mercoledì 28 gennaio 2015

Anniversari e addii: Pedro Lemebel


Pedro Lemebel

 



Pedro, amigo, el pueblo está con tigo

Pedro Lemebel (1952- 2015) 

Vestito di bianco, seduto su una sedia a rotelle e con la testa avvolta in una delle sue femminilissime sciarpe, qualche settimana fa Pedro Lemebel ha fatto una sorpresa a quanti si erano dati appuntamento per rendere omaggio alla sua vita e alla sua opera con un collage di letture e teatro intitolato Noche Macuca. Commosso e ormai silenzioso per via del cancro alla laringe che dopo quattro anni di ininterrotta battaglia gli aveva rubato la voce, Lemebel ha potuto così congedarsi dai suoi lettori e dalla folla di quanti lo amavano e lo accoglievano cantando: Pedro, amigo, el pueblo está con tigo. Giusto in tempo, perché colui che viene oggi riconosciuto come uno degli scrittori più significativi del panorama culturale cileno è morto lo scorso venerdì nella clinica dov’era ricoverato da mesi, e sabato è stato accompagnato al Cimitero Metropolitano di Santiago da un corteo in cui non mancavano, come sarebbe piaciuto a lui, musica, canzoni, bandiere rosse, lustrini e petali di rose spontaneamente sparsi dalle pergoleras, le fioraie della Recoleta.

Del corteo faceva parte anche Claudia Barattini, attuale ministro della cultura, che dello scrittore era amica sin da quando Lemebel collaborava a Radio Tierra, una piccola radio femminista fondata nel 1991. E anche la voce di Michelle Bachelet, Presidente della Repubblica, ha salutato un artista “coerente fino al suo ultimo giorno”, la cui voce “non ha mai smesso di rappresentare i dimenticati, i molti che si sentono orfani in un paese che non li rappresenta né li accoglie”. Simili omaggi, Pedro Lemebel non li avrebbe certo immaginati quando era un bambino poverissimo, nato – come ricorda il poeta argentino Fernando Noy, suo grande amico – “nel fango”, ai bordi dello Zanjón de la Aguada, il canale che attraversa Santiago, e cresciuto nei quartieri più miseri e violenti della città, dove la sua omosessualità lo rendeva bersaglio di feroci prese in giro e frequenti pestaggi.

Capace di conquistarsi una laurea in “arti plastiche” nonostante fosse destinato a diventare un operaio, e rapidamente cacciato – per via del suo aspetto femmineo che non esitava a sottolineare con il trucco e gli abiti – dalle scuole in cui aveva cominciato a insegnare, Lemebel si è rivelato, verso la fine degli anni ’80, come un artista visuale di considerevole potenza: insieme a Francisco Casas, con il quale aveva fondato il collettivo Las Yeguas del Apocalipsis, e mentre la dittatura di Pinochet ancora dominava il paese, percorreva Santiago per dare vita a performances audacissime contro la violazione dei diritti umani e la cultura ufficiale, evocando apertamente i desaparecidos e le infamie del regime, ma presenziando anche alle manifestazioni della sinistra, per rivendicare la propria differenza e il diritto a viverla pienamente e fuori da ogni ipocrisia (celebre è rimasto il suo l’intervento, nel 1986, a uno dei primi convegni del partito comunista, quando apparve con i tacchi alti e coperto di lustrini, una falce e martello dipinta sul viso, per leggere una lunga poesia- manifesto, Hablo por mi diferencia).

Documentate da video e foto, quelle memorabili “azioni” – che a partire dal 1997, sciolto il collettivo, Lemebel ha proseguito da solo finché la malattia glielo ha permesso – di recente sono state oggetto di una giusta rivalutazione e oggetto di grandi mostre a Città del Messico, Madrid, Lima e San Paolo, a proposito delle quali il curatore Gerardo Mosquera sottolinea: “Sono opere forti, creative, che in quel momento erano davvero necessarie”.

Opere intensamente politiche, soprattutto, perché come ha ricordato Carlos Monsiváis nel presentare Lemebel alla Fiera del libro di Guadalajara, nel 2001, tutta la sua attività di scrittore e di artista è così strettamente intrecciata alla militanza da esserne indistinguibile. A dimostrarlo c’è, in particolare, la sua opera letteraria (apprezzatissima da Roberto Bolaño, che cercò di diffonderla in Europa, e in parte ci riuscì): un incantevole romanzo, Ho paura torero (Marcos y Marcos, 2004), e soprattutto le otto raccolte di crónicas uscite tra il 1995 e il 2013, dopo un esordio favorito da scrittrici come Diamela Eltit e Pía Barros, e che restano praticamente ignote in Italia, a parte la breve antologia pubblicata nel 2009 da Marcos y Marcos con il titolo Baciami ancora, forestiero. La scelta di una forma come la crónica, oggi esageratamente di moda in America Latina e spesso adoperata in modo maldestro, non deve però trarre in inganno: Lemebel è molto più scrittore che giornalista, ci restituisce la realtà urbana della Santiago più desolata e periferica (quella degli emarginati, della locas ammalate di Aids, dei travestiti, dei sottoproletari) attraverso una reinvenzione costante, uno sguardo autobiografico e una splendida prosa neobarocca, caustica e violentemente risentita quanto immaginosa e poetica, piena di invenzioni linguistiche e di localismi suggestivi, che la rendono “più vera del vero”, ben diversa da quella che oggi filtra compostamente da crónicas impeccabili e oggettive, ma “di design” (la definizione è dello stesso Lemebel), senza sangue né corpo.

Perché sta nel corpo, non ci sono dubbi, la forza di Lemebel: in un corpo travestito, dipinto, ornato, sofferente, pieno di cicatrici, traboccante di dolori e di passioni. Un corpo esibito come messaggio di rivolta, come il veicolo della rabbia senza riguardi e senza peli sulla lingua di qualcuno che aveva “la periferia incollata alla pelle”, che non si inchinava a nessuno e che non era mai stato addomesticabile, nonostante i media avessero tentato in tutti i modi di trasformarlo in un personaggio folkloristico, nel “gay di corte”, in una sorta di buffone alla moda. Ma, diceva Lemebel, la società borghese non sarebbe mai riuscita a cooptarlo tramite “la miserabile elemosina dei diritti civili”: la sua scelta era quella di essere “così rossa, così frocia, così piena di risentimento da collocarmi in un territorio arcaico dove non possano raggiungermi con la loro beneficenza ortopedica di uguaglianza sociale”.

Il suo Cile periferico e dolente, marginale ed escluso, ha risposto a tutto questo con travolgente amore: non per niente Lemebel era uno dei pochi scrittori al mondo che non potevano camminare per strada senza essere fermati e abbracciati non dai molti intellettuali di cui pure aveva contribuito a mutare il punto di vista sulle cose e sul mondo (e ai quali aveva dato più di una lezione, rifiutandosi di rinunciare alla memoria e di adattarsi all’ipocrisia della concertación), ma dalla gente come lui, nata “nel fango”.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel gennaio 2015

lunedì 19 gennaio 2015

Da leggere: Julián Herbert


Julián Herbert





La ninna-nanna funebre di Julián Herbert

Non tutto, a questo mondo, si può tradurre, anche se bisogna provarci sempre e comunque per “dare almeno l’idea” di un’opera altrimenti irraggiungibile, come sosteneva il poeta (e ottimo traduttore) Ted Hughes. Ecco perché Canción de tumba del messicano Julián Herbert, apparso nel 2011 presso Random House-Mondadori e vincitore in quello stesso anno del Premio Jaén de Novela, ha dovuto cambiare titolo man mano che il libro veniva tradotto in altri paesi: è quasi impossibile, infatti, suggerire in lingue diverse dallo spagnolo il rapporto tra la canción de cuna che le madri cantano ai bambini per addormentarli e la funebre ninna-nanna elaborata da Herbert accanto al letto della madre moribonda.

Nell’edizione italiana Canción de tumba è diventato dunque Ballata per mia madre (Gran Vía, pag. 218, e. 14,50, traduzione di Maria Cristina Secci): un adattamento davvero inevitabile, che purtroppo cancella un’immagine capace di fare da perfetta “porta di ingresso” a un grande romanzo destinato a dare un senso nuovo alla cosiddetta autoficción della quale la recente letteratura latinoamericana fa oggi largo uso, con esiti a volte notevoli, come nel caso di Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia di Patricio Pron (Guanda 2013) o del prodigioso El desbarrancador di Fernando Vallejo, ma più spesso irrilevanti e con sostanziose derive autoreferenziali, come Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel (Einaudi 2014).

Sotto qualunque titolo viaggi, però, Ballata per mia madre si impone al lettore di qualunque paese come un testo fuori del comune, non solo per la storia che racconta – quella di un figlio che, vegliando e accudendo il corpo disfatto della madre malata di leucemia, ripercorre la propria vita e quella di lei, lontanissima dallo stereotipo della “mammina” ideale, prostituta e vagabonda sempre in fuga che cambia di continuo nome e città, donna intrepida e iraconda –, ma anche e soprattutto per come la racconta, in una lingua magnifica sostenuta da una struttura ambiziosa e complessa, fatta di frammenti che possiedono la naturalezza del discorso orale: una sorta di caos sofisticatissimo, in realtà costruito e rifinito con grande cura da una mano abile e appassionata.

Mentre racconta la propria infanzia e adolescenza, vissute tra bordelli, baracche, tentativi di violenza, tate atroci che sembrano la versione messicana delle megere dickensiane, uomini che vanno e vengono, fratelli e sorelle di padri diversi, e infine tutte le incarnazioni di Guadalupe Chavez, figura materna sospesa tra rabbia, incuria, menzogna e amore appassionato, Herbert non smette di interrogarsi sulla forma in cui va calata la storia di sua madre, e fa della malattia e della morte un filo conduttore per indagare non solo sulle radici di un dolore antico, ma anche sulle ragioni e sul senso del narrare, consentendoci in certo modo di assistere e partecipare al “farsi” del romanzo. Che forse non è un romanzo, ma, come voleva Roberto Arlt, un formidabile pugno alla mascella del lettore, travolto dall’espressione di una sofferenza che disintegra sul nascere qualsiasi tentazione melodrammatica, attinge a un umorismo acido e desolato e attraversa impavidamente più di un genere letterario, rifacendosi all’autobiografia come alla “scrittura del lutto” (da Cohen a Auster a Barnes a Jamaica Kincaid a Barthes), che però vengono sovvertite brillantemente, mentre un esplicito discorso sulle strategie letterarie e sul mestiere di scrittore corre parallelo alla narrazione.

In Ballata per mia madre, singolare e crudele Bildsungsroman messicano, Herbert finisce così per disegnare un cerchio che, partendo dalla sofferenza e dalla memoria, approda alla riconciliazione con la figura-cardine della madre e con la propria identità di figlio e di padre: dopo due paternità malvissute e segnate da abbandoni e fughe, Herbert e la sua compagna hanno un altro bambino proprio mentre Guadalupe muore, e la canción de tumba ridiventa canción de cuna, soundtrack di una maturità piena di ferite ma finalmente accolta e riconosciuta.

Alle vicende materne, a un ‘infanzia da sopravvissuto, alla malattia e alla morte, alla riflessione sul rapporto tra realtà, memoria e letteratura, al perfetto amalgama tra realtà e finzione, si intreccia però un’altra costante, ovvero la narrazione di un Messico di cui il corpo in disfacimento di Guadalupe sembra l’incarnazione e il simbolo. Chiuso in una stanza di ospedale, seduto accanto al letto da cui vengono gemiti e odori e lievi movimenti che testimoniano l’atroce impotenza della madre, l’accanimento inutile della medicina, la perdita di ogni dignità, Herbert scrive la morte e la memoria senza tagliare fuori la realtà collettiva, anche se sfugge felicemente a quell’estetica della violenza che oggi ha colonizzato tanta parte della letteratura messicana e che rischia l’omologazione e l’approdo a un facile consumo.

Herbert – che è nato nel 1971 e vive nel nord del paese, in una piccola città dello stato di Guerrero, teatro di un recente massacro senza risposte – è perfettamente consapevole della violenza e della corruzione di cui è imbevuta, e non da oggi, la vita quotidiana del suo paese, e le lascia costantemente filtrare in ogni piega del suo romanzo: sono l’aria che lui e i suoi personaggi respirano, sono la storia della sua famiglia (il patrigno di Guadalupe, ferroviere, ha fatto parte del movimiento ferrocarilero degli anni ’50, ferocemente represso, cui Herbert dedica un magnifico episodio del romanzo), hanno modellato la sua vita e i suoi ricordi attraverso ingiustizie profonde, miseria assoluta, echi di attentati e assassinii politici. Le contraddizioni, il cinismo, l’ipocrisia, le complicità che caratterizzano la vita pubblica e privata della Suave Patria, sulla quale Herbert amaramente ironizza, impongono alla scrittore una visione politica del mondo che però non si traduce in letteratura militante o testimoniale, ne evita le rigidezze e privilegia un discorso indiretto e diffuso, efficacissimo nel prendere di mira la retorica del potere e dei suoi discorsi ufficiali, le ingiustizie sociali, le surreali follie di una lenta, insensata burocrazia.

Non si può, infine, ignorare quello che è un elemento fondante dell’opera di Herbert, ovvero una lingua ricchissima, fitta di immagini vertiginosamente e crudelmente poetiche, di neologismi, di contaminazioni tra cultura alta e popolare, tra slang locale e spagnolo colto, tra citazioni letterarie e musicali (lo scrittore, tra l’altro, è anche leader e cantante solista di una band chiamata Madrastras, ossia Matrigne): una lingua-spugna, pronta ad assorbire le cose più diverse, ma anche una lingua-puzzle, composta di innumerevoli pezzi solo in apparenza eterogenei, e infine una lingua volutamente “impura”, “sporca” eppure squisita, dotata di un ritmo inconfondibile. E questo ci ricorda che Herbert, autore di due romanzi e di bellissimi racconti (l’antologia Cocaína. Manual de usuario, uscita in Messico nel 2007, meriterebbe davvero la traduzione), nonché critico acuto e anticonformista, è innanzitutto un poeta, anzi uno dei migliori e più innovativi poeti messicani di oggi, con una dozzina di titoli al suo attivo e un forte interesse per la videopoesia, sulla quale lavora da anni. Ed è anche per questo che, a tratti, Ballata per mia madre sfiora la prosa poetica, possiede – almeno in lingua originale – una musicalità inconfondibile e audace, e ci offre inesauribili possibilità di lettura, ponendoci al tempo stesso, come è compito della letteratura, infinite domande.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel gennaio 2015