mercoledì 27 dicembre 2017

Da leggere: Tintas



Il Cile di oggi in tredici racconti

“Non lasciate che vi rubino il futuro, non permettete che noi, i vostri padri, moriamo in un paese governato dagli stessi che ci hanno esiliati, che ci hanno uccisi”. Queste parole fanno parte di un appello pubblicato pochi giorni prima delle elezioni presidenziali da Raul Zurita, uno dei più grandi tra i grandi poeti cileni, che durante la dittatura fu arrestato e torturato, ma che una volta libero non scelse la via dell’esilio: rimase e diventò, insieme agli altri membri del neoavanguardista Colectivo de Acciones de Arte, veicolo di dissidenza artistica e opposizione attiva. Prostrato da una malattia di cui soffre da anni, ma per nulla incline ad arrendersi e a tacere, Zurita ha oggi sessantasette anni e dalle pagine della rivista The Clinic si è rivolto alle nuove generazioni, invitandole a mobilitarsi per sbarrare il passo a Sebastián Piñera, fratello di un ministro di Pinochet e per anni vicino all’Opus Dei e al regime dei militari, che ha già dato disastrosa prova di sé durante il suo primo mandato presidenziale, concluso nel 2014.

Grazie anche alla massiccia astensione, il 17 dicembre Piñera è stato tuttavia eletto con una larga maggioranza, ma è difficile credere che i responsabili siano i “figli” cresciuti all’ombra della dittatura (e oggi a propria volta padri) o nati quando stava ormai per concludersi; sono soprattutto loro, infatti, i protagonisti della nuova effervescenza politica che ha visto la recente affermazione del Frente Amplio (vicino al Podemos spagnolo) e la prosecuzione delle lotte del movimento studentesco, ma della considerevole fioritura culturale che oggi coinvolge teatro, cinema, arte e, più di ogni altra cosa, la letteratura. La qualità e la varietà della narrativa cilena dell’ultimo decennio, ancora troppo poco tradotta in italiano, è infatti innegabile, e proprio in questi giorni l’editore umbro gran vía ce ne offre eccellenti assaggi in Tintas. Tredici racconti dal Cile (pag. 286, e. 16), un’antologia curata da Maria Cristina Secci, ispanista attentissima alla scena letteraria latinoamericana, che ha accostato nomi importanti come quello di Alvaro Bisama, Alejandro Zambra, Lina Meruane e Alejandra Costamagna ad altri meno noti ma di sorprendente bravura, come Marcelo Leonart, Alia Trabucco e Benjamín Labatut.

Gli autori presentati, tra i migliori della letteratura cilena contemporanea, sono nati tra il 1970 e il 1988: “figli”, dunque, cresciuti tra il silenzio delle famiglie, l’onnipresenza del regime, i compromessi della post-dittatura. E di “letteratura dei figli” parla appunto Alejandro Zambra (presente nell’antologia con Fantasia, un ottimo racconto su un impossibile amore omosessuale) nel suo romanzo Modi di tornare a casa (Mondadori 2013), alludendo con questa definizione a testi che cercano di riempire i vuoti del passato e di illuminarne gli angoli bui, come accade in González, racconto in cui Nona Fernandez, scrittrice brillantissima, drammaturga e attrice, torna sul caso dei degollados, i tre militanti comunisti sequestrati, torturati e assassinati dai Carabineros a metà degli anni ’80, da lei già narrato nel breve romanzo Space Invaders (Edicola Ediciones, 2015). Un racconto che si regge sulla memoria lacunosa dell’adolescenza (la figlia del principale responsabile dei delitti era una compagna di scuola dell’autrice) e avvicina con un immaginario “montaggio” le figure di un ragazzo in piedi accanto alla bara di uno dei degollados e quella di una ragazza silenziosa, il cui padre ha dato l’ordine di uccidere. “Sono i figli. È questo che sono”, conclude Fernandez, con una frase che potrebbe far da epigrafe a tutto il libro.

La frattura generazionale, il tentativo di costruirsi un’identità che discuta quella dei genitori o semplicemente la ignori, è infatti uno dei temi principali dell’antologia, popolata di storie che attingono a risorse stilistiche estremamente varie, ma - con l’eccezione di un luminoso testo di Andrea Jeftanovic sulla malattia e la morte di un padre molto amato, e del racconto sinistramente erotico Lame di rasoio, di Lina Meruane - hanno in comune un sottofondo di estraneità nei confronti dei padri e della società che questi ultimi hanno tacitamente accettato o contribuito a costruire. Un’estraneità in cui confluiscono la pesante eredità della dittatura, l’opacità della concertación (lento passaggio alla democrazia che non ha permesso di fare davvero i conti con il passato) e le conseguenze dell’ultracapitalismo dei Chicago boys cui Pinochet si era affidato, che per anni ha trasformato il Cile in un laboratorio del neoliberismo, aumentando ulteriormente le già gravi diseguaglianze sociali.

Come sottolineano Secci e Jorge Fornet, autori dei due testi che corredano il volume, i frutti di questa percettibile crepa tra padri e figli si manifestano nelle narrazioni spesso desolate di scrittori come Carlos Araya Diaz, il cui racconto L’ultimo film è tra i più belli e formalmente audaci dell’antologia, o come Diego Zúñiga, appena trentenne (Caravan ha presentato in italiano, nel 2014, il suo romanzo d’esordio Passeremo per il deserto), che in Un mondo di cose fredde, racconto glaciale e misurato su due ragazzi che ogni sera dormono abusivamente in un diverso “appartamento pilota” di lussuosi complessi residenziali, restituisce il senso di una precarietà senza speranze.

Le periferie di Santiago, le cittadine minerarie, i quartieri dove i nonni emigranti sono approdati molti anni prima, perdendo patria e linguaggio, gli interni borghesi, le case occupate, fanno da sfondo a una narrativa incline all’autoficción più per il bisogno di raccontare la “propria” storia che per ripiegamento intimista, e che, pur legata al proprio background sociale, politico e letterario, si rivela profondamente cosmopolita. E anche nel bisogno di trovare una strada senza seguire le orme altrui si intravede un distacco significativo e salutare non solo dai padri, ma anche dai fratelli maggiori: non c’è nulla, in questi scrittori fra i trenta e i quarant’anni, di fenomeni effimeri come il McOndo di Alberto Fuguet e Sergio Gómez, che movimentò la seconda metà degli anni ’90, ed è sempre più difficile trovare traccia perfino dell’idolatrato e ingombrante Roberto Bolaño. Il turbinoso, promettentissimo presente della letteratura cilena sembra procedere per proprio conto, di rapida in rapida, intrecciando a un futuro non ancora nato i destini dei singoli autori e le differenze che portano con sé.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017 

martedì 5 dicembre 2017

Da leggere: María Gainza


María Gainza



L’arte, nutrimento o veleno 

Pubblicato nel 2014 in Argentina in sole mille copie, ed entrato l’anno scorso nei cataloghi di editori come Anagrama e Gallimard, Il nervo ottico (Neri Pozza, pag. 171, e. 15) ha una copertina da guardare con attenzione: nel vuoto pallido dello sfondo galleggia il nerissimo profil à la silhouette dell’autrice María Gainza, realizzato da Rosana Schoijett, che a un basso chignon stile Virginia Woolf ha aggiunto un ornamento simile a una macchia di Rorschach (un pettine, una corona, una pirotecnica esplosione di materia cerebrale?). Uno sfuggente non-ritratto, insomma, l’immagine monocroma e senza lineamenti di qualcuno che si autodefinisce per sottrazione, dichiarando di non essere una “vera” critica d’arte, nonostante un ricco percorso professionale indichi il contrario, e neppure una “vera” scrittrice, anche se l’incantevole testo che ci viene oggi proposto in italiano, nella traduzione di Marco Almerighi, la smentisce.

L’ingresso di María Gainza nel sorprendente vivaio delle più recenti voci femminili latinoamericane rappresenta infatti una autentica rivelazione e il suo debutto nella narrativa avviene all’insegna di una narrazione la cui misteriosa eleganza sfuma e confonde i confini dei generi, intrecciando una visione dell’arte come esperienza vitale, travolgente e quasi fisica, a una sorta di diario intimo dove confluiscono tanto le allegrie, le esperienze, le ansie di una protagonista bambina, adolescente e poi donna, quanto un ritratto pungente dell’alta borghesia argentina e della sua decadenza. Si potrebbe definire Il nervo ottico un quasi romanzo i cui undici capitoli, pur formando un tutto coerente e armonioso, si prestano a essere letti come racconti a sé, che si avvolgono a spirale intorno a un’opera d’arte e alla vita del suo autore, insieme alla rivolta di una ragazza che si allontana dalla propria classe sociale (Gainza è la “pecora nera” di un patriziato d’oltremare), al suo difficile rapporto con una madre trasudante bon ton, agli incontri più diversi in una straniante Buenos Aires coperta di neve o di cenere, a figure eccentriche come il favoloso zio Marion, che “per vivere aveva bisogno di shock estetici”, o dolorose come il fratello maggiore, con il suo carico di fallimenti e di promesse mancate.

Le sale dei Musei cittadini, rifugio dei momenti difficili, sono il luogo dove un minuscolo dipinto di Toulouse-Lautrec o un ritratto firmato da Augusto Schiavoni, in cui la protagonista si riconosce con stupore (“A undici anni ero esattamente così, con gli occhi distanti, freddi come la punta di uno spillo, la faccina sempre imbronciata e il mento supponente”), suscitano emozioni, offrono conforto, consentono di superare l’ovvio guado della competenza accademica, e, in una sorprendente catena di associazioni, aprono la strada verso altre storie e altre immagini. Memoria e quotidianità dialogano con quadri diversi per epoca e stile, non necessariamente i più famosi o i migliori, ma punti di riferimento, tappe dell’apprendimento estetico dell’autrice e di una sua intima educazione sentimentale.

Così l’incendio della casa di famiglia, per esempio, fa pensare alle rovine di Hubert Robert, e da una mostra di El Greco si scivola tra i malati di cancro che aspettano il loro turno per la radioterapia, mentre il cervo assalito dai cani da caccia dipinto da Alfred De Dreux evoca il tempo in cui il Museo dov’è esposto era un palazzo abitato dalla famiglia materna di Gainza, che pranzava davanti allo sguardo di stupore quasi attonito dell’animale morente; lo stesso sguardo, forse, di un’amica di María, una ragazza qualsiasi uccisa per errore dai cacciatori nel parco di un castello francese.

Se le biografie degli artisti oscillano tra le vite immaginarie alla Schwob e la divulgazione colta e appassionata, e se la lettura delle opere evita i tecnicismi, le vicende della protagonista (che, come nella silhouette di copertina, è Gainza eppure non lo è) vengono costruite sommando immagini, dettagli, citazioni letterarie sparse con discrezione da una voce narrativa mutevole e raffinata, che passa senza sforzo dalla prima alla seconda e terza persona, alterna l’ironia a tragedie sommesse e durezze improvvise, crea personaggi e scene di suggestione non inferiore a quella dei quadri esplorati, e soprattutto si serve di una scrittura di inusuale sicurezza.

Collage vertiginoso, come quelli verde-azzurri con cui una cugina di María ricopre, prima di uccidersi, le pareti di una villa diroccata, quasi a simulare l’onda di Courbet, Il nervo ottico ha una struttura aperta, senza un vero e proprio inizio e con molte differenti vie d’ingresso e di uscita, ma non è un labirinto, perché a farci da guida sono i sassolini rivelatori che l’autrice dissemina qua e là, dicendoci, per esempio: “si scrive di una certa cosa per raccontarne un’altra”. Oppure confessando: “Gli unici frequentatori dei musei che mi piacciono sono i bambini delle elementari. Anche se è un piacere agrodolce, perché appena si siedono in semicerchio sul pavimento gelato della sala e la maestra inizia a spiegare la pala di Velázquez, le loro facce si tingono di una tonalità tra il verde e l’azzurro, e le occhiaie si trasformano in trincee tenebrose. “Smettetela!” vorrei gridare. Se somministrata male, la storia dell’arte può essere più letale della stricnina”. Ed è forse per trasformare il veleno in nutrimento, che María Gainza ha scritto questo libro.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017