mercoledì 17 ottobre 2018

Anniversari e addii: Hebe Uhart


Hebe Uhart



Una scrittrice unica, un addio silenzioso

Tra le molte foto di Hebe Uhart apparse sui giornali, dopo la sua morte avvenuta l’11 ottobre a Buenos Aires, pochissime la ritraggono sorridente: in genere, ci viene mostrata una donna anziana, non priva di civetteria (una sciarpa colorata, un rossetto vivace) ma dall’aria severa, spesso ritratta sul suo luminoso terrazzo invaso da piante amatissime. Eppure, chiunque l’abbia conosciuta parla innanzitutto di un senso dell’umorismo fuori del comune e di una conversazione scintillante, interrotta da brevi risate esplosive, di malizia infantile. Era, Hebe Uhart, una persona e una scrittrice divertente, di singolare chiarezza e trasparenza, ma capace di condurre il lettore verso insospettate profondità e di rivelargli quanto di insolito, oscuro, folle c’è nella vita quotidiana, nelle piccole vicende domestiche, nelle storie di bambini e donne troppo spesso senza voce, negli incontri casuali, negli infiniti, sconosciuti universi che si trovano, in realtà, a un passo da noi, dietro l’angolo.

Nata nel 1936 a Moreno, paesetto ora divenuto un sobborgo della capitale (“Sono suburbana” spiegava Hebe. “Né contadina, né cittadina”) da una famiglia di immigrati baschi e italiani, Uhart cominciò a scrivere ancora bambina, ma solo quando si trasferì a Buenos Aires per studiare filosofia – una materia che, dopo essere stata maestra rurale, insegnò per oltre vent’anni all’Università – pensò che sì, per lei la scrittura poteva essere più di un passatempo. Come l’uruguayano Mario Levrero, era convinta che scrivere significasse ricordare, e che memoria e immaginazione si identificassero: non c’è bisogno di inventare, diceva, tutto è già lì, in attesa di essere scoperto da chi voglia guardare con attenzione, e soprattutto sappia ascoltare, estraendo da ogni incontro parole nuove o inventate, modi di dire ed espressioni afferrati al volo nei momenti e nei luoghi più imprevisti.

Dal suo esordio con la raccolta di racconti Dios, San Pedro y las Almas (1962), sino all’ultima raccolta di storie vere, l’incantevole Animales (2018), Uhart ha scritto e pubblicato molto (e anche scartato molto, perché se un testo non riesce bene da subito, diceva, è come un vestito tagliato male, non si rimedia più), scegliendo sempre la brevità, tra romanzi che superano di poco le cento pagine e moltissimi racconti, in buona parte sconosciuti al pubblico italiano: solo il romanzo Traslochi (2015), e la raccolta di racconti Turismo urbano (2016) sono apparsi in Italia grazie a Maria Rosa Bricchi, che li ha scoperti per Calabuig, rimediando a una vistosa distrazione della nostra editoria.

Elencare i titoli dei suoi quattro romanzi e delle dieci raccolte di racconti apparsi tra i primi anni sessanta e l’inizio del nuovo secolo significherebbe, in un certo senso, ripercorrere la storia delle piccole case editrici argentine indipendenti, dalla vita così breve che i testi di Uhart andavano afferrati al volo o scovati frugando nelle librerie dell’usato. Anche se i suoi libri erano apparizioni quasi inafferrabili, in molti si accorsero di lei, di quella scrittura unica, di quel singolare approccio nei confronti della realtà (il giudizio lusinghiero di Fogwill, che la considerava la migliore cuentista argentina, e quello altrettanto favorevole di Ricardo Piglia, continuano ad accompagnarla), ma rimase per molti anni una “scrittrice per scrittori”, seguita da un ristretto pubblico di appassionati che sapevano cogliere l’elemento eccentrico e straniante delle sue storie irresistibilmente ironiche, anche quando a ispirarle erano amare vicende familiari o legami amorosi catastrofici, come quelli che Hebe visse con uomini sbagliati e poco rimpianti: uomini con show – che erano cioè dei personaggi, e affascinavano per questo –, raccontava lei senza autocommiserarsi, aggiungendo: “e lo show si paga”.

Fu a partire dal 2003 che le cose cambiarono, quando un editore solido e di grande prestigio come Adriana Hidalgo decise di inserire Uhart nel proprio catalogo, e la conquistata visibilità le assicurò un pubblico più vasto, nonché un riconoscimento e un successo di cui lei non si curò mai troppo, nemmeno quando, nel 2010, l’edizione completa dei suoi racconti da parte di Alfaguara la consacrò come autrice di importanza internazionale. No, a Hebe Uhart la fama non interessava granché, e non le erano mai piaciute le celebrazioni, i convegni, il mundillo intellettuale di Buenos Aires, che le sembrava autoreferenziale, endogamo e pieno di sé; così decise di averne abbastanza degli omaggi alla sua narrativa e di non voler diventare un “automa”, pronto a scrivere ciò che ci si aspettava da lei.

Scelse, a settant’anni, di mettersi in viaggio (viaggiare le era sempre piaciuto) “da qui a lì”, girando tutta l’America latina per sentirsi obbligata a pensare e scrivere cose nuove, a vedere e vivere da vicino margini e periferie. “Voglio che mi spuntino nuove piume”, disse in un’intervista a El País, e diventò la splendida autrice di originalissime cronache di viaggio, piene di immagini, storie e linguaggi che altri occhi, altre orecchie non avrebbero saputo cogliere, e pubblicate con regolarità da Adriana Hidalgo, che ora sta per mandare in libreria l’edizione (ormai postuma) di tutti i suoi romanzi in un solo volume.

Pronta a mettersi in gioco e a cambiare strada pur di restare sé stessa, “maestra” ineguagliabile e levatrice di nuovi talenti, a dire degli allievi del laboratorio di scrittura che per anni ha avuto luogo tra i gatti e le piante del suo minuscolo appartamento, è in un discorso tenuto in Cile, quando le venne assegnato il premio Manuel Rojas, che Hebe Uhart ha espresso con la consueta brevità le sue convinzioni di scrittrice acuta e saggia (una saggezza duramente conquistata), estranea alle convenzioni: “Penso e ho sempre pensato che la coscienza della propria importanza cospiri contro la possibilità di scrivere bene, e soprattutto penso che l’ipertrofia del ruolo giochi contro uno scrittore e qualsiasi artista. Quando vedo che qualcuno si fa un vanto del proprio ruolo, sospetto che non scriva bene”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'ottobre del 2018


Da leggere: Juan José Saer

Juan José Saer



Il tempo e lo spazio di Glossa

Fin dal suo libro d’esordio del 1960, l’antologia di racconti En la Zona, Juan José Saer – insieme a Ricardo Piglia il più importante scrittore argentino dopo Borges – ha avocato a sé un territorio preciso, quello in cui era nato nel 1937, in una famiglia di immigrati siriani: la provincia di Santa Fe, il Delta del Paranà, la pianura, uno spazio più metaforico che geografico dove concentrare figure ricorrenti, un gruppo di amici – riflesso di quello cui lo scrittore rimase sempre fedele, e composto, tra gli altri, dai poeti Juan L. Ortiz e Hugo Gola, dal giornalista Paco Urondo, dal pittore Juan Pablo Renzi – impigliati, come tutti, nella rete di una memoria così mutevole e inafferrabile da mettere in questione la natura, se non l’esistenza stessa, del reale.

L’accentuata intertestualità di ogni storia rimanda alle successive e richiama le precedenti, perfino quando sono separate dai secoli (lo splendido L’arcano si svolge nel XVI secolo, Le Nuvole nell’Argentina pre-indipendenza, La ocasión a metà dell‘800), o dall’oceano (L’indagine è ambientato a Parigi, dove Saer, professore all’Università di Rennes, visse per trentacinque anni e morì nel 2005). E il gioco intertestuale è evidente anche in Glossa – settimo dei dodici romanzi di Saer, la cui eccellente versione italiana di Gina Maneri è appena apparsa presso La Nuova Frontiera (pag. 248, e. 17, 50) – sin dalla prima frase, uno di quegli incipit così caratteristici della proposta stilistica saeriana, che secondo il critico Julio Premat hanno la funzione di annunciare una continuità e di sottolineare l’aspirazione a un “testo infinito”, come mostrano i Papeles de trabajo. Borradores ineditos (Seix Barral, 2012/2013), raccolta in due volumi dei quaderni sui quali lo scrittore argentino ha progettato per anni non solo l’architettura delle singole opere, ma il loro costituirsi in un corpus coerente e strutturato.

La costellazione dei romanzi di Saer (lui preferiva chiamarli “narrazioni”) sembra formare un universo in espansione, che non si stanca di raccogliere e dilatare grumi e frammenti, a volte infinitesimali. Glossa, pubblicato per la prima volta nel 1986 e considerato da molti il miglior romanzo dell’autore, di questo universo rappresenta in un certo senso il fulcro, quasi una mappa della poetica di Saer, disegnata intorno all’incontro casuale tra Angel Leto, contabile poco più che ventenne, e il Matematico, ingegnere di buona famiglia, appena rientrato dal suo Grand Tour.

I due non hanno molto in comune, se non l’amico Tomatis e certe simpatie politiche di sinistra, ma camminano insieme per un’ora intera, conversando, tra i quartieri residenziali e il centro di una Santa Fe mai nominata e “ricostruita” per adattarsi ai loro passi: le tre parti in cui è diviso il libro, prive di interruzioni e povere di capoversi, corrispondono ciascuna a sette dei ventuno isolati percorsi durante la lunga passeggiata, in cui si percepisce un’eco parodica del Simposio di Platone (anche se oziose piccolezze sostituiscono le riflessioni filosofiche), o della conversazione tra Stephen Dedalus e Bloom.

Camminano, il Matematico con le sue lunghe gambe e l’immacolato completo bianco, il piccolo Leto nei suoi abiti un po’ lisi, spiando con la coda dell’occhio le reazioni dell’altro, seguendo il filo dei propri pensieri, e soprattutto parlando della festa avvenuta, tra l’asado (una “cerimonia” ricorrente, in Saer) e abbondanti bevute, nella casa di campagna di Washington Noriega, poeta e intellettuale marxista, in occasione del suo sessantacinquesimo compleanno. Nessuno dei due vi ha assistito, ma Botón, uno degli invitati, ha raccontato la serata al Matematico, che per tutta la vita rimpiangerà di non esserci stato. Quella riferita a Leto, che ascolta distrattamente, è perciò la versione di Botón, contrastante con il maligno resoconto che ne farà Tomatis, assediato dalla depressione, quando lo incontreranno davanti al giornale dove lavora. E ci sarà, diciotto anni dopo, una terza versione, quella di Pichón Garay, che a Parigi evocherà una festa ancora diversa, dove secondo lui c’era anche il Matematico, che invece in quei giorni stava visitando l’Europa. A poco a poco, il lettore si rende conto del perché l’autore abbia scelto come titolo una parola mai citata nel testo: glossa, ovvero una nota esplicativa o di commento, che in lingua spagnola indica anche una variazione musicale sulle medesime note, o una composizione poetica in cui ogni strofa termina con un verso che verrà ripreso all’inizio della seguente. Fedele al suo titolo, Glossa è appunto un romanzo fatto di versioni, variazioni, ripetizioni, anticipazioni, che rendono impossibile comporre un’unica e attendibile storia.

La festa, con i suoi incidenti, le discussioni sulla possibilità che un certo cavallo abbia o no inciampato, il racconto di Washington sulle tre zanzare che hanno disturbato la laboriosa stesura delle sue quattro conferenze sugli indios Colastiné, le notizie contrastanti su un evento in fondo irrilevante, si rivelano così il pretesto per evocare l’accumularsi di voci che si influenzano e smentiscono a vicenda. Le diverse interpretazioni, le differenti glosse si disputano la realtà, facendola a brandelli, giustiziando il concetto di verità e sostituendolo con quello di versione, come del resto preannuncia, nella dedica, una breve citazione da L’urlo e il furore (Faulkner era uno degli scrittori che Saer più ammirava, insieme a Joyce e Onetti), in cui tre persone raccontano in modi opposti la decadenza della loro famiglia.

Ai resoconti della festa si incrociano digressioni e aneddoti sugli assenti, mentre sia il Matematico, assorto nella profonda avversione per la sua classe sociale e per il fratello reazionario e conformista, sia Leto, che convive col ricordo del padre morto (“un suicida insolente”), con le furie melodrammatiche della madre, con le immagini dell’ infanzia, deviano interiormente verso considerazioni intime e private, così da venire rappresentati non a partire da quel che fanno o dicono, ma dalle loro impressioni e riflessioni. Una continua intersezione di piani temporali, inoltre, accompagna la passeggiata, mentre il narratore infila con destrezza nel presente rapide istantanee del passato e del futuro, e nessuno dei due protagonisti si rende conto di avanzare nel tempo ”man mano che avanzano nello spazio, come se ogni passo li portasse in direzioni opposte, a meno che tempo e spazio non siano inseparabili e l’uno sia inconcepibile senza l’altro, ed entrambi inconcepibili senza loro due, Leto e il Matematico, così che camminatori, strada e mattina, formino un getto denso che sgorga placido dalla fontana dell’accadere”.

La complessità del reale e della sua percezione, l’impossibilità di raccoglierne tutti i fili, la difficoltà di raccontarlo e il problema del “come” raccontarlo, sono il tema di fondo dell’opera di Saer, che in Glossa trova compiuta espressione: in un romanzo quasi privo di dialoghi, un narratore che esibisce una sovrabbondante onniscienza (e che si definisce “il sottoscritto” o “il servitore” di chi legge) fa di continuo presente la propria e altrui incertezza e mette a nudo i meccanismi della narrazione, ancorandosi a una difficile scommessa formale e a un raffinatissimo lavoro sul linguaggio, che ricrea il ritmo dell’oralità. Ricca di modulazioni, sfumature poetiche e infinite ripetizioni, la prosa di Saer è disseminata di formule colloquiali (“come dicevamo”, “se vogliamo”, “insomma”, “no?”) quando vengono descritti con dovizia iperrealista i movimenti dei personaggi e lo scenario cittadino, ma diventa a un tratto essenziale, quasi impersonale, nelle poche, succinte pagine in cui il lettore viene informato su quello che accadrà ai personaggi: Leto, entrato nella clandestinità della lotta armata, si avvelenerà con una pastiglia di cianuro per sfuggire a un’imboscata poliziesca; al Matematico uccideranno la moglie, militante trozkista, mentre lui andrà in esilio “nell’inverno nero e terribile” di Stoccolma e suo fratello diventerà ministro del regime; Pichón Garay fuggirà a Parigi, mentre il gemello Gato e la sua compagna Elisa finiranno tra i desaparecidos.

Dietro quella lunga camminata senza meta, dietro le versioni contrastanti della festa, dietro i ricordi e le sensazioni dei personaggi, si annida dunque il tragico destino di un’intera generazione. Giustamente, lo scrittore Martín Kohan ha definito questo libro “uno dei più notevoli romanzi politici che ci abbia dato la letteratura argentina. Così si scrive la politica in Glossa: queste sono le condizioni per la scrittura politica di Juan José Saer. Non ci si aspetta, non si pretende, che la letteratura catturi una realtà, che la afferri, che la plasmi, che la dispieghi, che la indichi, e con tutto questo elabori uno slogan o una conclusione. L’elemento politico in Glossa prende la forma dell’incrostazione, o dell’irruzione…”.

Saer non ha scelto il canone della testimonianza o della denuncia: ha optato piuttosto per la perfezione del linguaggio e della forma, conferendo al romanzo una potenza che si esprime per intero nella visione finale: uccelli mai visti prima che volano freneticamente, lanciando strida impazzite, sopra e intorno a un oggetto che non sanno riconoscere, un pallone giallo da spiaggia, cullato a riva dalle onde del lago, mentre in Leto si insinua la consapevolezza “di quanto smarrimento, terrore e confusione hanno ancora bisogno le specie perdute per erigere, nella casa della coincidenza, il santuario, superfluo, in più di un senso, dei propri, come sembra che li chiamino, dèi”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'ottobre del 2018