lunedì 27 gennaio 2020

Da leggere: Rodrigo Fresán


 

Rodrigo Fresán


Un’avvincente complessità

Argentino residente a Barcellona da più di vent’anni e, purtroppo, poco tradotto in Italia, dove Mondadori ed Einaudi hanno pubblicato due dei suoi romanzi, Rodrigo Fresán è oggi un autore tra i più interessanti, originali e controcorrente del panorama internazionale, come testimonia l’imponente trilogia di oltre duemila pagine (che l’autore preferisce chiamare “trittico”, paragonando ogni libro alle stanze di un’abitazione, dove di volta in volta si spenga o si accenda la luce) edita da Literatura Random House e inaugurata nel 2014 da La parte inventada, proseguita nel 2017 con La parte soñada e conclusa di recente da La parte recordada.

I primi due volumi sono già presenti nelle librerie americane e francesi grazie a Open Letter e a Seuil (The Invented Part ha ricevuto nel 2018 il Best Translated Book Award USA, e in Francia l’autore è stato insignito del Prix Roger Caillois), mentre in Italia l’editore Liberaria ha da poco pubblicato, nell’impeccabile e attentissima traduzione di Giulia Zavagna, La parte inventata (pp. 704, e. 25), che consente di penetrare in un testo potente e ambizioso, ricco di digressioni e incisi, di squarci saggistici, di irresistibili trame secondarie innestate su quella principale e di infiniti riferimenti musicali, cinematografici e letterari, a conferma del fatto che la scrittura di Fresán affonda le radici sia in quella che si usa chiamare cultura pop (e che viene qui dispiegata e rimpianta) sia in una sterminata ed eterogenea biblioteca personale. Personaggio centrale è uno Scrittore nato negli anni ’60, il cui successo va declinando e che decide di scomparire, mentre attorno alla sua opera e alle sue memorie si installa un turbine di figure disegnate con speciale perizia, a partire da Penelope, sorella ai confini della follia, da ragazzotti alquanto cinici, da una giovane scrittrice di best-sellers chiamata IKEA, da presenze come Francis Scott Fitzgerald e il suo amico Gerald Murphy, che oscillano tra presente e passato e sono funzionali a una grandiosa (e rabbiosa) invettiva sulla fine della letteratura, su un sistema editoriale omogeneo all’industria dell’intrattenimento e su un universo mortalmente digitalizzato, in cui lettura e scrittura prosperano, ma nel modo più disfunzionale, irrilevante e privo di senso. Come ormai accade di rado, Fresán opta per una complessità avvincente, piena di trappole, sorprese e suggestioni destinate ad allettare il lettore ostinato, colui che a uno scrittore chiede di non limitarsi a raccontare, ma, per l’appunto, di saper scrivere, di insinuarsi nelle pieghe del linguaggio, di esplorare e produrre il nuovo (o almeno di provarci), di spingersi e di spingerlo oltre i confini di tutto quanto è facile e rassicurante. Un romanzo come La parte inventata rappresenta una sfida entusiasmante per chi legge e una scommessa vinta per chi lo ha scritto, e soprattutto conferma la convinzione del suo autore che “lo stile è l’unica risorsa rimasta alla letteratura in un’epoca completamente digitale”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2020


Da leggere: Álvaro Cepeda Samudio



Álvaro Cepeda Samudio


Il discepolo del “savio catalano” 

A meno di averlo incontrato nelle memorie di Gabriel García Márquez, dove è spesso presente in qualità di sodale e amico fraterno, o in Cent’anni di solitudine, dove figura come uno dei discepoli del “savio catalano”, non è facile che i lettori italiani conoscano Álvaro Cepeda Samudio, ma neppure nel suo paese d’origine, in realtà, questa singolare figura di intellettuale ha ricevuto tutta l’attenzione che merita, anche se durante la sua breve vita è stato scrittore, giornalista, poeta e uomo di cinema, (suo è La langosta azul, considerato il primo film colombiano d’avanguardia), dispiegando in ogni campo un talento sostenuto da sconfinate letture e dalla passione per le arti visive.

La natura sperimentale e audace della sua narrativa è stata per lungo tempo oggetto dell’indifferenza o dell’ostilità di una cultura ufficiale messa in discussione dal Gruppo di Barranquilla, del quale Cepeda e García Márquez erano membri e che negli anni Cinquanta avviò il rinnovamento della letteratura, dell’arte e della critica colombiane, fin troppo fedeli alle convenzioni ereditate dal XIX secolo. La leggenda che avvolge ancora oggi la vita dello scrittore, inoltre, ha attirato l’attenzione più sull’esuberanza e le eccentricità del personaggio che sulla sua opera, come già si intuisce dalla recensione di García Márquez a Todos estábamos a la espera (magnifico libro d’esordio) pubblicata nel 1954 su El espectador, in cui si parla soprattutto della tumultuosa personalità di un giovane che “ha qualcosa del camionista e del contrabbandiere di sogni” e che, nonostante abbia trascorso “almeno dieci anni nei cinema e altri dieci nei bar”, ha letto tutti i libri possibili e scritto “il miglior libro di racconti mai pubblicato in Colombia”. Proprio l’immenso successo di Márquez, protagonista indiscusso del boom, ha infine contribuito a mettere in secondo piano la produzione dell’amico, singolarmente esigua a causa della precoce scomparsa (nato nel 1926 a Barraquilla, Cepeda morì a quarantasei anni), ma anche degli innumerevoli interessi che lo spingevano in direzioni diverse.

Non c’è da stupirsi, dunque, se l’edizione dell’opera omnia di uno scrittore così tenacemente segreto è apparsa solo in anni recenti grazie alla cura di Fabio Rodríguez Amaya, professore di letteratura ispano-americana all’Università di Bergamo, che ha continuato con rara competenza il lavoro di revisione e “restauro” dei testi iniziato dall’ispanista Jacques Gilard, il cui frutto è ora parte della Colección Archivos pubblicata da Alfaguara per conto dell’Unesco e, oltre alle due antologie di racconti e all’unico romanzo di Cepeda, include saggi di specialisti, immagini, documenti e materiali d’archivio. Proprio a questa impresa critica ed editoriale, che consente di leggere per la prima volta l’autore nella sua interezza e di inquadrarlo in un preciso contesto, si rifà la versione italiana di La casa grande (Castelvecchi, pp. 164, e. 17,50, traduzione di Alessandro Secomandi), corredata da una presentazione di Rodríguez Amaya che contiene quella breve e densa di García Márquez per la prima edizione in lingua originale del 1967.

Entrambi i prefatori sottolineano come il romanzo di Cepeda si leghi a un evento storico, il cosiddetto Masacre de las Bananeras avvenuto nel 1928, quando l’esercito colombiano pose sanguinosamente fine allo sciopero dei lavoratori impiegati nelle piantagioni della United Fruit, la compagnia nordamericana alla quale, sin dalla fine del diciannovesimo secolo, il governo colombiano aveva regalato vasti territori e privilegi tali da renderla “uno stato nello stato”. Il fatto che la strage sia raccontata anche in Cent’anni di solitudine (pubblicato un anno dopo La casa grande) e che nei due romanzi appaiano famiglie patriarcali segnate dall’isolamento e dall’incesto, testimonia certo la comunanza di interessi tra i due scrittori, ma non consente di ipotizzare una qualche affinità fra testi che sono profondamente diversi, al di là della loro spiccata qualità innovatrice.

Grande conoscitore della letteratura inglese e nordamericana, Cepeda, che aveva assorbito la lezione di Joyce e di Faulkner, rinuncia alla linearità del racconto, compie una diversa scelta di stile in ciascuno dei dieci capitoli e si apre alle più ardite influenze moderniste, rielaborandole a suo modo. Simile a un mosaico che esige dal lettore l’attenzione necessaria a ricomporne le tessere, La casa grande si affida così a un’insistita frammentazione, voci che narrano la medesima storia da prospettive complementari o contraddittorie, ricordi che divergono inevitabilmente dalla versione ufficiale dei fatti, rappresentata dal tracotante linguaggio di un documento storico inserito nel cuore del romanzo, ovvero l’autentico decreto del generale Cortés Vargas, colui che diede l’ordine di mitragliare la folla.

Il massacro compiuto dall’esercito in nome e per conto della United Fruit non ci viene restituito, tuttavia, nei toni di esplicita denuncia di un pamphlet, o attraverso i cataloghi di atrocità caratteristici di quel “romanzo della violenza” che associava un ineludibile tema nazionale a una povertà estetica desolante; Cepeda mette in scena i crimini del governo, dei nordamericani, dei militari e dei latifondisti in modo ellittico e indiretto, evocando uno scenario plumbeo e soffocante in cui l’angoscia, il senso di pericolo e il sentimento dell’ingiustizia affiorano, grazie alla somma di dettagli quasi irrilevanti, dalle succinte descrizioni di taglio cinematografico e da dialoghi di estrema asciuttezza, dietro ai quali si intravede la lettura di Hemingway.

La storia collettiva incarnata da contadini e soldati, appartenenti alla medesima classe sociale ma costretti ad affrontarsi, si specchia in quella degli abitanti senza nome della casa grande, tre infelicissime generazioni dominate prima da un Padre implacabile, esponente e simbolo dell’oligarchia bananera, e poi da una sua terribile Figlia ed erede; due fili narrativi che finiscono per intrecciarsi l’uno all’altro, perché a un "fuori" tropicale fatto di canali, pioggia e fango, teatro dello scontro e dell’eccidio, corrisponde il “dentro” claustrofobico della famiglia, un microcosmo che è trasparente metafora dell’esterno. E tra monologhi incrociati, brevi flash, salti temporali a volte oscuri, fuggevoli squarci lirici, la sobria scrittura di Cepeda, di precisione e intensità straordinarie (e proprio per questo, forse, così difficile da restituire in un’altra lingua), ci impartisce quella che García Márquez ha definito “una splendida lezione di trasmutazione poetica”, capace di consegnarci l’essenza mitica degli eventi “senza nascondere o mascherare la gravità politica e umana del dramma sociale”.

 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2020


lunedì 13 gennaio 2020

Storie e Ritratti: Norah Borges

Risultati immagini per norah borges

Norah Borges


Un silenzio raramente interrotto

Si intitola Norah Borges. Una mujer en la vanguardia, la si può visitare fino al marzo del 2020 nel Museo de Bellas Artes di Buenos Aires e si presenta come qualcosa di più che una mostra antologica dedicata a un’artista insolita: le duecento opere recuperate con pazienza dal curatore Sergio Baur ed esposte insieme a fotografie, volumi rari, citazioni, alludono infatti anche alla storia culturale di una città e ai legami tra “due rive” unite da una lingua comune, ma separate da un oceano e da storici rancori.

Nata nel 1901 e morta nel 1998, nel corso della sua lunga vita Norah partecipò alle avanguardie degli anni ’20, visse l’effervescenza culturale della Repubblica spagnola e l’esodo dei rifugiati dopo la vittoria di Franco, conobbe i più importanti letterati e artisti del ’900, vide l’inizio di grandi avventure editoriali e letterarie, assistette a radicali cambiamenti politici e andò brevemente in carcere per “aver dato scandalo” nella pubblica via insieme alla madre Leonor, gridando slogan contro Perón. Ma soprattutto, a partire dall’adolescenza, non si stancò di produrre magnifiche xilografie, dipinti a olio, tempera e acquarello, mappe splendide ed evocative, innumerevoli illustrazioni destinate a riviste come Proa, Prisma e Martín Fierro, o ad accompagnare le prime edizioni di autori famosi, quali Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Alfonso Reyes, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Julio Cortázar.

Tra quanti chiedevano la sua collaborazione, i più assidui furono il marito Guillermo de Torre - brillante critico letterario, storico delle avanguardie e anima della casa editrice Losada, fondata dagli esuli spagnoli - e il celeberrimo fratello maggiore Jorge Luis detto Georgie, le cui ombre imponenti si proiettano sulla vita e l’opera di Norah, tanto che parlare di lei significa inevitabilmente evocarle: non a caso la mostra espone, accanto ai molti ritratti di Guillermo, un’immagine di Borges a grandezza naturale, seduto davanti a un’Annunciazione dipinta dalla sorella.

Quando Norah era una bambina audace, pronta ad arrampicarsi sugli alberi e a trascinare il timido fratello in giochi fantasiosi, il loro legame era stato strettissimo, quasi simbiotico, e tale era rimasto durante l’adolescenza e la prima giovinezza, trascorse fra Spagna e Svizzera per cercare inutilmente un rimedio all’imminente cecità paterna. In quegli anni, decisivi per la loro formazione, i ragazzi Borges avevano scoperto le rispettive vocazioni e frequentato artisti e scrittori (anche se Norah non aveva il permesso di seguire Georgie nei caffé dove ci si riuniva per discutere: un territorio tutto maschile, vietato a una signorina), e nel 1919, dopo l’adesione di entrambi all’ultraismo, era avvenuto l’incontro con il madrileno de Torre, immediatamente colpito dal talento della giovanissima artista, collaboratrice assidua delle riviste di avanguardia.

Dopo il ritorno della famiglia in Argentina e un lungo fidanzamento, i due si sposarono nel 1928, “proprio come in un romanzo da quattro soldi”, fu il commento sprezzante di Georgie, e da allora Norah dovette barcamenarsi tra due uomini che si detestavano, mentre una distanza sempre più percettibile, anche se affettuosa, la separava dal fratello (Bioy Casares non mancò di registrare nel suo diario i perfidi commenti di Borges su Guillermo, che a sua volta lo riteneva “nazionalista, xenofobo, sdegnoso di tutto ciò che significa stile moderno e sensibilità contemporanea”). Jorge Luis non perdonò mai al cognato di avergli rubato la sorella, portandola con sé nella Spagna repubblicana dove Norah strinse rapporti con donne formidabili come la poetessa Carmen Conde e la pittrice Maruja Mallo, frequentò il femminista Lyceum Club e creò costumi per la Barraca di Garcia Lorca. Furono, quelli, gli anni più intensi della sua vita, presto interrotti dalla guerra civile, dalla fuga a Parigi e dal definitivo ritorno in Argentina, che accentuò un distacco dall’avanguardia già latente nel 1921, quando i Borges avevano rimesso piede in una Buenos Aires quasi irriconoscibile, proiettata verso una modernità “periferica” ma tumultuosa.

Dopo il progressivo abbandono della xilografia e delle influenze surrealiste o cubiste, che il percorso della mostra non manca di mettere in evidenza, la nuova poetica di Norah venne annunciata con chiarezza in un suo scritto del 1927 per la rivista Martín Fierro, intitolato Un cuadro sinoptico de la pintura: “Può dare gioia solo la rappresentazione di un mondo perfetto dove tutto sia ordinato, dai contorni nitidi, dai colori limpidi, dalle forme definite…”. Una sorta di ritorno all’ordine che probabilmente coincide con l’inizio di un personale viaggio introspettivo, e che molti attribuiscono all’influenza di de Torre, pronto a esaltare la “sensibilità femminile” della fidanzata, e agli echi di un clima culturale la cui più vistosa espressione fu il saggio El nuevo romanticismo di José Díaz Fernández (influente giornalista e scrittore, nonché fondatore della rivista repubblicana Nueva España), a favore della riumanizzazione dell’arte e del ritorno a una femminilità tradizionale.

Nella quiete della sua casa, Norah proseguì una straordinaria e mai abbastanza lodata attività di illustratrice e continuò a sviluppare un’opera pittorica sempre più lontana dal mondo reale e dai suoi conflitti, creando un universo a colori pastello fatto di interni spogli, giardini chiusi, edifici geometrici ornati da balaustre, luoghi dove è sempre estate e nulla invecchia o si guasta, popolati da ragazze sognanti e bambini, sirene, coppie di innamorati (tutte le figure maschili assomigliano a un Guillermo per sempre giovane) e angeli musicanti, espressione di un sentimento religioso già presente nelle incisioni giovanili e diventato via via più forte.

Moglie e madre impeccabile che per dipingere si accontentava di un angolo della biblioteca domestica, sorella devota che, nonostante i due volumi di poesie pubblicati in Europa, aveva rinunciato alla scrittura per non “invadere il territorio” del fratello – lo afferma Jorge Luis nel breve e tardivo omaggio contenuto in un libretto del 1977, apparso prima in italiano che in spagnolo –, pittrice “della grazia e della tenerezza”, Norah sembrava dunque corrispondere alle aspettative della società, della famiglia, degli intellettuali che all’epoca proiettavano un’immagine di delicata femminilità su scrittrici e artiste, contrapponendola alla “debordante sensualità ostentata da alcune poetesse”, come la plebea e autodidatta Alfonsina Storni, l’anarchica Salvadora Medina Onrubia e le uruguayane Juana de Ibarbouru e Demira Agustini, i cui temi erano il desiderio e la libertà di viverlo ed esprimerlo.

In Norah Borges: la avanguardia enmascarada, May Lorenzo Alcalá suggerisce tuttavia che l’obbedienza alle soavi convenzioni di un’arte al femminile fosse solo un travestimento, e invita a cogliere l’inquietante ambiguità delle figure dipinte da Norah, androgine e asessuate, irraggiungibili e assorte: le bocche, così minuscole da scomparire, non sorridono mai, gli occhi fissano ignote lontananze, i paesaggi urbani hanno un che di metafisico, l’armonia nasconde innumerevoli segreti. L’arte di Norah Borges è misteriosa, sfuggente, nega la propria ingenuità proprio mentre la esibisce, e la sua luce tiene così ostentatamente a bada l’oscurità che non può fare a meno di evocarla.

Biografi e amici ricordano come il fratello maggiore usasse affermare che l’odiatissimo cognato aveva confinato Norah nell’ombra domestica, convincendola ad anteporre la famiglia all’arte, ma Estela Canto – uno dei più noti tra gli amori infelici di Jorge Luis, che le dedicò El Aleph – sostiene in un suo libro di memorie che Borges non capì mai la felice ritrosia di sua sorella, né si rese conto che Guillermo si era limitato ad accettarne la volontà e il bisogno di solitudine (come Silvina Ocampo, della quale era grande amica, anche lei avrebbe potuto dire: “Non sono socievole, sono intima”). Tutt’altro che passiva e manipolabile, nascosta dietro la sua “maschera”, Norah riuscì a dipingere indisturbata, ricavandosi uno spazio tra le potenti figure maschili che la attorniavano; e mentre lei si allontanava dalla scena pubblica, da ogni mondanità e dalle esigenze del mercato, Borges diventava il più mediatico degli scrittori, fino a trasformarsi in un’icona pop. È inevitabile chiedersi, allora, se il silenzio così raramente interrotto che avvolge ancora oggi l’esistenza e l’opera di Norah Borges non sia il frutto della scelta di percorrere senza compromessi la propria strada, sottraendosi con mite fermezza alle richieste del mondo.

 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2020


Da tradurre: Dolores Reyes


Dolores Reyes



La ragazza che mangiava la terra

Tra premi internazionali, apprezzamento della critica e traduzioni, il 2019 è stato un anno davvero importante per le scrittrici argentine, al punto che si è parlato, forse con eccessiva precipitazione, di un nuovo fenomeno letterario ed editoriale, che accosta a nomi già noti altri nuovi e promettenti. Su tutti spicca quello di Dolores Reyes, nata nel 1978 a Buenos Aires e autrice di Cometierra, opera prima il cui considerevole successo (tre edizioni in poco tempo e vendita dei diritti in cinque paesi) è nato da un passaparola entusiasta che ha finito per richiamare l’attenzione dei critici, dei media e degli editori stranieri: un fatto inusuale per un’esordiente del tutto sconosciuta, e per di più estranea agli ambienti della cultura porteña.

Maestra elementare in quartiere difficile, madre di sette figli (il primo lo ha avuto a diciassette anni), femminista militante sin da ragazzina, lettrice instancabile, Reyes è approdata a un laboratorio di scrittura solo dopo la fine del suo matrimonio, decisa a riscattare una vocazione germogliata ai tempi della scuola ma subito messa da parte. E trovare il tempo per scrivere, riscrivere e limare il suo quasi perfetto romanzo d’esordio è stato tutt’altro che facile: come ritagliarsi qualche ora di solitudine e concentrazione, se non alzandosi alle quattro del mattino? Il risultato è un libro implicitamente politico, che non cade mai nella tentazione della pura denuncia e racconta con raffinatissima semplicità la storia di un’adolescente capace di “vedere”, quando inghiotte una manciata di terra (principio femminile in tutte le culture), l’assassinio e la sepoltura dei nuovi desaparecidos: bambini, ragazze violate e uccise, donne morte – come sua madre – per mano del compagno, vittime che la polizia tiene in scarso conto e alle quali la giustizia viene spesso negata.

In Cometierra, ambientato in una metropoli desolata e spettrale (“Le geografie del libro sono le mie, quelle del Conurbano”, rivela l’autrice, che è nata, vive e insegna negli sterminati suburbi di Buenos Aires), Reyes riesce a eludere le trappole del romanzo a tesi, evita l’esibizione di corpi straziati e sfiora il noir, il gotico e il fantastico, affidandosi a un linguaggio lirico e insieme popolare che restituisce con estrema efficacia una stagnante atmosfera di violenza, diseguaglianza, ingiustizia, e che ha coinvolto e travolto migliaia di lettori.

Lo sguardo è quello di chi tutto questo lo vede ogni giorno da vicino, “in un luogo dove ogni anno si uccidono delle ragazze”, come sottolinea l’autrice stessa in un’intervista, aggiungendo: “Volevo costruire un racconto che parlasse di quanto ci mancano quelle ragazze e dell’orrore che ci stiamo abituando a vivere”. Ma lei no, non è mai riuscita ad abituarsi, e il suo libro lo dice sin dalla dedica: “Alla memoria di Melina Romero e Araceli Ramos”, giovanissime vittime abbandonate tra la spazzatura, corpi che ora sono sepolti a poche centinaia di metri dalla scuola dove Reyes lavora, presenze/assenze con cui è inevitabile fare i conti.

 
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto il 31 dicembre del 2019