lunedì 13 aprile 2015

Da leggere: Alejandro Zambra




 Alejandro Zambra

  


“Mio padre era un computer, mia madre una macchina da scrivere” 

Tre raccolte di poesia, tre romanzi marcatamente caratterizzati da quella brevità che è una delle cifre stilistiche di tanta letteratura ispanoamericana del passato e del presente (due di essi, Bonsai e Modi di tornare a casa, sono apparsi in italiano rispettivamente da Neri Pozza e Mondadori), un bel saggio intitolato No leer e nato dall’attività di critico e recensore: a tutto questo il quarantenne Alejandro Zambra, professore di letteratura all’Università Diego Portales e forse lo scrittore cileno più tradotto all’estero e più celebrato della sua generazione, ha appena aggiunto i I miei documenti (Sellerio, pag. 216, e. 15; l’ottima traduzione è di Maria Nicola), in cui sono raccolti undici racconti che, pur sconfinando a volte nella pura e semplice annotazione diaristica o in una sorta di cronaca fin troppo evanescente, confermano tanto l’eleganza e la sobrietà di una scrittura ingannevolmente “naturale”, quanto la chiara impronta autobiografica della narrativa di un autore definito “di stupefacente talento” dalla The New York Times Book Review.

L’esperienza personale alla cui luce viene riletta quella collettiva, la costruzione della memoria, lo sguardo perplesso e indagatore dei bambini sugli adulti che nel Cile degli anni ’80 devono far fronte alla dittatura, l’adolescenza turbata dall’ipocrisia della transición verso una democrazia ambigua e incompleta, la famiglia come luogo di menzogne, segreti e silenzi, la ricerca del padre, la complessità del rapporto di coppia, la vita quotidiana monotona e frustrata di una classe media schiacciata dal neoliberismo, vicende minime e fragili narrate per sottrazione, con una magistrale economia di mezzi e mescolando la malinconia all’umorismo, le sfumature liriche a una lieve crudeltà, e infine la cura per i dettagli, l’inclinazione a narrare attraverso “fotogrammi” ricomposti e sommati: questi i temi, le caratteristiche, le costanti dei romanzi di Zambra, che anche in I miei documenti tornano visibilmente, non senza lasciare spazio, però, a elementi nuovi.

Il primo è la presenza forte della tecnologia, della cultura virtuale, dei computer in cui vengono travasate, ma anche cancellate e riscritte di continuo, la memoria e l’esistenza di ciascuno: macchine imperturbabili che arrivano a scandire, in uno dei racconti, la vita sentimentale di una coppia, e che rimodellano la voce e l’immaginario di chi ha fatto in tempo a crescere con la carta stampata e a partecipare a una transizione ben più ampia e planetaria di quella dalla dittatura alla democrazia (“Mio padre era un computer e mia madre una macchina da scrivere”, si legge nel primo racconto, quello che dà il titolo all’antologia).

Il secondo è una serie di considerazioni non banali sulla forma, sulla scrittura, sul linguaggio e sulla sua circolazione, sulle parole e il loro modo di andare per il mondo: una riflessione che si insinua in diversi racconti e si fonde con le storie narrate, o come nell’ultimo racconto del volume, diventa storia a propria volta.

Il terzo e il più promettente, infine, è l’avvio di un superamento dell’intreccio tra autobiografia e finzione che rappresenta il marchio di fabbrica di Zambra (come del resto, quello di molti scrittori latinoamericani della sua età o di generazioni successive); il delicatissimo esercizio narrativo che l’autore cileno ha sempre saputo compiere con equilibrio e sicurezza, qui sembra sul punto di trasformarsi in qualcosa di meno intimo e autoreferenziale, con esiti tali da suggerire un’interessante evoluzione futura.

 


Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’ aprile 2015

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt




Arlt l’estremista 

“Erdosain fissò un attimo gli occhi sul viso romboidale dell’altro; quindi, sorridendo con aria scherzosa, disse: – Lo sa che lei somiglia a Lenin?

 

E, prima che l’Astrologo potesse rispondergli, se ne andò”.

 

“L’Astrologo restò a guardare Erdosain che si allontanava, attese che voltasse l’angolo ed entrò nel giardino della villa, mormorando: – Sì… ma Lenin sapeva verso cosa stava andando”.

 

I due paragrafi, perfettamente consecutivi, sembrano far parte di un unico testo, e invece no: il primo conclude I sette pazzi di Roberto Arlt, apparso per la prima volta nel 1929, e il secondo I lanciafiamme, che l’autore pubblicò due anni dopo, sottolineando nella prefazione – che è anche una sorta di manifesto sul suo modo di concepire la letteratura come “cross alla mandibola del lettore” – la continuità tra i due romanzi, così assoluta da poterli in realtà considerare uno solo, in cui vengono narrate le vicende di un gruppo di personaggi che, guidati da un leader improbabile come il misterioso Astrologo, si riuniscono in una ancor più improbabile società segreta decisa a finanziarsi tramite una rete di bordelli e a scatenare la rivoluzione in un’Argentina inquieta e delusa.

Considerato il capolavoro di Arlt – che aveva già pubblicato nel 1926 Il giocattolo rabbioso e che concluderà la sua attività di romanziere nel 1932 con il meno riuscito L’amore stregone – questo singolarissimo unicum narrativo è già apparso nella nostra lingua in edizioni diverse che ne hanno però privilegiato la prima parte, mentre della seconda si conosceva fino a oggi solo la traduzione di Luigi Pellisari pubblicata da Bompiani quarant’anni fa. A ricomporre il dittico e a riportare in libreria, proprio in questi giorni, l’introvabile I lanciafiamme (pag. 384, e. 15) sono le edizioni Sur, che vanno presentando da qualche anno un vasto panorama di testi capitali della letteratura latinoamericana, e che nel 2012 avevano già riproposto I sette pazzi: ma nel medesimo catalogo c’è anche l’antologia arltiana Scrittore fallito (2014), ed è annunciata l’uscita autunnale di altri racconti, tra i quali il celebre El jorobadito.

Se la scoperta di questo ormai celebratissimo scrittore da parte dei lettori italiani è stata tardiva – risale infatti ai primi anni ’70 – e limitata a pochi titoli, sembra dunque che si stia recuperando il tempo perduto, così come è avvenuto da tempo in Argentina, dove la fortuna dell’Arlt narratore è stata soprattutto postuma e l’attenzione dell’accademia, che ha prodotto un’enorme mole di studi, è cresciuta con lentezza, giungendo infine a ribaltare i feroci giudizi con cui fu a suo tempo accolta l’opera di un autore accusato di “scrivere male” e percepito come estraneo sia al canone di una letteratura intesa come belles lettres, sia al realismo sociale dell’Editorial Claridad di calle Boedo, attorno alla quale si riunivano gli scrittori apertamente di sinistra ai quali Arlt è stato spesso associato. Quanto sia improprio questo accostamento, però, e quanto vago e contraddittorio il rapporto che lo scrittore intratteneva con i socialisti e i comunisti del gruppo di Boedo, lo dimostrano proprio romanzi come I sette pazzi e I lanciafiamme, là dove confermano, concentrano ed esasperano le tematiche di un autore che giustamente Beatriz Sarlo definisce non solo eccentrico, ma anche “estremista”, convinto com’era che fosse possibile sovvertire l’ordine esistente soltanto per mezzo della violenza.

L’universo narrativo di Arlt include ovviamente le sue personali ossessioni (il denaro, la passione per la tecnica, il disprezzo per l’avida meschinità piccolo-borghese, il terribile rapporto col padre e quello difficile con le donne, il tentativo di affrancarsi da una vita misera e oscura attraverso assurde invenzioni scientifiche) e poi tutto ciò che gli scrittori suoi contemporanei non vedono, o vedono soltanto attraverso lenti puramente ideologiche, o fingono di non vedere: sottoproletari, piccoli delinquenti, prostitute, popolane sfinite, ragazzi di strada, insomma il popolo umiliato, marginale e spesso feroce che sopravvive nei bassifondi del “bosco di mattoni” di Buenos Aires, metropoli in perpetua espansione, che lo scrittore conosceva a fondo per via dei lunghi vagabondaggi compiuti in cerca di materiale per le Aguafuertes porteñas (le cronache pubblicate da Arlt per alcuni anni sul quotidiano El Mundo) e da lui reinventata attraverso turbolente metafore e tenebrose immagini geometriche, da più parti messe in relazione con l’espressionismo tedesco, o con una sorta di cubismo apocalittico.

È questa la società che i protagonisti di I sette pazzi e I lanciafiamme vorrebbero radere al suolo per costruirne un’altra dai contorni ancora imprecisati, mescolando alla rinfusa nazionalismo, fascismo, comunismo e perfino brandelli di occultismo, fino a svuotare le ideologie di qualsiasi senso e significato per sostituirle con uno spazio di pura eversione, in cui confluiscono la rabbia o la disperazione di personaggi connotati da soprannomi significativi come il Cercatore d’Oro, il Ruffiano Malinconico, l’Avvocato, e chiamati a rappresentare grottescamente sia le diverse voci del discorso pubblico in corso all’epoca, sia il sottofondo cospiratorio della vita politica argentina di allora, preludio al golpe militare del 1930 e alla deposizione del presidente Yrigoyen. Scritti subito prima del colpo di stato, i due romanzi acquistano dunque, come lo stesso Arlt mette in evidenza in una postilla alla terza edizione di I sette pazzi, una dimensione quasi profetica, ma, poiché adottano il punto di vista di protagonisti persi in un delirio tanto personale che collettivo, rientrano a fatica nella dimensione crudamente realista di molti dei racconti arltiani e di Il giocattolo rabbioso, pur essendo pienamente capaci di interpretare e restituire un preciso contesto storico e ideologico, la frustrazione delle classi medie e il furore dei bassifondi, l’ossessione del potere, la crescente sfiducia nella democrazia. E se I sette pazzi racconta, riflettendola in uno specchio deformante, l’Argentina pre-golpe, I lanciafiamme sembra piuttosto esprimere, attraverso la progressiva dissoluzione della società segreta capeggiata dall’Astrologo e una catena di delitti e di suicidi alimentati dalla disperazione, dalla colpa o da un’insensata crudeltà (e raccontati, a tratti, con un violento, sarcastico umorismo), la delusione successiva al golpe e un pessimismo senza rimedio, immancabilmente confermato dagli eventi.

Ma, oltre a captare meglio di chiunque il clima dell’epoca, Arlt compie anche una prodigiosa operazione formale, attingendo a tutto ciò che la letteratura argentina ignorava con ostentazione, dal feuilleton alla cronaca nera, dalla divulgazione scientifica al cinema e al teatro popolare, e incrocia il tutto con le sue vaste letture di autodidatta, raccogliendo suggestioni e segnali dell’avanguardia europea e servendosi all’occorrenza di una lingua parlata e di strada che includeva il vocabolario e la sintassi del lunfardo e del cocoliche (le neolingue degli immigrati), manifestazione tangibile di una nuova identità in costruzione, di un colossale e ribollente melting pot. Altrettanto innovativo è stato il suo modo di mettere in relazione mercato e letteratura, di intuire per primo la natura di una nascente industria culturale, di rivolgersi a un pubblico che non fosse soltanto quello colto e borghese di sempre; è anche per questo che la narrativa di Arlt e la scrittura rude e sincopata dei suoi romanzi sono diventate un vero e proprio ariete da scagliare contro le convenzioni, per consentire l’irruzione della modernità nella letteratura argentina, proiettandola verso il futuro. A tutt’oggi, la sua opera mantiene un carattere di unicità che non permette al canone di inghiottirla e normalizzarla, come sempre avviene: pur senza “figli” né epigoni, Arlt ha lasciato dietro di sé tracce profonde e riconoscibili, e la precisa sensazione che la sua presenza sia ancora quella forte, intensa e inquietante che affiora dalla lettura di I lanciafiamme.


 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’aprile del 2015

martedì 7 aprile 2015

Da tradurre: Hilda Mundy


 

Hilda Mundy





Hilda Mundy, un segreto ben custodito

Si chiama Los libros de la Mujer Rota (il riferimento a Una donna spezzata di Simone de Beauvoir non potrebbe essere più esplicito) ed è una nuova arrivata nel panorama della microeditoria latinoamericana, vero arcipelago di isolotti vulcanici che emergono all’improvviso in un oceano presidiato da leviatani quali Penguin-Random House o Planeta, grandi e voraci gruppi stranieri cui fa capo buona parte dell’editoria locale. Creata da una scrittrice cilena, Claudia Aplabaza, giovane e già piuttosto nota per i suoi romanzi e racconti (Diario de las especies, Siempre te creíste la Virginia Woolf, Goo y el amor), la piccola editorial può contare sull’esperienza che la sua fondatrice ha maturato nelle Ediciones Barataria durante gli anni vissuti a Barcellona, e si fa conoscere tramite un sito elegante e disadorno, ancora semivuoto ma già abitato da un’ambiziosa dichiarazione di intenti e dall’annuncio dell’uscita, pochi giorni fa, di Pirotecnia. Ensayo miedoso de literatura ultraísta di Hilda Mundy, il primo libro del catalogo. E che libro: un “pezzo scelto”, come si legge sulla raffinata copertina rossa, ma soprattutto un pezzo raro, che, con il supporto del prologo di Edmundo Paz Soldán, riporta alla luce l’opera di un’autrice boliviana praticamente sconosciuta al di fuori del suo paese, dove, peraltro, è nota soprattutto a critici e intellettuali sufficientemente curiosi.

Si potrebbe dire che Hilda Mundy (nata nel 1912 e scomparsa nel 1982, si chiamava in realtà Laura Villanueva Rocabado) sia sempre stata una scrittrice ai margini, per ragioni diverse: per esempio la diffidenza troppo a lungo nutrita dalla critica e dall’accademia boliviane nei confronti delle donne letterate, e poi il silenzio in cui Hilda si chiuse a soli ventiquattro anni, rinunciando alla scrittura dopo il matrimonio con il poeta Antonio Ávila Jiménez e scomparendo dalla scena culturale. Ma se Hilda Mundy resta ancora oggi uno dei tanti secretos mejor guardados della letteratura latinoamericana lo si deve innanzitutto al carattere singolarissimo dei suoi testi: un’opera esigua e inclassificabile, composta solo da due titoli – il già citato Pirotecnia, del 1936, e il postumo Cosas de fondo. Impresiones de la guerra del Chaco y otros escritos del 1989, in cui sono raccolti i tanti scritti apparsi su quotidiani e riviste –, entrambi animati da un corrosivo humour nero estraneo alla tradizione letteraria boliviana, e tali da far considerare l’autrice come l’unica (o quasi) esponente dell’avanguardia nel proprio paese. Influenzata dall’ultraísmo spagnolo, dal futurismo, dal modernismo, la sua prosa è un torrente di metafore che lasciano il segno, sfugge a ogni definizione, si rifiuta di incanalarsi nelle forme consacrate del romanzo, del racconto, del pamphlet, e sembra quasi annunciare con largo anticipo l’antipoesia di Nicanor Parra. Vale la pena di avvicinarsi a lei in quanto interprete acuta e ironica dei ruoli femminili, oppure di scoprirla in veste di beffarda osservatrice che, con insistita levità, in una serie di crónicas alquanto anomale scruta dalle retrovie domestiche le incongruenze di una guerra inutile e sanguinosa come quella del Chaco; ma soprattutto andrebbe letta la Mundy delle brevi, straordinarie “glosse” di Pirotecnia, un fuoco d’artificio che nasce da una coscienza critica così estrema da bruciare e consumare tutto ciò su cui si posa (“La mia critica è un essere vivo, come un cancro”), per restituircelo rinominato e giocosamente ricomposto, si tratti della città attraversata da macchine e popolata da nuovi oggetti tecnologici, oppure delle persone che la abitano e dei ruoli che l’immaginario sociale ha predisposto per loro, o addirittura delle norme tipografiche.

Vale la pena, insomma, di leggere qui e ora il mondo “riletto” da Hilda Mundy e dal suo sguardo straniante e implacabile: ci sarà mai nessuno che si offra di renderlo accessibile nella nostra lingua?

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta nell’aprile del 2015