venerdì 23 ottobre 2020

Da leggere: Alia Trabucco Zerán


Alia Trabucco Zerán



La letteratura dei figli

Come in Argentina, anche in Cile nell’ultimo decennio è apparsa una considerevole produzione letteraria sui cosiddetti “figli della dittatura”, ovvero, dice Alejandra Costamagna, “una narrativa prodotta da scrittori che non hanno vissuto quelle circostanze sulla propria pelle, ma sono nati in quell’epoca e ne hanno sperimentato gli effetti attraverso la vita degli adulti intorno a loro”. Coloro che un tempo i genitori cercavano di proteggere tacendo, ora tentano di riempire i vuoti lasciati da quei silenzi, adottano un approccio intimo e soggettivo e lasciano capire di non sentirsi a proprio agio con il linguaggio e le narrazioni ereditati: più di ogni altra cosa, infatti, aspirano a esercitare “in proprio” una memoria frammentaria e incerta, piena di lacune, che però è parte ineludibile delle loro biografie e in quanto tale viene interrogata.

La sottrazione, romanzo d’esordio di Alia Trabucco Zerán, pubblicato in lingua originale nel 2015 e ora in italiano da Sur nell’eccellente traduzione di Gina Maneri (pp. 186, e. 16,50), si inserisce a pieno titolo in questo filone, ma con significative differenze che ne sottolineano l’originalità. Nata a Santiago nel 1983, cinque anni prima del plebiscito in cui Pinochet “arrivò secondo pur essendo l’unico candidato”, l’autrice scarta infatti l’autofiction o l’autobiografia ed evade dal realismo che con poche eccezioni (tra esse, la Nona Fernández di Fuenzalida o Mapocho) accomuna la “letteratura dei figli”. Il romanzo sembra inoltre annunciare le sue molte sfaccettature sin dal titolo, che indica sia l’operazione aritmetica – maniacale attività di uno dei protagonisti – sia i tentativi dei personaggi di sottrarsi al danno e alla pesante eredità di un trauma mai del tutto elaborato, e allude anche a tutto ciò che è stato sottratto: affetti, vite, parole, diritti, corpi.

Trabucco ci propone con grande abilità un contrasto di voci: quella delirante di Felipe, incanalata in monologhi interiori vertiginosi e furenti, quasi faulkneriani, senza punteggiatura e racchiusi in capitoli dalla numerazione decrescente che simula un conto alla rovescia, e quella di Iquela, più “ragionevole”, il cui spazio è contrassegnato da due segni di parentesi che non contengono nulla. Per Felipe, immerso nelle sue visioni, Santiago è una morgue a cielo aperto (impossibile non pensare a Néstor Perlongher e al suo terribile poemetto Cadaveres, su un’Argentina rigurgitante di corpi morti e abbandonati) dove defunti spettrali e derelitti appaiono ovunque, alter ego dei desaparecidos, oppure, dice Costamagna, “il loro prolungamento in un paese smemorato, di fragile e dubbia democrazia”. Il ragazzo li registra sul suo taccuino, ma senza sommarli: sottrae invece i cadaveri dalla cifra degli scomparsi, tentando di arrivare a zero, per collocare virtualmente ogni corpo insepolto nella tomba che gli spetta. Figlio di un “morto presunto”, una delle tante vittime della dittatura, Felipe si trasforma così in una sorta di Antigone folle, mossa non dalla pietas ma dall’ossessione e legata da nodi inestricabili a un’infanzia piena di segreti, oscillante tra autolesionismo, crudeltà, giochi inquietanti che inseguono la morte.

A fargli da contrappunto è il racconto di Iquela, traduttrice sempre alla ricerca del termine esatto, figlia di ex militanti che all’inizio ricorda il plebiscito del 1988 e la festa dei “grandi”, mentre lei e la coetanea Paloma, appena tornata dall’esilio in Germania, azzardavano un ingenuo tentativo di ribellione, fumando di nascosto. Orfana di padre, Iquela non sa troncare il legame soffocante con la madre, che da anni rievoca il passato e glielo offre come un dono, spingendo la figlia a trovare scampo nell’ironia, o a estraniarsi contando le cose che la circondano e componendole in lunghi elenchi.

Il romanzo si regge sul rapporto speculare tra i due protagonisti, cresciuti insieme, legati da un debito di sangue – un cedimento del padre di lei, durante un interrogatorio, ha provocato la morte di quello del ragazzo – e, durante l’infanzia vissuta in comune, dai passatempi inventati da Felipe: scomparire, “impiccare” le dita mutate in pupazzetti, collezionare croste, procurarsi ferite. Tra i due, però si inserisce la sensuale ed esotica Paloma, che deve riportare in Cile il corpo di sua madre, morta in Europa e finita a Mendoza, in Argentina, perché su Santiago piovono ceneri che impediscono agli aerei di atterrare. E Iquela e Felipe non ci mettono molto a decidere di accompagnarla in un viaggio macabro, assurdo ed eroico: varcheranno le Ande su un vecchio carro funebre preso in affitto, per poter “rimpatriare” la bara.

La vicenda si trasforma così in un percorso iniziatico il cui premio consiste nelle spoglie di un morto, mentre l’eroe, scisso in tre, cerca non di chiudere una storia, ma di inaugurarne una propria. Un cammino tenebroso e allucinato, il loro, che si conclude con l’immagine stupefacente di un hangar dove si ammucchiano le bare dimenticate di cileni mai tornati a casa. Mentre Felipe fugge verso una follia dilatata da chissà quale droga, che gli offre una visione fiammeggiante, il terzetto si scioglie, non senza porre al lettore più di una domanda: come innestare i propri ricordi su quelli altrui? Come partecipare legittimamente, da un margine nebuloso, a una memoria collettiva composta da fatti, ma anche da costruzioni soggettive? E come servirsi di questa “nuova” memoria per scardinare il presente, in cui vive intatta la violenza di ieri?

Trabucco Zerán caratterizza magnificamente i due narratori (Paloma, figlia dell’esilio, non ha una voce propria) attraverso l’uso del linguaggio, che nel romanzo assume un ruolo da co-protagonista. Come l’autrice, Iquela è ossessionata dalle parole, e, attenta agli errori di Paloma, fa per lei e per se stessa il doppio sforzo di tradurre dal cileno allo spagnolo e dallo spagnolo di un’altra epoca a quello di oggi, quasi a far presente la necessità di inventarsi un nuovo dizionario, ora che il lessico dei genitori (per i quali una cellula non aveva mitocondri e nuclei, e anche spezzarsi o parlare significavano qualcos’altro) è stato svuotato e disinnescato dal presente. Ogni cosa nel romanzo va decifrata e interpretata, tutto è simbolo o metafora: le ceneri, che arrivano da un vulcano in eruzione (o forse dal delirio dei figli, o dalla vendetta dei morti senza tomba), potrebbero rappresentare l’ombra che la dittatura continua ad allungare sul Cile di oggi, incapace di affrontare il disagio e lo scontento che lo attraversano e ancora tenacemente “figlio” delle riforme neoliberiste e di una Costituzione dai numerosi risvolti autoritari, che proprio il 25 di ottobre di quest’anno un nuovo plebiscito dovrebbe sospingere verso una profonda revisione. E il viaggio dei tre non sembra forse invertire l’immagine dei bambini silenziosi sui sedili posteriori dell’auto paterna, presente in tanti “racconti cileni di filiazione”, come ci ricorda Lorena Amaro? Qui, invece, la parte posteriore è riservata ai genitori, al loro corpo morto, e al posto di guida ci sono i figli, diretti verso un futuro del quale, tra cenere e fuoco, non si intravede ancora l’inizio.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020


lunedì 5 ottobre 2020

Da leggere: Amparo Dávila


Amparo Dávila 



Il lato dell’ombra

Bambina nel Messico povero e ancora rivoluzionario di Lazaro Cárdenas, giovane donna in quello proiettato a forza nel capitalismo moderno da Miguel Alemán, scrittrice reticente e schiva, pubblicata tra gli anni sessanta e settanta e poi lungamente ignorata da critici ed editori, Amparo Dávila è scomparsa pochi mesi fa, con la consapevolezza di aver raggiunto nell’estrema vecchiaia un riconoscimento unanime e un pubblico ben più vasto della ridottissima cerchia di appassionati lettori che ne custodivano i libri come reliquie. Prima grazie a una nuova attenzione accademica, poi attraverso la pubblicazione di tutta la sua narrativa da parte del Fondo de Cultura Económica (Cuentos reunidos, 2009), nel volgere di un decennio Dávila si è trasformata in gloria nazionale: giusta resurrezione cui non è estranea quella che si potrebbe definire una prospettiva di genere, come ricorda Alberto Chimal nella prefazione a L’ospite e altri racconti (pp. 137, e. 16,50), breve antologia appena pubblicata da Safarà nella accuratissima traduzione di Giulia Zavagna.

“Non esagero se dico che Amparo Dávila investigava già i meccanismi della macchina femminicida che in Messico uccide e annienta moltissime donne. Un classico è tale quando possiamo leggere il presente attraverso le sue pagine”, ha scritto a proposito di L’ospite Cristina Rivera Garza, romanziera, saggista e critica messicana che dell’autrice si è letteralmente “appropriata”, facendone il personaggio principale, con tanto di nome e cognome, del romanzo Il segreto (Voland 2010). Non a caso, numerosi e recenti studi analizzano alla luce del femminismo i racconti di Dávila (che, al pari di altre grandi autrici latinoamericane, ha prodotto assai poco: tre raccolte in prosa, tre di versi, un saggio), sottolineando sia lo stretto rapporto della sua scrittura con temi quali il corpo, la sessualità, il desiderio, sia il disperato tentativo dei suoi personaggi femminili di sottrarsi agli imperativi e agli stereotipi di una società profondamente patriarcale. Quasi inconsapevole e tuttavia inevitabile, la rivolta ha un prezzo altissimo, che può essere la follia, l’autodistruzione o una violenza di cui le protagoniste non si sapevano capaci: una madre riluttante si dà fuoco per non cedere all’assalto di creaturine striscianti sorte dal suo embrione abortito; due donne terrorizzate si alleano per uccidere un ospite feroce e misterioso, imposto da un marito padrone; il sogno angoscioso di una ragazza si trasforma nella realtà di un cuore strappato…

Lette in questa chiave, le storie sono da intendere come espressione della collera e della frustrazione di chi non può decidere né agire, e sembrano quasi annunciare le voci e le rivendicazioni delle nuove scrittrici latinoamericane, che con sorprendente energia vanno abbattendo gli ostacoli con cui hanno dovuto misurarsi le loro “madri” letterarie. Ma fermarsi a una lettura di genere – peraltro rifiutata dall’autrice, che diceva di “rispettare le opinioni della critica senza condividerle” – è riduttivo almeno quanto adottare l’opinione più largamente diffusa, che vede nell’opera di Dávila un esempio di letteratura fantastica nella sua variante gotica.

Ha ragione Alberto Chimal, quando sostiene che la narrativa della scrittrice messicana si oppone di per sé alle tassonomie critiche e alle classificazioni assolute: la naturalezza con cui combina quotidianità e orrore, riversandoli l’uno nell’altro, e la sua abilità nel servirsi del non detto, la rendono sufficientemente originale da situarla in un territorio di confine, simile a una ragnatela di silenzi ancora parzialmente inesplorata (secondo Irene González, del resto, sarebbe una vera e propria “poetica del silenzio” a caratterizzare la proposta estetica dell’autrice), e suggeriscono piuttosto di affrontarla da una pluralità di prospettive.

Quello di Dávila è un mondo domestico e borghese, concreto e grigio, che all’improvviso vira al nero più cupo: una promessa sposa è chiusa in una cella (prigione, manicomio, il castello di un vampiro?) ad aspettare un visitatore che forse è solo un desiderio erotico represso; due inarrestabili e sadiche creature (scimmie, troll, bambini odiosi?) devastano la casa e la vita di chi le ha ricevute in eredità; la cucina si rivela stanza delle torture, mentre esserini dagli occhi imploranti (alieni, animaletti, bizzarri molluschi?) vengono bolliti vivi per diventare pietanza prelibata; un uomo ricco assiste al proprio funerale (un sogno, una premonizione, un avvertimento?), abbastanza misero da rivelare l’astio della moglie tradita e dei figli oppressi.

In spazi riconoscibili e convenzionali, governati da un malinconico e soffocante decoro, l’autrice si affretta a inserire un elemento perturbante o terrifico: visioni oniriche e deliri, l’insinuarsi ossessivo della morte, la presenza di creature mostruose e indefinite dai vaghi tratti animaleschi (occhi gialli o sporgenti, voce che gracida o ruggisce, rapide zampate, un molle strisciare), ma non prive di inquietanti caratteristiche umane.

La nota di fondo è un’ambiguità resa estrema e destabilizzante da quello che Dávila non ci mostra, da ciò che si rifiuta di dire o di spiegare, dagli “spazi in bianco” che non cancellano la realtà, ma la tingono di minaccia e di incertezza. Per contrasto, la struttura dei racconti è semplice e solida, quasi tradizionale, con rare concessioni a tecniche narrative come la frammentazione o l’ellissi, care agli autori della Generación de Medio Siglo, di cui Dávila non fece realmente parte, non solo per una personale ritrosia, ma anche su consiglio di Alfonso Reyes, figura capitale della cultura messicana, del quale fu segretaria e allieva.

Lo stile essenziale, trasparente, sobrio, con rare venature poetiche, prevede un uso estremamente parco delle descrizioni e qualche rapida, folgorante immagine. Ma questa esibita semplicità è ingannevole e sembra occultare una sorta di corrente sotterranea, di scrittura “invisibile” cui l’autrice ha affidato, forse, le sue più segrete intenzioni: far sì che reale e fantastico si ibridino e si reinventino reciprocamente, obbligando il lettore ad ampliare il concetto di realtà e a includervi “il lato dell’ombra, che sempre ci accompagna”.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020


Da leggere: Irene Solà


Irene Solà


Le voci delle nuvole e dei funghi

Gli scrittori di lingua catalana hanno rappresentato a lungo una sorta di “segreto” chiuso nei confini di una lingua parlata da meno di dieci milioni di persone, soggetta a significative varianti locali e, durante il franchismo, espulsa dalle scuole e relegata all’oralità quotidiana. Da diversi anni, però, con il formidabile sostegno dell’Institut Ramon Llull e dopo aver approfittato della “vetrina” offertale nel 2007 dalla Fiera di Francoforte, la letteratura catalana va sciorinando i suoi tesori in luoghi che praticamente ne ignoravano l’esistenza. Quasi a recuperare il tempo perduto, accanto a classici come Mercè Rodoreda e ad autori contemporanei già affermati, appaiono oggi nelle nostre librerie opere nuove e nuovissime, come quelle di Irene Solà, nata nel 1990, artista visuale, poetessa di talento – Pequod ha appena pubblicato Bestia (pp. 73, e. 12), una raccolta di versi in cui si parla di genere, desiderio e identità - e romanziera di immediato e meritato successo.

Dopo l’esordio in prosa nel 2018 con Els dics, Solà – convinta che scrivere in catalano sia, ora più che mai, anche un atto politico – pare aver raggiunto la piena maturità con Io canto e la montagna balla (ora tradotto da Stefania Maria Ciminelli per Blackie Edizioni, pp. 208, e. 18,90), recente vincitore del Premio dell’Unione Europea per la Letteratura, che va ad aggiungersi ai riconoscimenti già collezionati in patria: un romanzo lontano dalle mode correnti, che sin dalle prime righe rivela una qualità stilistica fuori dal comune.

Nata e cresciuta a Malla, un villaggio ai piedi dei Pirenei, Solà ha studiato e lavorato all’estero, dall’Islanda all’Inghilterra, ma il romanzo ha salde radici nella sua terra d’origine, oltre che nella produzione artistica in cui l’autrice combina fotografia, scrittura, disegno, echi digitali, video che indagano sul rapporto tra realtà e immaginazione e sui confini della comunicazione. Prima di scrivere, si è concentrata su una zona rurale dei Pirenei (Camprodon e Prats de Mollò, alla frontiera con la Francia), esplorando i luoghi, facendo mille domande e indagando su fiabe, leggende e usanze ancora vive, per poi elaborare e accostare storie di esistenze unite dalle tradizioni, dall’isolamento, da presenze ultraterrene accettate con semplicità, dal confronto con una natura durissima, indifferente ma a tratti materna.

Le nuvole, le piante, gli animali, le montagne, le immortali “donne d’acqua”, le guaritrici, i fantasmi, la gente, tutti hanno qualcosa da raccontare e lo fanno in prima persona, con un uso frequente di onomatopee: nella voce delle nubi destinate a trafiggere con un fulmine il contadino-poeta Domènec, si percepisce il peso dell’acqua che gonfia il ventre dei cumuli grigi; il sussurro del capriolo in fuga è fatto di pause e fruscii; il giubilo delle “trombette dei morti”, funghi-femmina che si chiamano l’un l’altro “sorella”, afferma la certezza di una eterna rinascita e annuncia il piacere di chi se li ritroverà nel piatto. E ciascuna delle voci che appartengono a uomini e donne di ogni età, vivi o morti, ha una sonorità, un carattere e un’intonazione tutti suoi, che la definiscono all’istante.

È dalla morte di Domènec, narrata in una brevissima scena iniziale (“L’uomo crollò sull’erba, il prato porse una guancia contro la sua, e i nostri rivoli d’acqua, concitati e contenti, gli si infilarono nelle maniche della camicia, sotto la cintura, nelle mutande e nei calzini, in cerca di pelle ancora asciutta. Morì.”) che si dipana il romanzo, con capitoli simili a tasselli di un puzzle pronto a ricomporsi da solo e pieno di figure situate in punti diversi del tempo e della Storia, ma sempre collegate, sempre vicine. Una morte apre la strada a un’altra (anche il figlio di Domènec muore per un assurdo incidente), una vita chiama vite nuove, il passato non vuole andarsene (spettri quasi tangibili, “streghe” tenacemente presenti benché impiccate secoli prima da uomini ottusi, una scia di ruggine e scarpe rotte lasciata da chi percorse quei sentieri per rifugiarsi in Francia, alla fine della Guerra Civile), ma in qualche modo feconda il presente.

Frammentario nella struttura, il testo è unificato dal ritmo di una scrittura musicale e poetica, dai brillanti incastri fra le varie vicende e dai mille dettagli e immagini che si rincorrono in pagine singolarmente “visive”, per disegnare un ritratto della Catalogna rurale passata e presente, autentica e al tempo stesso reinventata e fiabesca: un minuzioso diorama spazio-temporale che coniuga la modernità con un’identità antica e con tutto ciò che “non si vede”. Evitando le trappole di un realismo magico in versione catalana, dell’idillio campestre o del fantastico più trito, Solà sembra rimandarci a una versione aggiornata e caleidoscopica del “ruralismo” caro ai modernisti e in particolare a Victor Català (alias Caterina Albert), l’autrice di Solitudine (Elliot, 2015), un capolavoro datato 1905 che in Italia è passato quasi sotto silenzio.

Anche se l’estiu mascle – ossia lo stile aspro e rude – di Solitudine e il suo cupo senso della tragedia sono molto diversi dallo slancio gioioso di Io canto e la montagna balla, entrambe le autrici condividono l’interesse per i miti autoctoni, per un’identità e una lingua “originarie”, per la mutevole bellezza del paesaggio. E sono attentissime alla condizione femminile: se Català denuncia la violenza subita dalla sua protagonista e ne rivendica il diritto a una libertà conquistata a caro prezzo, Irene Solà lascia che nel suo libro le donne impongano le loro storie, raccontandosi e rifiutando di “essere raccontate”. Mia che vive col suo cane e il fantasma del fratello, Cristina e la sua compagna Alicia, Carmeta con un braccio solo, Blanca, la encantada incinta di un uomo venuto da lontano, Siò consumata dal lavoro, Neus che “vede” e scaccia le presenze maligne… voci allegre, ironiche, disperate, sagge, beffarde, che parlano in proprio nome e non negano il dolore, ma sanno che può diventare “memoria, sapere, vita”.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020