con l’ostile e miope governo centrale, ma pronta a stabilire con esso lucrose complicità. Al nuovo frenetico sviluppo cittadino corrisponde il crescente potere di Onofre, che diventa milionario grazie a uno spregiudicato uso della violenza, si imparenta con una famiglia della buona società (una società profondamente classista che non lo accetterà mai del tutto) e si serve a proprio vantaggio di ogni occasione, comprese quelle offerte dal consolidarsi di correnti ideologiche diverse – socialismo, positivismo, catalanismo, anarchia – e dalla tensione costante tra sfruttatori e sfruttati, che sfocia in sanguinose rivolte operaie.

Accanto alla Barcellona dei ricchi, dei progetti modernisti, del noucentisme, vive quella dei bassifondi, del porto, dei miserabili quartieri di baracche abitati da manovali e operai immigrati, del sordido Barrio Chino, sorta di cloaca a cielo aperto dove allignano povertà, epidemie e prostituzione: due volti della città che si riflettono in Onofre, outsider la cui sontuosa facciata borghese occulta trame delittuose sempre più spericolate, delle quali i commercianti, gli industriali e le autorità sono di volta in volta vittime e corresponsabili.

Mendoza intreccia fatti reali a episodi di pura fantasia, si concede sapienti digressioni che inseriscono nuove trame in quella principale, crea con estrema libertà irresistibili leggende urbane (apparizioni di santi, statue che scendono dal loro piedistallo, un Gaudí trasformato in accattone delirante e quasi folle), esibisce citazioni e documenti sia autentici che fasulli, accosta indimenticabili personaggi del sottobosco criminale a ben più feroci esemplari delle classi dominanti e mette in scena figure come l’imperatrice Sissi, Pablo Picasso, Mata Hari o Rasputin, che sfiorano inverosimilmente l’esistenza di Onofre. E soprattutto pone la Storia al servizio della narrazione, incrociandola con generi diversi: guide turistiche, manuali scolastici, feuilletons, noir, gotico, avventura, il tutto sostenuto da quella che si può considerare la struttura portante di gran parte dei romanzi mendoziani, ovvero il poliziesco.

Oltre alla presenza della letteratura popolare, però, è percettibile anche l’eco di Cervantes, del romanzo picaresco e delle grandi narrazioni ottocentesche, da Galdós – fonte ininterrotta di ispirazione – a Dickens, e tutto viene illuminato dall’ironia, da un umorismo satirico e parodico che a volte richiama quello surreale di Valle-Inclán e che, insieme a un linguaggio dai molti registri (la parlata popolana, il gergo criminale e quello giuridico e burocratico, i catalanismi, il modo di esprimersi tipico dei diversi personaggi), rappresenta un vero e proprio “marchio di fabbrica” dell’autore. Un prodigioso pastiche, insomma, una macchina narrativa dal funzionamento perfetto, giustamente diventata un classico moderno, che racconta il passato ma nel finale ci lascia in qualche modo intuire il futuro, alludendo a una memoria collettiva in cui gli eventi si amalgamano fino a “formare una sola cosa, una catena o una china che conduceva ineluttabilmente alla guerra e all’ecatombe”. Così la sparizione di Onofre, maligno genius loci che incarna le contraddizioni della città, diventa un presagio funesto per l’intera Barcellona, pronta ad avviarsi lentamente verso le speranze deluse della Repubblica e le umiliazioni del franchismo, per rinascere ancora una volta e poi scivolare in una direzione sconosciuta, fra le turbolenze dell’oggi.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2019

 


lunedì 4 novembre 2019

Da leggere: Osvaldo Lamborghini


Osvaldo Lamborghini



Un’allegoria peronista e freudiana 

Un peronista convinto e militante, antiborghese nella vita e nella scrittura, oppure un “populista oligarchico” cinico e in malafede. Un eterosessuale che per provocare usava il rossetto e si firmava “una donna col pene”, o un omosessuale tenacemente occulto. Un rissoso manipolatore gonfio di alcol e psicofarmaci, che secondo un amico come César Aira era invece un gentiluomo dai modi aristocratici. Uno scrittore consapevolmente marginale e clandestino, noncurante della pubblicazione, o un autore angosciato dal difficile accesso al mercato editoriale. In ogni caso e per ammissione unanime, un genio avvolto da una leggenda nera, forse immeritata e artificiosa, che rischia continuamente di divorarne la letteratura.

Al centro di questa selva di contraddizioni, in cui vita e opera si intrecciano inestricabilmente, c’è Osvaldo Lamborghini, nato a Buenos Aires nel 1940 e scomparso nel 1985 a Barcellona, città dove trascorse i suoi ultimi anni in una sorta di reclusione, consacrandosi alla scrittura e a una singolarissima produzione visuale, esibita solo nel 2015 in una grande mostra al Museo di Arte contemporanea della ciudad condal, dall’eloquente titolo El sexo que habla.

Poeta e narratore che in vita pubblicò soltanto tre esili volumetti, a quindici anni dalla morte Lamborghini sembra ancora restìo a lasciarsi canonizzare, nonostante l’edizione postuma dei suoi scritti curata da Aira, l’esistenza di un pubblico di lettori ridotto ma devoto e una vistosa mole di studi critici. Quale seduzione possa esercitare uno scrittore così inafferrabile, ermetico e spiazzante, lo si può ora scoprire grazie alle edizioni Miraggi, che mandano in libreria La pianura degli scherzi (pp. 208, e. 17, a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto), prima traduzione italiana di quattro testi in prosa (della poesia abbiamo avuto un assaggio anni fa, grazie a una breve antologia commentata e tradotta da Massimo Rizzante per le edizioni Scheiwiller ), ovvero Il fiordo e Sebregondi retrocede, apparsi tra il ’69 e il ’73, accoppiati ai più recenti La causa giusta e Le figlie di Hegel.

Il più noto fra tutti è certo Il fiordo, racconto d’esordio che affida a ventidue pagine allucinate la scena di “un’orgia ostetrica” (la definizione è di Alan Pauls), in cui una partoriente viene violentata e quanti le stanno intorno si dedicano a un sesso brutale e allo scempio dei corpi altrui, dipinti come grotteschi e infinitamente malleabili, volumi da modellare, superfici da incidere per rivelarne l’interno. Un’allegoria “peronista e freudiana” che assegna ai nomi una funzione rivelatrice: le iniziali di Carla Greta Terón, la donna in travaglio, formano la sigla CGT (Confederación General del Trabajo), quelle del neonato Atilio Tancredo Vacán rimandano al sindacalista assassinato Augusto Timoteo Vandor, fautore di un peronismo senza il suo caudillo, mentre il nome dell’umiliato Sebas è l’anagramma di bases, cioè dei militanti traditi e ingannati. E se il Loco Rodríguez, sopraffatto e smembrato dai sudditi/seguaci, va identificato con Perón, la lubrica Alcira Fafó impersona Arturo Frondizi, che dà il colpo di grazia al capo tra una pioggia di slogan, peronisti e non.

Lamborghini è già tutto in questo inizio, del quale la sua opera successiva (che, oltre alla poesia e ai racconti, include un romanzo-fiume rimasto incompiuto, Tadeys) costituisce un’evoluzione ben rappresentata in La pianura degli scherzi. Degli anni ’70 è Il bambino proletario, in cui Stroppani, ragazzino povero e vessato dall’istituzione scolastica (la maestra lo chiama Storpiani!, con annesso punto esclamativo) è violato, mutilato e impiccato da tre coetanei borghesi, mossi da puro e dichiarato odio di classe. Alla maturità appartiene invece La causa giusta, narrazione inaspettatamente comica da cui deriva il titolo dell’antologia: in piena guerra delle Malvine l’ingegnere giapponese Tokuro chiama l’Argentina, suo paese di adozione, “la pianura degli scherzi”, un luogo dove l’uso sconsiderato del linguaggio può declinare in atti atroci.

Personaggi simili a sagome stilizzate interpretano i ruoli intercambiabili di vittima e carnefice, uomini dai falli inverosimili – il marchese di Sebregondi ha “un membro sottile di cinquanta centimetri composto da noduli-falangi” – e infine un diluvio di sangue e feci, sono i materiali attorno ai quali si articola una scrittura magistrale e magnetica. Sfiorando a volte l’illeggibile, Lamborghini apre nel suo teatro della violenza improvvisi squarci lirici, intreccia sarcasmo e parodia, mescola i generi sessuali e letterari, ma soprattutto esplora il nesso tra corpo, sessualità e politica, inducendo P, il filosofo Paul B. Preciado, a sottolinearne l’affinità con Sade, poiché entrambi utilizzano “il linguaggio pornografico per descrivere le forti trasformazioni politiche in cui si trovano immersi”.

Preciado include dunque Lamborghini nel proprio discorso biopolitico sul cittadino come “corpo desiderante” e sullo Stato quale “dispositivo camuffato di produzione e costruzione libidinale”, mentre Néstor Perlongher, anche lui sensibile al tema del desiderio, ingloba l’autore di Il bambino proletario nell’universo del neobarroso (termine in cui si fondono barroco e barro, ossia fango), da lui teorizzato; quanto a César Aira, sembra attribuire all’amico genealogie e procedimenti che sembrano destinati, in realtà, a illustrare e legittimare la propria personale scommessa letteraria. E le interpretazioni, com’è ovvio, non finiscono qui: sentieri diversi quanto numerosi affluiscono verso uno scrittore molto studiato ma ancora oggi poco letto, cui Ricardo Strafacce ha dedicato nel 2008 una monumentale e splendida biografia, mappa di un complesso universo esistenziale e letterario.

Se Lamborghini resta un autore unico, senza discepoli né seguaci, per il quale non sempre è possibile stabilire filiazioni e influenze a parte quelle da lui stesso dichiarate (in Le figlie di Hegel ne esplicita alcune, spesso inattese), alcune costanti lo avvicinano ad altri scrittori della scena argentina. La prima è la vena di crudeltà già presente in un testo fondativo come El matadero di Echeverría (il cui fulcro è il tentato stupro di un giovane avversario del generale Rosas) e che trova poi interpreti quali Cambaceres, Arlt, Bioy Casares e Borges con il loro La fiesta del monstruo, fino a Laiseca, Fogwill, al Gracias del giovane Pablo Katchadjian. Una crudeltà che nei testi giovanili dell’autore – come in La condesa sangrienta di Alejandra Pizarnik, scritto nei medesimi anni – acquista una sinistra qualità profetica: la sottomissione e lo strazio dei corpi, l’orgia di sangue, il martirio del “bambino proletario” possono apparire come un riflesso, fattosi arte, della violenza di allora (la Triple A di Lopez Rega, il massacro di Ezeiza, i sequestri), ma soprattutto sembrano annunciare la violenza inarrivabile della dittatura e lo sterminio di un’intera generazione.

La seconda costante è il fil rouge della politica e della militanza, rielaborato però nei termini dell’avanguardia fiorita in Argentina tra gli anni ’60 e il colpo di Stato del ’76, della quale Lamborghini fu uno degli esponenti di spicco (era, tra l’altro, membro fondatore della rivista Literal, avamposto lacaniano in Argentina). Più tardi, quando la politica non sarà che una ferita rimarginata a stento o un profondo e ineliminabile senso di stanchezza, un Lamborghini "con i capelli bianchi" dichiarerà in Le figlie di Hegel la resa su ogni fronte, la vanità di ogni illusione: “… per scoprirlo si passa per guerre e rivoluzioni. Per scoprirlo, senza poter rispondere, perché magari non ci sarà di che rispondere, perché forse: non bisogna rispondere. A parte la pazzia, la malattia, non ce n’è per niente e per nessuno, come si suol dire (l’arte no, non più: da Céline in poi sappiamo che l’arte è opera – sopraffina – di editori, commercianti, produttori di ogni genere e razza)”.

Solo a una battaglia lo scrittore argentino non metterà mai fine, quella con il linguaggio del quale tenterà di infrangere le resistenze e i limiti, forzandolo a contenere tutto: il lunfardo, i neologismi, la gauchesca, lo stile colto, gli arcaismi, una fitta trama di citazioni nascoste e giochi di parole, la ricerca di un nuovo senso e la rinuncia a esso, le distorsioni sintattiche, gli spazi vuoti, una punteggiatura irregolare e sincopata.

Non è un caso, dunque, che La pianura degli scherzi sia introdotto da una lunga nota dei bravissimi Barca e Montalto sulla sfida di rendere in italiano un simile virtuoso della lingua: la loro è una piccola lectio magistralis sull’arte di tradurre l’impossibile, che – oltre a fornire numerose piste di lettura – racconta le ragioni di una scelta audace, quella di restituire una parte di Sebregondi retrocede alla sua originaria forma poetica, volta in prosa solo per l’insistenza dell’editore. Ed ecco che la nuova scansione delle frasi proietta sul testo una luce improvvisa, ce lo avvicina: un esperimento eterodosso ma riuscito, che ci offre nuove e affascinanti possibilità.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019

 


mercoledì 16 ottobre 2019

Storie e Ritratti: Leonora Carrington



Leonora Carrington




La ragazza che voleva essere un cavallo

Quando, negli anni ’50, qualcuno chiese a Leonora Carrington se esisteva un momento storico che apprezzasse in modo particolare, rispose: “Quasi nessuno, o forse sì. C’è un momento storico che mi piace. Per esempio la Caduta del Patriarcato, che accadrà nel XXI secolo”. Morta a Città del Messico nel 2011, l’artista inglese naturalizzata messicana ha avuto il tempo di constatare che, almeno in questo inizio secolo, il patriarcato gode ancora di ottima salute. Lei, però, nel corso dei suoi novantaquattro anni di vita l’ha combattuto a ogni istante, già molto tempo prima di contribuire alla fondazione del Movimiento de Liberación de la Mujer messicano: sin dall’infanzia trascorsa nel Lancashire, dov’era nata in una ricca famiglia di industriali, la sua rivolta contro i tradizionali ruoli femminili era stata clamorosa e assoluta.

Tanto il padre Harold, primo azionista della Imperial Chemical Industries, quanto la madre Maurie, che, secondo l’uso dell’epoca, aveva demandato la cura della prole alla servitù, non riuscirono mai a domare la loro secondogenita, ben più energica e ribelle dei tre figli maschi. Leonora, detta Prim, era una bambina audace e insubordinata, la cui immaginazione si nutriva di fiabe e leggende celtiche narrate dalla nanny irlandese, e ingaggiò con i genitori una guerra all’ultimo sangue. Più volte espulsa da collegi religiosi via via più rigidi, sgradita ospite dell’elegante istituto fiorentino di Miss Penrose, e infelicemente presentata a Corte in un sontuoso abito di raso, nel 1936 la diciannovenne Leonora riuscì infine a frequentare l’accademia d’arte del “purista” Amédée Ozenfant, e, conosciuto Max Ernst durante un omaggio londinese al già celebre pittore, fuggì con lui a Parigi.

Grazie al tuffo senza rete nell’universo surrealista, in cui Ernst l’aveva introdotta, Leonora conquistò davvero la libertà così furiosamente desiderata? Non proprio: il gruppo che ruotava intorno ad André Breton aveva in serbo per le donne altri ruoli codificati, altri stereotipi. Whitney Chadwick, autrice di Mirror Images: Women Surrealism, and Self-Representation, nonché di Leonora Carrington: la realidad de la imaginacion, fa notare che “nessun movimento artistico, a partire dal Romanticismo, ha elevato la donna a un ruolo altrettanto centrale nella vita creativa dell’uomo, come ha fatto il surrealismo”, ma si affretta a sottolineare che i surrealisti la consideravano una pura proiezione del desiderio maschile: musa, femme fatale e oggetto erotico, oppure femme-enfant tutta istinto, un tramite con l’irrazionale, l’occulto, il sogno.

Molti anni dopo, Carrington confesserà: “André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti, ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli”. E ancora: “Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena per gli uomini surrealisti”. Ma era proprio un perfetto esemplare di femme-enfant che Ernst vedeva in Leonora, tanto da descriverla così nella prefazione a La Dame Ovale: ecco la “sposina del vento”, una bambina che non ha letto nulla, che addirittura non sa leggere, eppure siede, con un libro in mano, tra animali che le si avvicinano senza timore. E se contro la propria famiglia Leonora si era rivoltata con la rabbia cieca che nasce dalla disparità di forze e dall’impotenza infantile, la ribellione nei confronti del nuovo “padre” (Ernst aveva quasi trent’anni più di lei, e fama e prestigio gli conferivano un solido ascendente) fu rallentata dai mille lacci dell’amour-passion e dal timore dell’abbandono, poiché l’amante era ancora sposato con Marie-Berthe Aurenche, fragile e bigotta, che, nonostante Max e Leonora convivessero in una casetta nel sud della Francia, continuava a reclamare il ritorno del marito.

Eppure le tracce di una crescente consapevolezza e l’affiorare del rigetto verso il ruolo che le era stato assegnato (“Non avevo tempo per essere la musa di nessuno. Ero troppo occupata a ribellarmi alla mia famiglia e a imparare a essere un’artista”, dirà), si avvertono con chiarezza nei racconti che Leonora aveva cominciato a scrivere proprio a Saint-Martin, “paternamente incoraggiata” da Ernst: una produzione esigua, quella letteraria, se la si paragona alla mole di dipinti, sculture, tessuti, oggetti, gioielli, creati nel corso di una vita lunghissima.

Raccolte per la prima volta nel 2017 in The Complete Stories of Leonora Carrington dalla Dorothy Publishing Project (una piccola casa editrice americana che pubblica solo testi scritti da donne), le venticinque short stories sono apparse in italiano presso Adelphi (“La debuttante”, pag. 179, e. 17, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini), ed è probabile che quelle prodotte negli anni ‘30 riserveranno qualche sorpresa perfino agli appassionati lettori di The Hearing Trumpet (Il cornetto acustico, Adelphi 1984), scritto in Messico quando l’autrice era ormai sulla quarantina. A differenza dei racconti databili fra il 1937 e il 1940, Il cornetto acustico è, infatti, frutto di un sostanziale superamento del surrealismo, come dichiarò l’autrice a Silvia Cherem: “Anche se le idee dei surrealisti mi attiravano, non mi piace che oggi mi classifichino come surrealista. Preferisco essere femminista(…). Inoltre il mio orologio non si è fermato in quel momento, sono vissuta solo tre anni con Ernst e non mi piace che mi costringano nel ruolo di stupida. Non sono vissuta sotto l’incantesimo di Ernst: sono nata con la mia vocazione e le mie opere sono soltanto mie”.

È piuttosto nei racconti appartenenti alla sua “seconda vita” che si intravedono punti di contatto con il romanzo, traboccante di umorismo, di allusioni alla mitologia celtica ed egiziana, di incantesimi e leggende, rituali segreti e bric-à-brac alchemici. Attraverso la vicende di due eccentriche vegliarde, Il cornetto acustico narra il ritorno a un universo retto da un principio femminile (la Grande Madre in tutte le sue incarnazioni, la Dea Bianca di Robert Graves , la cui lettura aveva avuto tanta importanza per Leonora), ed è allo stesso tempo una celebrazione dell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo: uno di quegli insostituibili legami tra donne fondati non solo sull’affinità e l’affetto, ma sul riconoscimento della rispettiva autorevolezza, che, secondo la storica dell’arte Linda Nochlin, permise a ciascuna di “trovare sé stessa”, ma di farlo “insieme”.

Prima di poter scrivere un testo così ricco e profondo e al tempo stesso ilare e lieve, Carrington visse una vera e propria discesa agli inferi: la seconda guerra mondiale, l’internamento dell’ebreo Ernst in campo di concentramento, un folle viaggio senza di lui attraverso la Spagna, dove la longa manus della famiglia la raggiunse per trascinarla, sedata e quasi incosciente, in una clinica per malattie mentali di Santander, in cui trascorse mesi atroci e fu sottoposta a trattamenti inumani (un’esperienza rievocata nel breve e terribile Down Below, apparso in italiano col titolo di Giù in fondo, Adelphi 1979). Solo grazie al matrimonio di convenienza con il poeta e diplomatico messicano Renato Leduc, che le permise di lasciare l’Europa in guerra e di evitare la partenza per il Sudafrica, dove i Carrington intendevano rinchiuderla definitivamente in manicomio, Leonora approdò a quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, il Messico, e là incontrò qualcuno che aveva alle spalle un inferno anche peggiore del suo: Chiki Weiss, fotografo ungherese di poverissima famiglia ebrea, cresciuto in orfanotrofio, scampato al lager tedesco e fuggito a piedi attraverso l’Europa, amico fraterno di Robert Capa, nonché colui che aveva messo al sicuro i negativi di Capa e Gerda Taro contenuti nella famosa maleta mexicana. Non le chiedeva, Chiki, di essere altro che sé stessa, non le era padre ma compagno, riconosceva il suo diritto di vivere a modo proprio, e insieme ebbero due figli amatissimi: il matrimonio durò sessantaquattro anni, anche se ciascuno fece i conti sino alla fine con le proprie cicatrici.

Leonora, dunque, era stata una bambina furibonda, una ragazza ribelle, una musa riluttante, una prigioniera dell’istituzione psichiatrica, per poi rinascere a nuova vita, dopo la morte simbolica provocata dal Cardiazol e la fine del rapporto con Ernst. Ma non si era mai piegata a niente e a nessuno, e, sentendosi “l’autrice di un’altra realtà” più che una surrealista, aveva cominciato a lavorare su un immaginario femminile e femminista, sul rapporto tra le donne e i segreti perduti che desiderava recuperare e a proposito dei quali scrisse, nel ‘76: “Le donne non dovrebbero reclamare i loro Diritti. I Diritti erano lì sin dal principio, quello che dobbiamo fare è Recuperarli di Nuovo, includendo i misteri che ci appartenevano e che furono violati, rubati o distrutti, lasciandoci con l’ingrato compito di compiacere il maschio della nostra specie”.

Come la sua pittura, i suoi scritti, spesso “a chiave” e ispirati da quel che le accadeva o dalle persone che incontrava, amava, odiava, si popolano di personaggi femminili così decisi a conquistare o salvaguardare l’indipendenza, da pagare volentieri il prezzo dell’isolamento e del rifiuto, o da affrontare la morte. I primi racconti si rifanno ai ricordi d’infanzia e adolescenza, e sono una feroce parodia dell’alta società inglese, oltre che una sorta di allegorica vendetta nei confronti dei genitori. In La dama ovale assistiamo alla metamorfosi della giovane Lucrezia, che in forma di cavallo si rotola nella neve, e alla messa in scena della rottura con un padre crudele, ma in fondo anche di quella con Ernst: entrambi tentano di “contenere” la fanciulla artista, uno attraverso rigide norme sociali, l’altro rinchiudendola nel ruolo di bambina da manipolare con l’offerta di una libertà illusoria.

In La debuttante, Leonora esibisce il suo rifiuto per l’imposizione di una femminilità “accettabile”: al ballo organizzato in suo onore viene sostituita da una iena, che ne indossa gli abiti e nasconde il muso sotto il volto di una domestica sbranata per l’occasione. Macabra e sinistramente umoristica, la storia esprime anche un’estraneità profonda, che oppone alla “civiltà delle buone maniere” l’irruzione di un elemento selvaggio e incontrollabile, espresso dal tremendo odore dell’animale, pronto a fuggire dalla finestra dopo aver divorato la faccia-maschera. Esiste un autoritratto del 1938, oggi al Metropolitan Museum, in cui La dama ovale e La debuttante sembrano incrociarsi: davanti a una Leonora dalla chioma indomabile e dall’aspetto androgino sta una iena che espone mammelle esageratamente femminili, quale provocatorio insulto al “buon gusto”; in alto, appeso alla parete, l’amato cavallo a dondolo che, nel racconto, il padre di Lucrezia brucia senza pietà, mentre all’esterno, inquadrato dalle tende dorate di una finestra, un cavallo bianco (Leonora?) corre libero, senza briglie né sella.

L’ordine reale e Zio Sam Carrington sono invece due autentici sberleffi, uno al potere esercitato con un’assenza di scrupoli che sfocia in un cruento e comico regicidio, e l’altro all’ipocrisia della buona società, con due impeccabili zitellone pronte a eliminare i parenti impresentabili della gente comme il faut. Vola, piccione!, Le sorelle o Il settimo cavallo sono invece visioni oniriche riferibili al rapporto con Max Ernst, in cui le protagoniste vivono in un mondo claustrofobico nascondono la loro autentica personalità per compiacere un personaggio maschile più anziano, riflettendo le sensazioni della Leonora reale; in Le sorelle, per esempio, Drusilla, innamorata alla follia dell’ex re Jumart, tiene prigioniera la sorella Juniper, candida vampira alata che però riesce a fuggire: e mentre Drusilla è tra le braccia di Jumart (la cui testa è ornata, in modo più che significativo, dalla carcassa di un pavone), Juniper banchetta col sangue di una servetta e poi vola nel cielo notturno, verso la luna… Nel delirante, sensuale e fiabesco Mentre andavano lungo il margine si percepisce invece l’eco del timore di perdere l’amante, e la femminilità sfrenata di Virginia Fur, “donna selvatica”, quasi una dea della natura seguita da un corteggio di animali, infuria contro il trasparente alter ego di Marie-Berthe e dei suoi amici ecclesiastici. È in Un uomo innamorato, poi, che possiamo trovare una spietata presa in giro del maschilismo surrealista: le due donne della storia – una ladra di meloni e una moglie che si consuma in una sorta di animazione sospesa – sono ridotte al silenzio, la prima in quanto ascoltatrice coatta, la seconda in qualità di cadavere vivente, vittima della cecità e del letale talento del marito.

In Il settimo cavallo, del 1940, l’animale totem di Leonora appare per l’ultima volta, e con esso scompaiono per sempre la femme-enfant e il suo latente desiderio di fuga: a prenderne il posto è la donna artista, che ha sciolto il legame tra il proprio nome e quello di Ernst. Una rinuncia al passato che in L’attesa, scritto nel periodo trascorso a New York, quando la coppia Carrington-Leduc si incontrò con quella formata da Ernst e Peggy Guggenheim, viene dolorosamente accettata (il passato può morire, “se il presente gli taglia la gola”).

I racconti “messicani”, come Le mie mutande di flanella, Un uomo neutro, Mia madre è una vacca, Una favola messicana e pochi altri, mostrano come la cultura locale abbia arricchito Leonora, contribuendo alla nascita di una mitologia personale fitta di simboli arcani, già favorita da un forte interesse per l’alchimia e dall’inestinguibile impronta celtica. Carrington continua a scrivere storie in cui animali, creature fantastiche, mostri e spettri (tra i suoi autori preferiti c’era, non a caso, Montague Rhodes James) convivono con gli esseri umani, la realtà è capricciosamente mutevole, la natura enigmatica, densa di meraviglie e a volte minacciosa: racconti ancora pieni di ombre, di personaggi con un’identità ibrida, di provocazioni, della presenza frequente e quasi amichevole della morte, ma resi meno foschi da un’accentuata ironia e dall’esercizio di una aperta comicità.

Sempre concisa, spesso violenta e poetica, basata su libere associazioni di immagini, la prosa di Carrington sostiene a perfezione storie che, sfidando la logica e le strutture convenzionali del narrare, non si curano di arrivare a una conclusione e sciorinano un patrimonio di autocitazioni pittoriche e letterarie, da Alice all’antichissima collazione di enigmi e parabole contenuti nelle “Venticinque storie dello spettro del cadavere” della tradizione indiana. L’accostamento che viene spontaneo leggendo queste short stories, mai veramente prese in considerazione da una critica forse spiazzata dalla lingua irregolare e dalla ruvidezza della scrittura, è quello con un autore che probabilmente Leonora Carrington non ha mai conosciuto né letto, ossia Juan Rodolfo Wilcock (del quale, certo, non possedeva l’eleganza e la perfezione di stile e linguaggio), ma anche con Marosa di Giorgio, poetessa uruguayana creatrice di ibridi e mostri. La tardiva apparizione di questo corpus sorprendente – da leggersi avendo sott’occhio i quadri di Carrington, per la quale raccontare dipingendo o scrivendo era quasi la stessa cosa – potrà forse attirare la dovuta attenzione su una delle più straordinarie e insolite artiste vissute a cavallo tra gli ultimi due secoli, ampiamente rivalutata, finora, solo come pittrice e scultrice.

Peccato, però, che l’edizione Adelphi non contenga alcune informazioni che avrebbero interessato i lettori: sorvola, per esempio, sul fatto che Leonora scrisse alcuni dei suoi racconti in inglese, altri in francese, lingua comune tra lei e Ernst, altri ancora in spagnolo, e che i testi in queste due ultime lingue contengono errori di ortografia e sintassi, ognuno dei quali aggiunge sapore a storie già di per sé stravaganti (Henri Parisot, suo primo editore, si guardò bene dal correggerli). Non vengono neppure segnalate la datazione dei racconti (tre dei quali inediti) e il fatto che i cinque raccolti nella plaquette La dame ovale (Editions GLM, 1939) fossero illustrati dai collages di Ernst, il che inserisce il libriccino in una pratica estetica cara ai surrealisti, quella della collaborazione interartistica. Sono proprio i collages a permetterci di misurare ancora una volta la natura del rapporto tra Ernst e Leonora: nessuna delle immagini ha il minimo rapporto con i racconti, e rinvia invece ad altre opere del pittore. Questo totale scollamento tra segno e scrittura, forse voluto, forse casuale, non può non apparire come un’altra manifestazione di amorosa condiscendenza da parte del maturo mentore verso la sua incantevole femme-enfant. Quando si ritrovarono, prima a Lisbona e poi a New York, si sa che Ernst chiese a Leonora di restare con lui, ma inutilmente: lei si disponeva ormai a vivere un’altra vita, in un paese che l’avrebbe adorata, dipingendo instancabilmente e sognando “di vivere almeno fino ai cinquecento anni, e poi morire per evaporazione”.

  

Questo articolo è apparso sulla rivista on-line Alfabeta 2 nell’ottobre del 2018

 


martedì 15 ottobre 2019

Da leggere: Nicanor Parra


Nicanor Parra


L’antipoesia di un funambolo centenario 

Professore di letteratura ispanoamericana all’Università di Madrid, poeta e saggista, l’inglese Niall Binns è stato, insieme a Ignacio Echeverrìa, curatore dei due volumi di Nicanor Parra. Obra completa & algo + (Galaxia Gutenberg, 2006-2011), nonché di testi e antologie dedicati al grande cileno, il cui corpus poetico, così ricco di sorprese, sembra ancora capace di eludere con un guizzo il bisturi dei critici. Ed è Binns a ricordarci, in uno scritto recente, la vitalità dell’uomo e del poeta: “La vecchiaia di Nicanor Parra (morto nel gennaio del 2018 a 103 anni) è doppiamente interessante: da una parte pochi poeti – e forse nessuno – hanno vissuto altrettanto; dall’altra, non ha mai abbandonato la scrittura, né la scrittura lo ha abbandonato”.

Carico di riconoscimenti e di onori e da tempo ritirato nell’eremitaggio di una casa sul mare, nei suoi ultimi anni Parra ha pubblicato una personalissima traduzione di Re Lear, una brillante raccolta di versi nati per sostituire i discorsi delle occasioni ufficiali (Discursos de sobremesa, 2006), l’imponente catalogo di una sua mostra di poesia visuale, l’inedito poemetto Temporal, scritto durante la dittatura, e infine El último apaga la luz (UDP 2018), amplissima selezione di testi cui ha lavorato sin quasi alla fine. Proprio dalle cinquecento pagine di quella ricca antologia nasce L’ultimo spegne la luce (pp. 432, e. 20), uno dei due titoli inaugurali della collana CapoVersi di Bompiani, curato da Matteo Lefèvre che ha compiuto una scelta oculata dei componimenti ed è autore sia della traduzione con testo a fronte, sia della prefazione. Un volume, che, dopo i due brevi “assaggi” proposti da Medusa nel 2008 e da Einaudi nel 1974, presenta finalmente ai lettori italiani buona parte della vasta opera di Parra, muovendo dalla raccolta Poesie e antipoesie per disegnare un percorso poetico segnato da una continua ricerca di rinnovamento.

Nel 1954, all’uscita di Poesie e antipoesie, Parra aveva già quarant’anni e una vita intensa alle spalle: ragazzo povero cresciuto in una zona rurale, con un padre maestro di scuola e numerosi fratelli e sorelle tra i quali spiccava Violeta, cui era legato da un rapporto quasi simbiotico, Nicanor fu l’unico della famiglia a studiare, laureandosi in matematica e fisica; nel ‘43 una borsa di studio lo portò negli Stati Uniti, e nel ’49 un’altra borsa gli permise di specializzarsi a Oxford. Uno scienziato che divenne professore di fisica all’Università di Santiago, insomma, ma che nel 1938 aveva anche pubblicato Cancionero sin nombre, una raccolta di versi ispirata a Garcia Lorca e più tardi considerata un “errore di gioventù”. Poi un duplice silenzio: quello letterario, durato diciassette anni, e quello letterale, provocato da una misteriosa afasia psicosomatica che per qualche tempo lo privò della voce. Alla fine, però, il professor Parra riprese a parlare come a scrivere, preparandosi a sconcertare, incantare o indignare il mondo letterario cileno con la sua nuova e rivoluzionaria antipoesia. Che è poi semplicemente un’altra poesia, in perpetuo ascolto delle voci delle strada e delle conversazioni della gente comune, spiccatamente narrativa, incline alla beffa, al paradosso, all’esplicito erotismo e alla crudezza: una poesia che vuole sovvertire il linguaggio, decostruire la forma e mostrare la vita com’è, proponendosi quale “cronaca dell’uomo moderno”, senza per questo presentarsi come facile, perché l’apparente semplicità è carica di significati e allusioni, mentre l’umorismo quasi metafisico semina dubbi e coltiva salutari incertezze.

Rafael Gumucio, nella recente biografia Nicanor Parra, rey y mendigo, sottolinea che il poeta era di fatto impermeabile alle grandi narrazioni allora vigenti, ovvero il cristianesimo e il marxismo, ma oscillava tra il dichiararsi hombre de izquierda e l’essere “contro tutto”, rifiutando sempre e comunque militanza e dogmatismi. Parra, in realtà, assegnò a sé stesso il ruolo di “franco tiratore”, l’opposto del “poeta-soldato che non si separa mai dalla sua mitragliatrice”. Le metafore belliche non devono stupire: come scrive Binns in Nicanor Parra y la guerrilla literaria, il nuovo arrivato intendeva stringere d’assedio l’egemonia dei tre grandi “padri” locali, ovvero Vicente Huidobro (“la poesia del piccolo dio”), Pablo de Rokha (“la poesia del toro furioso”) e soprattutto Pablo Neruda (“la poesia della vacca sacra”), con il quale avrebbe ingaggiato un duello trentennale, per non essere sopraffatto da quella che Harold Bloom chiama “angoscia dell’influenza”, inevitabile in un poeta più giovane, sovrastato dall’ombra divorante del vate nazionale e futuro premio Nobel.

Altri erano i nomi che Parra, distruttore di miti, esibiva quali punti di riferimento. Alcuni (come Lorca e Whitman) vennero subito rinnegati, altri lo accompagnarono a lungo: Aristofane, Luciano, Chaucer, Cervantes e perfino Charlie Chaplin... Ma prima di tutto venivano Kafka (“il mio maestro assoluto”) e la poesia popolare, quella dei puetas che si esprimevano in musica come sua sorella Violeta e che gli erano familiari sin dall’infanzia. L’influsso di quei versi antichi e sonori emerge di continuo, da Sermoni e prediche del Cristo d’Elqui, uno straordinario poemetto degli anni ’70, alla Cueca Larga del 1958, esclusa dal volume Bompiani; ma se ne trovano tracce nel lessico, nei personaggi, nella metrica, a testimoniare non solo il rimpianto per la cultura contadina da parte di chi aveva optato con decisione per la metropoli, ma anche l’inclusione dei registri più diversi nell’antipoesia, alla quale Parra assegnò di continuo forme nuove, per timore che diventasse una formula.

Nacquero così le Hojas de Parra, distribuite come volantini prima di essere raccolte in volume, e gli Artefactos Visuales, cartoline sulle quali erano impresse brevi frasi in cui la scrittura, già mossa in altri testi da segni e abbreviazioni che sembrano annunciare con infinito anticipo quelli degli SMS, si intreccia a immagini stilizzate, attingendo a slogan pubblicitari e politici, al gergo, alle frasi fatte di radio e TV, alle scritte sui muri, agli argomenti del giorno: una sorta di twitter ante litteram, nelle mani però di un visionario sarcastico che ricava dalla cultura di massa acidi lampi di poesia. E poi ecco Graffiti from the Mausoleum of Ezra Pound, versi distribuiti senza ordine alcuno sulla pagina bianca, trasformata in una sorta di murale.

L’antipoesia, che in L’ultimo spegne la luce è rappresentata nelle sue progressive sfaccettature e metamorfosi e si dispiega in tutta la sua dirompente modernità, è dunque arrivata a disintegrare il corpo poetico, inducendo il lettore a immergersi totalmente in esso per ricrearlo in qualche modo, come il centenario funambolo avrebbe voluto. Forse per questo Ricardo Piglia ha scritto: “Di tutta questa gran tradizione poetica, quello che per me sta al di sopra di tutti è Nicanor Parra: mi sembra un poeta straordinario, uno dei grandi eventi della poesia”.

 

sabato 12 ottobre 2019

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt



Un viaggiatore, non un turista

Nel maggio del 1928, quando cominciò a lavorare per uno dei primi tabloid argentini, Roberto Arlt aveva ventotto anni, una vita tempestosa e precaria alle spalle ed era autore del romanzo Il giocattolo rabbioso, destinato a diventar un classico ma ben poco apprezzato e compreso, all’epoca, dai critici e dai circoli letterari. Dal direttore di El Mundo, Carlos Muzio Sáenz-Peña, il nuovo collaboratore ricevette l’incarico di redigere brevi colonne in cui, da flâneur ruvido e sarcastico, avrebbe disegnato graffianti ritrattini di Buenos Aires e dei suoi abitanti, innestandovi polemiche riflessioni, denunce, invettive, sberleffi. Scritte in uno stile e un linguaggio personalissimi, le Aguafuertes porteñas ebbero enorme successo e Artl conquistò così la popolarità che ancora gli veniva negata da un’opera narrativa tumultuosa nella forma come nel contenuto, aspra, eversiva, carica di ossessioni, di violenza e di critica feroce alla borghesia e al potere.

Non c’è da stupirsi se a un certo punto, temendo l’esaurimento di un filone che aveva fatto raddoppiare le tirature, il direttore decise di trapiantare altrove le Aguafuertes, facendo di Arlt un inviato in territorio argentino, poi in Uruguay e in Brasile, e infine in Europa e in Africa. Fu così che nel febbraio del 1935 lo scrittore approdò in Spagna, per dare inizio a un viaggio che l’avrebbe portato prima in Andalusia e, dopo una visita in Marocco (allora colonia spagnola), in Galizia, nelle Asturie, nel Paese basco, a Madrid, a Toledo e infine a Barcellona, per tornare finalmente in patria nel maggio del 1936, due mesi prima della sollevazione militare contro la Repubblica. El Mundo potè così pubblicare oltre duecento nuove e avvincenti Aguafuertes, inviate quasi quotidianamente per via aerea e corredate da lettere e dalle foto scattate da Arlt, in un bianco e nero che sembra contrapporsi all’abbagliante tavolozza di colori evocata nelle sue pagine.

Nella seconda metà del 1936, l’autore riunì parte dei brevi reportages sull’Andalusia e il Marocco nel volume Aguafuertes españolas, che apparve nel dicembre dello stesso anno e comportò la riorganizzazione e la modifica delle cronache: alcune vennero escluse o riscritte, altre tagliate o ampliate, la cronologia fu alterata e lo stile rivisto con cura, per conferire una solida struttura narrativa a un materiale originariamente destinato al rapido consumo dei lettori. Adesso queste sorprendenti Acqueforti spagnole (pagine 157, e. 15) sono disponibili per la prima volta anche nel nostro paese grazie a Casimiro Libri, editore madrileno che pubblica parte del suo catalogo anche in francese e in italiano; tradotti con notevole perizia da Alessandro Gianetti, i testi vengono commentati da paesaggi, istantanee, ritratti catturati dalla Kodak dell’infaticabile inviato e rappresentano una preziosa novità per i lettori di Arlt o gli appassionati di letteratura di viaggio, oltre che un magnifico esempio di giornalismo letterario.

Sempre fedele a se stesso, prima di partire lo scrittore aveva annunciato che andava in Europa per vivere “tra il popolo e con il popolo”, al contrario degli escribidores borghesi già criticati in un’Aguafuerte del 1928. Lui, invece, voleva mettere “il naso e la testa e i piedi e le mani e tutto il corpo” nella realtà della Spagna proletaria, e per questo si servì dei più comuni (e scomodi) mezzi di trasporto, alloggiò in modeste pensioni, strinse passeggere amicizie, si fermò ad ascoltare storie di vita e aneddoti per le strade e nelle osterie. Le viuzze di Cadice, il ribollire cosmopolita di Tangeri, il biancore assoluto di certi villaggi, le architetture e le feste di un’Andalusia in cui coglieva un’eco medievale e tracce dell’eredità moresca, lo spinsero tuttavia a dedicare più spazio del previsto a paesaggi e monumenti, cedendo inevitabilmente alla curiosità e allo stupore. Non per questo le “Acqueforti spagnole” si possono definire semplici cartoline illustrate, ed è assai discutibile affermare che riprendano le formule più convenzionali della letteratura di viaggio o certi stereotipi “spagnoleschi” fissati nel XIX secolo da Merimée, Gautier o Hugo, perché in realtà Arlt riservò alla cattedrale di Cadice, alla Settimana Santa di Siviglia o ai labirinti biancazzurri di Tetuel uno sguardo che diluiva all’estremo la vernice del pittoresco e si insinuava nelle fessure del colore locale.

L’Alhambra gli appare squallida, il paesetto di Vejer viene scomposto in candide e spigolose geometrie, della festa sivigliana scopriamo innanzitutto l’affanno di un’intera città che lavora alla costruzione di un sontuoso spettacolo collettivo, la scena della taverna marocchina dove gli uomini danzano sensualmente e si scambiano baci profondi sembra testimoniare un’inquietante alterità, e tutto questo, insieme alle stordenti elencazioni di quanto viene visto, annusato e ascoltato, o al frequente confronto fra l’immobile miseria spagnola e il relativo benessere argentino, induce a pensare che le Acqueforti siano anti-cartoline in cui si misura la distanza tra la realtà e un’immagine costruita grazie a letture, musica, dipinti, film, fotografie. Tra le meraviglie di un paesaggio e lo splendore di un monumento, Arlt si concentra su ciò che si era proposto: dare conto della situazione di un paese ancora arcaico eppure rivoluzionario, pieno di contraddizioni, timori e speranze. Gli operai di Cadice che indossano la tuta blu anche di domenica, senza travestirsi da borghesi come i lavoratori argentini, i pescatori di Barbate con i quali condivide una dura giornata in barca (“I minatori, i pescatori e i contadini sono la gloria proletaria della Spagna, la violenza inestinguibile che il fucile omicida della polizia non potrà mai soffocare”), le torme dei mendicanti granadini, l’infanzia che lavora undici ore al giorno nelle botteghe di Tangeri, le gitane “abominevolmente travestite da gitane” a uso dei turisti, e che solo dopo molte resistenze gli si riveleranno per come sono davvero… Alla lucida indignazione di Arlt non sfuggono lo sfruttamento dei bambini, le terribili condizioni di lavoro e soprattutto la condizione delle donne, quasi un leit-motiv delle Acqueforti: braccianti oppresse dal doppio giogo della Chiesa e del latifondo, sivigliane in “libera uscita” solo una volta l’anno, oppure, in Marocco, contadine trasformate in bestie da soma (“all’improvviso penso che la notte in cui una contadina dà alla luce, e dal suo ventre nasce una figlia, la donna deve piangere amaramente per aver messo al mondo un’altra bestia”) e ragazze portate a sposarsi in gabbie ben chiuse, come “prigioniere e martiri”.

Dopo quindici mesi di un viaggio che sembra accompagnare, tra l’altro, una svolta nella sua opera – dopo il ritorno dall’Europa non scriverà più romanzi, ma solo teatro e racconti, in alcuni dei quali si percepisce un sottile scivolamento verso il fantastico –, lo scrittore se ne andrà con tristezza e raramente, in seguito, evocherà quei giorni, limitandosi ad affermare: “… mi si spezza il cuore a parlare della Spagna e ricordarla com’era, sapendola così straziata”. E solo ottant’anni dopo, quando le cronache sulle diverse regioni spagnole verranno pubblicate nella loro integrità e in un unico volume, sarà davvero possibile rendersi conto che Arlt, viaggiatore (e mai turista) stregato da un mondo nuovo, è stato soprattutto un sensibile, attentissimo testimone capace di restituirci da un punto di vista diverso dal consueto l’intensità del conflitto sociale e politico sul punto di esplodere e di cancellare, infine, l’utopia repubblicana.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019.

 


domenica 29 settembre 2019

Da leggere: Tomás Downey


Tomás Downey


La normalità dell’orrore 

Non è difficile collocare Tomás Downey, nato a Buenos Aires nel 1984 e autore di due libri di racconti – il secondo, Il posto dove muoiono gli uccelli (pp. 120, e. 13) appare ora presso gran vía, nella traduzione di Olga Alessandra Barbato – all’interno di un nutrito drappello di scrittori contemporanei argentini che include anche nomi già noti al pubblico italiano, come Samanta Schweblin, Luciano Lamberti, Mariana Enríquez, Pedro Mairal (il suo El año del desierto è una strepitosa distopia che non sarebbe male tradurre), o Ricardo Romero, il cui nuovo romanzo El conserje y la eternidad registra la presenza di un vampiro che attraversa gli anni più foschi della storia nazionale.

Con stili molto differenti, questi autori e altri ancora lasciano affiorare la fascinazione per l’ambiguità e il non detto, le visioni post-apocalittiche, gli interrogativi sui limiti dell’umano, il dissolversi di ogni certezza; nessuno di loro si può davvero definire uno scrittore gotico, ma del gotico rivisitano spesso le risorse, creando un clima di oscura minaccia anche quando il soprannaturale non è una presenza esplicita. Sono, a ben guardare, le crisi politiche degli ultimi decenni, l’estrema crescita della povertà, l’incombere del caos sociale (fantasma sempre presente in Argentina) a venire rappresentati nei termini più diversi e inquietanti in questa narrativa che sarebbe eccessivo, ma non del tutto improprio, chiamare neogotica.

Anche Il posto dove muoiono gli uccelli si inserisce a suo modo in questo filone, alternando racconti marcatamente fantastici e altri più realistici, ma comunque perturbanti: un accostamento che suggerisce nuovi significati e crea un contrasto pieno di tensione. Così il protagonista bambino di Il primo sabato del mese scopre di colpo la possibilità della morte attraverso l’enorme cicatrice di un’operazione disegnata sul torace di un nonno prepotente e macho, mentre in Variabili una giovane madre che lavora in casa, analizzando dati statistici, rinchiude ogni giorno sul balcone il figlio che sta facendo i primi passi, decisa a sanare la fessura che la sua presenza ha aperto nella rigidissima routine produttiva cui si è consacrata.

Con una scrittura essenziale, che rifugge dalla metafora e dall’allegoria e si rifugia in frasi brevi e immagini vivide e precise, Downwey disegna atmosfere oppressive, surreali, cupe o sottilmente ironiche, conferendo un’assoluta naturalezza all’inesplicabile, scatenato da sovvertimenti misteriosi dei quali non conosciamo ragioni e origini. In Zoo, per esempio, una parte dell’umanità è rinchiusa per il divertimento altrui in un giardino zoologico dove soltanto alcuni mantengono la coscienza di sé, e in Gli uomini vanno alla guerra una donna (prigioniera di un tempo immobile, o vittima di una sadica burocrazia?), riceve più e più volte la notizia della morte di suo marito in un conflitto senza fine, ripetuta con identiche parole da messaggeri ufficiali. Sorelle, sul sortilegio sanguinoso inventato da tre bambine che sperano di eliminare il padre, e Il posto dove muoiono gli uccelli, ambientato tra la deriva familiare innescata da una nuova nascita e il bosco tenebroso e fiabesco dove due sorelline “giocano” al cimitero, sono in realtà racconti privi di elementi fantastici, ma con una tale impronta terrifica da rimandare al vasto immaginario letterario e filmico sull’alterità e la crudeltà infantile (e, sebbene Downey non la citi tra gli autori che preferisce, è qui impossibile non pensare a Silvina Ocampo e ai suoi terribili ritratti di infanzia).

Sotto la superficie dei racconti scorrono, intense e pervasive, due correnti sotterranee: una è la famiglia, la coppia, sistema sempre sull’orlo dell’implosione. L’altra è la morte, declinata in molteplici varianti: animali in putrefazione, sacrifici rituali, guerre, finzioni mediatiche o apparizioni, come in La pelle sensibile, dove una delle figure classiche del gotico, il fantasma, si insinua muto e incalzante nelle giornate della donna amata, obbligandola infine ad accettarne la presenza, con tutti i segni della malattia che l’ha ucciso. Visioni alternative spuntano come funghi velenosi dalla superficie della quotidianità, e ogni narrazione appare un piccolo universo a sé, contraddistinto da un’ambiguità estrema, perché nulla viene mai spiegato e i racconti non hanno un vero finale, ma a concluderli è piuttosto un’immagine che in un certo senso li riassume. Con singolare asciuttezza, Downey si limita a mostrare ciò che accade, non giudica né si pronuncia, offre al lettore un’illimitata libertà di interpretazione e allo stesso tempo lo obbliga a convivere con l’eco di ogni storia, insieme al disagio, alle ipotesi e alle riflessioni che porta con sé.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel settembre del 2019