martedì 26 giugno 2018

Da leggere: Max Aub

Max Aub 

 

Jusep Torres Campalans, ovvero l’anello mancante

Nel giugno del 1958, il quotidiano messicano Excélsior pubblicò sette articoli in cui annunciava l’inaugurazione di una mostra insolita, dedicata al defunto pittore catalano Jusep Torres Campalans e curata da Max Aub, scrittore nato a Parigi nel 1903 in una famiglia ebrea di origine tedesca, cresciuto in Spagna, fuggito in Francia dopo la sconfitta della Repubblica e infine esiliato in Messico, dove sarebbe morto nel 1972. Aub sosteneva di aver conosciuto Campalans nel Chiapas, dove il pittore viveva da quarant’anni tra gli indios chamulas, e che due lunghi colloqui con quel vecchio bizzarro, catalanista convinto, anarchico e fervente cattolico, lo avevano indotto a indagare su un personaggio intimamente legato alle avanguardie del primo ’900, eppure del tutto sconosciuto. Così, grazie a lunghe e pazienti ricerche, aveva raccolto materiali sufficienti a confezionare un corposo volume pubblicato dal Fondo de Cultura Económica, ed era fortunosamente venuto in possesso delle opere scampate alla distruzione da parte dell’artista, deciso non solo a scomparire, ma anche a cancellare la propria pittura.

La riscoperta di Campalans venne considerata un “anello mancante” capace di chiarire la genesi del cubismo, il libro andò a ruba, i commenti entusiasti di intellettuali famosi apparvero su una rivista letteraria… finché Aub, insieme ad alcuni complici (per esempio Jaime García Terres e Carlos Fuentes, i veri estensori delle note pubblicate dalla rivista), svelò che si trattava di un falso perfetto, dalla verosimiglianza priva di fessure. Quadri e disegni erano opera sua, ai genitori del pittore prestavano il volto due comparse del film Sierra de Teruel, girato nel 1938 da André Malraux con Aub come aiuto regista, l’istantanea di Campalans con l’amico Picasso era un fotomontaggio, la biografia e i dotti paratesti erano un’inestricabile mescolanza di pura finzione e di fatti, personaggi e citazioni autentici. Jusep Torres Campalans era esistito ed esisteva solo in quello che Aub, anni dopo, definì “semplicemente un romanzo”. Tra l’indignazione di pochi e le reazioni divertite e stupefatte dei più, per l’autore si profilò rapidamente un successo internazionale e il libro fu tradotto in mezzo mondo (la prima a proporlo, nel 1961, fu la Gallimard), per non parlare di nuove mostre dei falsi Campalans, come quella alla Bodley Gallery di New York nel 1962.

A suo tempo Jusep Torres Campalans si è affacciato anche in Italia, prima nei Quaderni della Medusa mondadoriani (1963), poi nel catalogo Sellerio (1992), fino alla recentissima edizione di Theoria (pag. 349, e. 18, traduzione di Andrea Russo), che prelude alla pubblicazione, da parte del medesimo editore, dei diari di Aub, e segue quella dell’antologia Gennaio senza nome, uscita l’anno scorso presso Nutrimenti, a conferma di un rinnovato interesse nei confronti di un autore dalla statura di classico, la cui vastissima opera è in buona parte inedita nel nostro paese. Nella narrativa di Aub (che fu anche giornalista, poeta, saggista, sceneggiatore e soprattutto drammaturgo) si usa distinguere stagioni diverse: quella precedente alla caduta della Repubblica, che rimanda all’avanguardia e all’“arte pura”; quella legata all’esilio, che ha prodotto un’intensa letteratura testimoniale, come i sei romanzi sulla guerra civile del ciclo El laberinto magico; e infine quella che, a partire dagli anni ’50, vede intensificarsi l’esercizio dell’immaginazione e di un tenace umorismo, spesso dispiegati in apocrifi che, al di là della componente giocosa, esprimono in altre forme una militanza irrinunciabile, quando il discorso politico, la devozione alla memoria, la critica sociale si insinuano tra gli ingranaggi di quello che Veronica Orazi, attenta studiosa di Aub, definisce “un falso proteiforme: sia formale sia contenutistico, letterario, artistico, storico, che rivela una volontà radicale di sovvertire l’ordine comune delle cose, della storia”.

Con Jusep Torres Campalans, in particolare, Aub ha rinnovato il genere della biografia immaginaria, portandolo a un livello di perfezione mai eguagliato: un libro diviso in sette parti che non nasconde gli intenti parodici verso le convenzioni narrative di certi generi letterari (dal romanzo sentimentale a quello poliziesco, realista o filosofico, fino al giornalismo), composto da un “Prologo”, dai “Ringraziamenti” a personalità illustri, da dettagliati “Annali” sul contesto politico, sociale e culturale dei primi ventotto anni della vita di Campalans, nato nel 1886, sino alla “fuga” in Messico. A seguire, la movimentata “Biografia” in cui si disegna l’effervescente atmosfera della Barcellona inizio secolo, dove Jusep conosce gli artisti suoi contemporanei e scopre l’anarchia (compare, tra le opere, un Boceto para Francisco Ferrer, condannato a morte dopo la Semana Trágica del 1909), per poi trasferirsi a Parigi e rinunciare infine a tutto e a tutti, scegliendo la natura e la spontaneità di terre lontane, come un Gauguin o un Artaud; conclude il volume il prezioso “Quaderno verde” in cui Campalans annota amori e disamori, incontri e scontri con la colonia artistica parigina, ed espone, a volte sotto forma di brevi aforismi o di giudizi sanguinosi, le sue teorie estetiche, sulle quali tornerà nelle lunghe “Conversazioni” con Aub, prima del settimo e ultimo capitolo, che contiene un accurato catalogo delle opere, riprodotte come in una monografia d’arte che imita il formato, il tipo di carta e i caratteri della collana Le goût de notre temps, della casa editrice fondata da Albert Skira.

Una falsificazione estetica – ancora una parodia, oppure un’ammirata citazione? –, inscindibile da quella testuale, che verrà mantenuta solo nelle edizioni Gallimard e Doubleday, mentre le successive stravolgeranno il rapporto forma-contenuto, modificando la grafica, riducendo le immagini, sopprimendo il colore e snaturando così l’artefatto di Aub, come avviene anche nell’edizione Theoria che, pur avendo il merito di riscattare un libro troppo a lungo dimenticato, spaccia indecifrabili macchie di inchiostro per riproduzioni in bianco e nero.

La credibilità del testo, tuttavia, risulta pur sempre inattaccabile e sollecita la partecipazione attiva di un lettore consapevole del fatto che l’autore non va in cerca di complici, ma allestisce continue trappole e cerca di stabilire con i suoi interlocutori un dialogo che include la sfida a ricomporre un puzzle cubista, dove tutto viene rappresentato non com’è, ma come lo si vede. E chi legge si renderà conto a poco a poco, mentre cerca di districarsi tra realtà e finzione, che l’eccezionale sfoggio di tecniche narrative, di competenza critica e di talento satirico, in un racconto articolato in dozzine di sottotesti e in una stupefacente pluralità di voci e generi, non mira solo all’elaborazione di una burla colossale. Perché in Jusep Torres Campalans Aub crea un ritratto-tipo dell’artista novecentesco servendosi di una messa in scena interdisciplinare (un fantastico collage ricavato da dozzine di immagini reali, da materiali di ogni tipo, da molteplici testimonianze), e allo stesso tempo evoca ed anticipa la frammentarietà dell’esperienza e la difficoltà di accedere al reale, suggerendo già in epigrafe una domanda rivelatrice, attribuita all’inesistente Santiago de Alvarado: “Come può esserci verità senza bugia?”. Perché la Storia, in fin dei conti, è innanzitutto il racconto che se ne fa.

 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2018

domenica 17 giugno 2018

Da leggere: Lola Larra e Vicente Reinamontes

Lola Larra e Vicente Reinamontes


La rivoluzione pinguina

La chiamavano revolución pingüina, per via delle divise bianche e nere che gli studenti dei licei indossavano a scuola. E fu davvero una rivoluzione: il primo grande movimento studentesco post-dittatura che, fra centinaia di occupazioni e immensi cortei, nel 2006 chiese la riforma della LOCE, ossia la Ley Orgánica Constitucional de Enseñanza, entrata in vigore il giorno prima che Pinochet abbandonasse il potere e progettata per introdurre una sorta di sfrenato “neoliberismo educativo” affidato all’iniziativa privata, suggellando così le diseguaglianze di una società in cui, ancora adesso, il presidente appena rieletto si azzarda a definire l’istruzione non un diritto, ma un “bene di consumo”.

Altre rivolte sarebbero seguite, come quella epocale del 2011, che mise in seria difficoltà il governo, o quella del tutto inedita degli ultimi due mesi. E tuttavia il ricordo dei “pinguini” non è mai impallidito e arriva fino a noi con A sud dell’Alameda. Diario di un’occupazione (pag. 285, e. 18), pubblicato dalla minuscola Edicola Ediciones, vero e proprio “ponte” letterario creato da Paolo Primavera, che da qualche anno propone un eccellente catalogo di nuovi autori cileni.

L’autrice del breve testo, Lola Larra, ha trovato le parole giuste per il diario di Nicolas, “occupante” dubbioso e più interessato ai mondiali di calcio che alla politica, eppure destinato a scoprire le ragioni e la necessità dell’impegno, le insidie della repressione e perfino le incertezze di un primo amore. Ma la parte più intensa e rivelatrice del libro è quella che lo trasforma in una graphic novel grazie a pagine e pagine di immagini dal taglio originale, attraverso le quali il talento del disegnatore (ed ex “pinguino”) Vicente Reinamontes ci consegna il ritratto di una Santiago geometrica e notturna e di un gruppo di adolescenti alla ricerca di sé, ignari di essere spiati da una finestra non lontana. E, lo scopriremo alla fine, sarà proprio quello sguardo ancora indomito a proteggerli e a riunire i fili del presente e del passato.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2018


giovedì 7 giugno 2018

Da leggere: Nona Fernández


 Nona Fernández


Se non lo so, lo immagino

Sono nata nel 1971, avevo due anni quando c’è stato il golpe militare. Sono cresciuta in quel periodo strano e oscuro che è stata la dittatura cilena, e ho conosciuto il mondo attraverso manifestazioni, elicotteri, funerali e veglie. Faccio parte di una generazione mezzo perduta, che non è stata protagonista di nulla, ma che ha osservato con occhi da adolescente e ha cercato di darsi da fare alla sua giovane età. Credo che in fondo siamo un po’ condannati al ricordo. Forse proprio per questo, senza premeditazione, senza intenzione, come un atto organico, ogni mio libro l’ho scritto pensando ai bambini che siamo stati”.

Così la cilena Nona Fernández parla della memoria, nel discorso tenuto alla Feria del Libro di Guadalajara, durante la cerimonia in cui ha ricevuto nel 2017 il premio “Sor Juana Inés de la Cruz” per il suo sesto romanzo, La dimensione oscura  apparso in Cile nel 2016 e ora pubblicato da Granvia nella bella traduzione di Carlo Alberto Montalto (pag. 214, e. 16) – nel quale l’autrice conferma una volta di più la sua capacità di reinventare come nessun altro l’ormai codificata narrazione della dittatura, discostandosi da qualsiasi modello ed evitando ogni possibile luogo comune.

Fernández, che è anche attrice teatrale, drammaturga, sceneggiatrice di culebrones (ossia di interminabili telenovelas), in La dimensione oscura, costruisce una magnifica narrazione  l’aggettivo non è esagerato  attorno alla figura di Andrés Valenzuela, appartenente alle Forze Aeree cilene, che nel 1984 si presentò nella redazione della rivista Cauce (una tra le rare voci di controinformazione, pubblicata tra il 1983 e il 1989), chiedendo di parlare con la giornalista Mónica González. A lei, incredula e scossa, raccontò la sua carriera di torturatore nel Comando Conjunto, un organismo clandestino che disponeva di basi sparse in tutta Santiago, dove  dirigenti e militanti dei partiti di sinistra venivano torturati e fatti sparire.

Oltre a questa confessione spontanea Valenzuela fornì informazioni alla Vicaría de la Solidaridad, creata da quella parte del clero cileno che rifiutava la complice idea di una “chiesa patriottica” e assisteva le vittime della dittatura. E fu proprio grazie alla Vicaría che il “traditore” riuscì a sfuggire ai suoi ex compagni e fuggire in Francia, dove vive tutt’ora.

Nona Fernández, che aveva allora tredici anni, vide il volto baffuto del giovane Valenzuela sulla copertina di Cauce, accompagnato dalla scritta “Yo torturé”, e a quell’immagine ripensò per anni, fino a trasformarla nel punto focale di un testo indefinibile, che oscilla tra romanzo, cronaca, documento, autobiografia, e si serve di una prima persona resa diversa dai numerosi salti temporali: Nona ragazzina, Nona donna e madre, Nona che pensa di scrivere il libro, che lo scrive in una prosa limpida e, nonostante tutto, a tratti ironica e perfino affettuosa, piena di immagini difficili da dimenticare.

Lettere mai spedite all’ormai anziano fuggiasco, sul cui percorso di mostro pentito l’autrice non smette mai di interrogarsi, si mescolano a brandelli della propria vita quotidiana, a ricordi d’infanzia, a domande senza risposta, a brani in versi liberi, a racconti asciutti e precisi sulle vittime e le loro famiglie, sulle esecuzioni, sui corpi esposti e offesi. È in questo modo che Fernández  varca la frontiera tra i generi, li ibrida, ne sovverte i canoni, crea una struttura “mista” scandita dal mantra ricorrente di una frase (“Famigliari di detenuti scomparsi accendono candele davanti alla Cattedrale”), monta e riorganizza materiali eterogenei con il supporto costante dell’immaginazione, che, innestandosi sulla realtà, ne produce di nuovi, infiltrati da innumerevoli riferimenti alla cultura pop anni ’80, quella globale in cui Fernández  è cresciuta. Il titolo originale del romanzo, per esempio, è La dimensión desconocida, quello con cui fu trasmessa in Cile la serie americana The Twilight Zone (nota da noi come Ai confini della realtà), le cui microstorie aiutano a illustrare gli orrori della repressione, mentre si affacciano la colonna sonora di Ghostbusters, canzoni, videogiochi, gli Avengers o certi orrendi quiz televisivi, gli stessi che i bambini guardavano in tutto il mondo, facendo merenda davanti alla TV, ma che a Santiago erano accompagnati dal coprifuoco e dagli elicotteri in volo sul quartiere.

Quando un’ampia ricerca d’archivio o le testimonianze glielo consentono, Fernández afferma: “lo so”; ripete: “immagino” quando i vuoti della realtà chiedono di essere riempiti per poter pronunciare di nuovo nomi cancellati, raccontare clandestinità spaventose come quella del quindicenne Mario, o seguire i passi di Valenzuela che in Area fantasmi, la terza delle quattro parti in cui è diviso il romanzo, si confronta con gli spettri dickensiani di altri Natali (anche Mapocho, il primo romanzo di Fernández  pubblicato da Gran Via nel 2017, è del resto una storia gotica articolata intorno alla dittatura).

Ma anche l’ultima parte, Area di evasione, ospita un fantasma tenace: Estrella, compagna di scuola di Fernández  e figlia del colonnello Guillermo González, oggi all’ergastolo e tra i principali responsabili del “caso degollados”, il sequestro di tre intellettuali comunisti che il 30 marzo 1985 furono ritrovati sgozzati. Già personaggio di Space invaders (pubblicato in Italia da Edicola Ediciones), Estrella appare in una cronaca inserita nell’antologia collettiva Volver a los 17, e infine in questo romanzo, che ripercorre i misteri degli anni di scuola e il suo tragico destino (fu uccisa negli anni ’90 dall’ex marito, un tenente dell’esercito).

Anche lei è una vittima, anche il suo corpo torna attraverso la scrittura – questa scrittura –, insieme a quelli dei sequestrati, dei torturati che Fernández vuole riscattare dalla marginalità e collegare al presente, come nell’episodio in cui, all’inaugurazione del Museo della Memoria, la madre di un ragazzo assassinato dalla dittatura e quella di un attivista mapuche ucciso dalla polizia “democratica”, denunciano insieme il prolungarsi degli abusi di allora in quelli di oggi.

Estrella e i suoi coetanei sono parte della generazione che ha convissuto con il silenzio degli adulti, messi a tacere dalla paura, dall’opportunismo o dalla complicità, ma anche dal desiderio di proteggere i propri figli. Figure chiave dell’opera di Fernández, i bambini e gli adolescenti di allora si collocano al centro della scena e a loro l’autrice propone nuove chiavi di interpretazione per rimettere in movimento il racconto della dittatura, ormai istituzionalizzato e quindi irrilevante: come nella canzone di Billy Joel che la narratrice continua a canticchiare, anche se non sono stati loro ad accendere il fuoco, è a loro che tocca spegnerlo. La dimensione oscura si rivela dunque un romanzo generazionale, fatto di continue contaminazioni, filtrato attraverso un’autobiografia individuale eppure condivisa, un’autobiografia di tutti. Ma l’autrice vede ben più lontano della categoria degli hijos, dei figli, alla quale appartiene: quello che le interessa è una “staffetta della memoria”, un’eredità da lasciare ad altri figli, una nuova generazione, perché trovino un loro modo di accostarsi al passato (“che non esiste”, dice Fernández, “ma è solo un’inquietante dimensione del presente”) e riconoscerlo nel futuro.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2018