lunedì 15 dicembre 2014

Da leggere: Juan José Saer



Juan José Saer




Un enigma sfuggente 

La letteratura argentina conta numerosi scrittori celebri che si sono cimentati con il giallo, occasionalmente e alla loro maniera. Il più ligio alla tradizione, fra tutti, è stato Rodolfo Walsh, con i racconti di Variazioni in rosso, in cui le regole del “genere” vengono applicate con una certa rigidezza e quasi meccanicamente, mentre i “problemi” risolti dal don Isidro Parodi di Borges e Bioy Casares parodizzano il poliziesco deduttivo di stampo inglese e vi innestano una inequivocabile satira della società argentina. Tutt’altro discorso per il Soriano di Triste solitario y final e per José Pablo Feinmann , che, da Gli ultimi giorni della vittima a Los crimenes de Van Gogh alla trilogia sul detective-killer Joe Carter, rivisitano e stravolgono l’hard boiled letterario e cinematografico nordamericano, rendendogli allo stesso tempo omaggio, come pure fa Manuel Puig in uno dei suoi migliori romanzi, The Buenos Aires Affair, mentre Ricardo Piglia, autore dei sofisticatissimi Soldi bruciati e Bianco notturno, usa il genere per cercare (è lui stesso a sottolinearlo) di “ricostruire una storia che è fuori dalla scena, fuori della superficie della narrazione”.

Nessuno di questi punti di riferimento, con i loro differenti modi di avvicinarsi al poliziesco e di usarlo, tuttavia, può preparare il lettore al sorprendente incontro con L’indagine (pag. 159, e.13,50) di Juan José Saer, saggista, poeta e scrittore argentino scomparso nel 2005 a sessantotto anni, la cui narrativa, elaborata con estremo e appartato rigore, si fonda su una ricerca formale che l’ha portata molto lontano dal realismo sociale e da quello fantastico – due proposte per lungo tempo dominanti nelle letterature latinoamericane – in direzione di un’avanguardia intesa non come movimento codificato, ma come “atteggiamento nei confronti dell’arte” e come tensione incessante verso il nuovo.

Già pubblicato nella nostra lingua nel 2006 da Einaudi, e ora riproposto nella traduzione davvero ottima di Gina Maneri da La Nuova Frontiera (che nel 2012 aveva presentato ai lettori italiani Cicatrici, il primo grande romanzo saeriano della maturità), L’indagine potrebbe avere, piuttosto, dei punti di contatto con El aire di un crimen di un altro grande scrittore, lo spagnolo Juan Benet, se non altro perché i due testi sono fortemente connotati dalla peculiare ricerca stilistica degli autori, che piegano il genere alle proprie esigenze e ne fanno qualcosa di inconfondibilmente personale. Entrambi i romanzi, poi, sono ingiustamente considerati minori in seno a corpus narrativi di straordinaria importanza e spessore, simili a un labirinto costantemente modificati dall’aggiunta di nuovi segmenti.

E il labirinto è l’immagine che più spesso viene evocata, non a sproposito, quando si parla di L’indagine, in cui il lettore si trova davanti a un intreccio di enigmi diversi che sembrano sfociare uno nell’altro, e che spesso disegnano uno spazio sia fisico che interiore, in cui i personaggi vagano, tornano sui propri passi, si perdono, alla ricerca di un’uscita impossibile. Il primo enigma è quello della voce narrante che occupa la prima delle tre parti in cui è diviso il romanzo: non sappiamo a chi appartenga, dove si trovi, chi siano gli ascoltatori cui sta raccontando la vicenda di un serial killer che ha violentato, ucciso e ritualmente sezionato ventisette vecchie signore e, nella gelida Parigi pre-natalizia, si accinge a eliminare la ventottesima.

Il secondo enigma è ovviamente l’identità dello spietato assassino, sulla quale si interroga l’assorto ispettore Morvan, soggetto a trances misteriose che lo portano a vagare nottetempo per un dedalo di strade e piazze, dove crede di scorgere mostri simili a quelli del libro di mitologia avuto in regalo da bambino. E’ la sua complessa storia personale a contenere il terzo enigma (quello della sua nascita e paternità, piene di segreti), mentre il quarto, che occupa tutta la seconda parte del libro, riguarda l’identità dell’autore di un manoscritto anonimo, un romanzo sulla guerra di Troia intitolato En las tiendas griegas, del quale ci viene offerto, come un regalo a sorpresa, un breve apologo sulla natura del narrare. E l’ultimo enigma, fuggevolmente accennato ma non meno importante, è la scomparsa di un uomo e della sua amante, sequestrati nel corso dei terribili anni ’70.

Al contrario di quanto accade nel classico romanzo poliziesco, basato su una trama che porta al raggiungimento della verità e alla catarsi che ne consegue, a buona parte di questi enigmi L’indagine non offre risposte, ma sembra suscitare altre domande: il detective è incapace di ristabilire l’ordine, e la ricomposizione del caos non può essere che fluttuante e instabile, a seconda del punto di vista attorno al quale si organizza.

Certo, la voce narrante finisce per rivelarsi come Pichón Garay, santafesino residente a Parigi da molti anni (come Saer stesso, che nella capitale francese visse fino alla morte, insegnando Estetica all’Università di Rennes), capace di trasformare un truce fatto di cronaca in un fluido racconto pieno di riferimenti personali, deliziosi ritratti di vecchiette inaffondabili che offrono il tè ai loro assassini, acuti commenti sulla società dei consumi e sulla percezione della realtà imposta dai media, allusioni letterarie – per esempio al giallo francese delle origini e alla Parigi di Poe – e mitologiche, ovviamente intrise del sadismo sanguinario che dèi, mostri ed eroi praticano con divina naturalezza. E la scoperta che gli ascoltatori di Pichón sono il suo amico di sempre Tomatis, giornalista e scrittore, e un giovanotto di nome Soldi, riuniti intorno al tavolo della cena tra sigari e birre, ci riconduce alla Zona (il nordest argentino dove l’autore era nato e cresciuto, Santa Fé e il suo litorale, il Paranà e i suoi affluenti), un luogo al tempo stesso reale e immaginario in cui, da un romanzo all’altro, si muovono gli stessi personaggi, da sempre sodali e complici: un universo circoscritto ma dilatabile all’infinito, presente sin dal libro d’esordio di Saer - la raccolta di racconti En la zona, del 1960 - che, dice Beatriz Sarlo, come Onetti o Faulkner ha scelto di focalizzarsi su uno “spazio del narrato, che smette di essere un semplice sfondo contro il quale si muove la storia per diventare una materia poetica altrettanto centrale della storia che racconta”.

In questo mondo di spiagge, pianure e grandi corsi d’acqua, dove le charlas, le conversazioni – che delle storie di Saer sono un elemento portante – scorrono ampie e lente come i fiumi, i tre amici sono andati in cerca, senza trovarla, della conferma che l’autore di En las tiendas griegas è Jorge Washington Noriega, altro vecchio amico ormai defunto, figura carismatica ispirata da quello che Saer considerava il suo maestro, ovvero Juanele L. Ortiz, poeta grandissimo ma quasi segreto; uno degli enigmi resta così senza soluzione, come pure quello che riguarda la sorte di El Gato (fratello gemello di Pichón) e della sua innamorata Elsa, inghiottiti per sempre dalle sabbie mobili della dittatura e protagonisti di Nadie Nada Nunca, romanzo che idealmente precede L’indagine e ne annuncia i delitti attraverso una strage di cavalli senza spiegazione.

Nemmeno la paternità di Morvan verrà davvero chiarita (suo padre è il militante comunista che l’ha allevato, oppure l’ufficiale della Gestapo con il quale sua madre è fuggita?), ma del killer delle vecchiette sapremo finalmente il nome, con tanto di spiegazione psicanalitica acclusa, alla fine del racconto di Pichón… Oppure no? Perché c’è un’altra possibilità, suggerisce Tomatis, fornendo una sua interpretazione della storia agli amici; una nuova e convincente soluzione dell’enigma (quella, in un certo senso, che un lettore attento potrebbe divertirsi a elaborare alla fine di un romanzo, “riscrivendolo” secondo il proprio punto di vista) si affaccia così nelle ultime pagine, mentre Morvan sfoglia il suo libro di mitologia che contiene, da tempo infinito, tutti i mostri, tutto il sangue, tutte le passioni. E può darsi (oppure no) che sia quella giusta, perché, come Saer tenta di dirci in ogni pagina della sua opera, appoggiandosi a una scrittura luminosa, lenta e piena di dettagli, incredibilmente vicina alla perfezione, una storia è già vera per il semplice fatto di essere raccontata, e il suo compito è aggiungere peso, densità e senso a una realtà sfuggente, che va affrontata interrogandola di continuo con gli strumenti dell’arte.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre 2014

domenica 30 novembre 2014

Da leggere: Mario Levrero


Mario Levrero



La novela luminosa

C’è una definizione che, a partire dalla fine del XIX secolo, ricorre nella critica letteraria latinoamericana e spagnola: los raros (ovvero gli eccentrici, gli irregolari, quelli che “non somigliano a nessuno”, come scrive Italo Calvino a proposito di Felisberto Hernández), usata per la prima volta da Rubén Darío come titolo di un libro del 1896, in cui il poeta nicaraguense riunì i ritratti degli scrittori che considerava estranei alla tradizione e al canone, o capaci di scalarne le mura ben difese. Inutile sottolineare che quasi tutti i raros indicati da Darío si sono trasformati in classici e che col tempo il senso e il significato della rareza sono cambiati più volte. Nel 1966, per esempio, il critico Ángel Rama ha raccolto in Aquí. Cien años de raros, i racconti di quattordici scrittori uruguayani, inserendoli in una linea segreta, estesa e profonda, di “stranezza” nazionale. Il contributo più interessante l’ha dato però lo spagnolo Pere Gimferrer, con un saggio del 1985 anch’esso intitolato Los raros, in cui suggerisce che, estinto il canone e sostituita la tradizione con mode fuggevoli, tutto può ormai rientrare nella categoria della rareza. Raro, allora, sarà oggi quell’autore che “che viene letto male, o capito male, o diffuso male”, quindi marginale, irregolare, noto solo a un pubblico ristretto e specializzato, e a volte ironicamente destinato a una fortuna postuma.

Quello che scrive Gimferrer si adatta in particolare al caso di Mario Levrero, scrittore uruguayano scomparso nel 2004, molto amato in vita da una cerchia di lettori non casuali, spesso “capito male” dalla critica e ora oggetto di una riscoperta che si appoggia tanto sulle nuove edizioni di titoli prima introvabili, quanto su un congruo numero di analisi e studi, frutto di un ormai robusto interesse accademico. All’origine di questo fermento critico ed editoriale c’è La novela luminosa, l’ultimo romanzo, il più complesso e il più lungo, pubblicato un anno dopo la scomparsa di Levrero; dopo averlo letto, molti hanno gridato al capolavoro, come lo scrittore argentino Fogwill, e altri gli hanno attribuito la stessa importanza del 2666 di Bolaño (ma i due autori non potrebbero essere più diversi), ipotizzando, come la rivista messicana Letras Libres, che il libro si trasformerà in un faro “di quanto verrà scritto nel nostro continente in un prossimo futuro”.

Oggi Il romanzo luminoso (pag. 700, e. 19) arriva anche in Italia nella traduzione di Maria Nicola, per inaugurare una nuova impresa della Jaca Book, editore che torna alla narrativa con Calabuig, collana dedicata ai classici di domani: una scelta interessante, quella di cominciare con un autore misterioso, originale, poco noto (di Levrero era stato tradotto un unico racconto, inserito in Inchiostro sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata a cura di Loris Tassi e Antonella De Laurentis per Arcoiris), e soprattutto lontano da quel gusto medio orientato al ribasso che sembra la stella polare della nostra editoria. Vale la pena, in effetti, di seguire il percorso di Jorge Mario Varlotta Levrero, nato nel 1940 a Montevideo, che a ventisei anni si sdoppiò in Mario Levrero e Jorge Varlotta, riservando il primo nome alla narrativa e ai laboratori di scrittura, il secondo ai testi umoristici, alla sceneggiatura di fumetti, all’attività giornalistica e alla creazione di cruciverba. E, tra i due, fu attorno a Mario Levrero che si consolidò negli anni il mito del solitario perdutamente eccentrico, hacker indefesso, pieno di fobie e interessato alla parapsicologia, all’ipnosi, alla telepatia, scrittore inclassificabile e allergico alle interviste.

Dalla prima apparizione di un suo testo (il racconto Gelatina, del 1968) a Il romanzo luminoso, la traiettoria letteraria di Levrero appare mutevole ma non incoerente, pronta a lasciarsi contaminare da materiali come il cinema, il fumetto, i cartoni animati, il tango, la pornografia, e a sfiorare i confini del fantastico, della fantascienza e del poliziesco (uno dei suoi romanzi, Nick Carter se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo, è uno stravolgimento parodico del giallo d’azione) senza mai esserne davvero inghiottita, mentre segue la corrente di quello che Angel Rama ha chiamato “libertinaggio immaginativo”, ben evidente in un romanzo d’esordio riconoscibilmente kafkiano, La ciudad (1970), e nei due successivi, Parìs (1980) e El lugar (1982): una “trilogia involontaria” che l’autore dirà di considerare come un unico testo, abitato da personaggi vaganti in una realtà tra onirica e carceraria, allegoria trasparente dei labirinti interiori. Nei libri successivi – una decina, tra nouvelles e raccolte di racconti quasi sempre straordinari – Levrero si affida a trame zigzaganti, in cui le metamorfosi e le distorsioni spazio-temporali nascondono un’ostinata ricerca su quello che, sarà lui stesso a dirlo, è il suo vero tema, e cioè “l’identità e i limiti dell’io”, esplorati da qualcuno che “non si è mai sentito disegnato per vivere in questo mondo”: storie che secondo il loro autore non sono né surreali né fantastiche, ma rappresentano una realtà logorata e deformata come un paio di scarpe indossate a lungo, e avviluppano il lettore in una ragnatela, ipnotizzandolo con la loro travolgente alterità.

Nel 1996, finalmente, si arriva a El discurso vacío, diario uno scrittore che intraprende una autoterapia grafologica, decidendo di svuotare il testo di ogni contenuto per concentrarsi sulla calligrafia, ma finendo per costruire il racconto di una terribile quotidianità modellata dall’inconscio. Ed è proprio El discurso vacío a preparare e anticipare l’opus magnum di Mario Levrero, in cui si racconta di uno scrittore in perenni difficoltà finanziarie, che riceve una borsa Guggenheim per terminare un libro cominciato molti anni prima. Ma per poter rimettere mano al suo “romanzo luminoso” l’autore deve creare le condizioni ideali per la scrittura: perciò, confortato da un improvviso e modesto benessere, spende i soldi della borsa in comodità domestiche e romanzi polizieschi, e naturalmente si allena, scrive ogni giorno per arrivare a un impossibile stato di grazia, componendo un Diario della borsa che farà da lunghissimo prologo al romanzo vero e proprio, destinato a rimanere tale e quale: poco più di cento pagine, un pugno di capitoli neppure rivisti o corretti.

Giorno per giorno, ora per ora, ci viene narrata la vita di un uomo anziano, ipocondriaco e agorafobico, un solitario che però riceve le visite di amici fedeli, degli allievi e delle donne che lo amano o lo hanno amato (compresa un’adorata ragazza sempre più distaccata e lontana), e che passa le notti sveglio davanti al computer. Un racconto minutamente e apertamente autobiografico che si ramifica di continuo in altre storie, associazioni di idee, ricordi, sogni, voci, digressioni su nuove letture che irretiscono e su voli di uccelli nella terrazza vicina, dove imputridisce il cadavere di un piccione. Un anno di scrittura centrato paradossalmente sull’impossibilità di scrivere, mentre lo scivolare insensibile verso una morte non troppo lontana, le notti divorate dai videogiochi e dalla pornografia in rete, la coazione a un ozio vuoto, ma in realtà incline a riempirsi da solo fino a traboccare, delineano uno scenario di disastro, di sconfitta, sia pure disegnato con l’umorismo che è una delle caratteristiche di tutta l’opera di Levrero, sempre capace di cogliere il “lato allegro della tragedia”. Solo alla fine del diario, gorgo che inghiotte chi legge e lo lascia stordito, quasi inconsapevole di aver divorato cinquecento pagine fino a fondersi con un narratore che ha condiviso con lui un’ossessiva e caustica dissezione della propria impotenza, si arriva ai cinque capitoli scritti vent’anni prima, che cercano di trasmettere bizzarre esperienze spirituali, lampi di luce trasmettibili solo grazie a una letteratura intesa come forma di comunicazione profonda, che attraversa la membrana della realtà e ne riscrive i codici.

Il vero “romanzo luminoso”, però, non sta in quelle ultime cento pagine: è in realtà il prologo, l’oceanica introduzione, il prodigio del diario che si avvia a diventare una delle opere capitali della letteratura latinoamericana del nuovo secolo, e che una volta di più ci conferma qualcosa in cui Levrero credeva fermamente: “Quando si è giovani e inesperti, si cercano le storie importanti, nei libri come nei film. Col passare del tempo si scopre che la storia non ha molta importanza; lo stile, il modo di raccontare, sono tutto”.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre 2014

lunedì 27 ottobre 2014

Anniversari e addii: Ramiro Pinilla, o della perseveranza



Ramiro Pinilla

 
 
 

Ramiro Pinilla, o della perseveranza 

Il nome di Ramiro Pinilla, morto il 23 ottobre a novantuno anni, non è familiare ai lettori italiani, a meno che non abbiano letto nel lontano 1962 l’unico suo testo tradotto nel nostro paese, Formiche cieche. E tuttavia vale la pena di ricordare la sua esistenza e la sua opera anche a quanti non lo hanno mai sentito nominare, perché Pinilla non è stato solo l’autore di romanzi memorabili, paragonato in patria a Faulkner e a García Márquez, ma anche un uomo dalla storia insolita, capace di compiere scelte tenacemente diverse da quelle della compagnia di giro che oggi vediamo promuovere fino allo sfinimento i propri prodotti, rimbalzando da una Fiera del libro a Twitter, da un festival a un reading.

Pinilla, basco di famiglia spagnola immigrata a Bilbao (quindi un maketo, secondo la definizione spregiativa usata dai baschi “puri”), era un autodidatta, prima macchinista sulle navi mercantili, poi impiegato nell’azienda comunale del gas, quindi confezionatore di testi per una casa editrice specializzata in figurine e autore di biografie scritte su commissione, ma anche scrittore clandestino che riempiva fogli su fogli con una vecchia stilografica, approfittando dei momenti rubati alla famiglia e alle fatiche delle sopravvivenza. Solo nel 1960 questo lavoro silenzioso ha dato i suoi frutti, con l’assegnazione del premio Nadal al suo romanzo Las ciegas hormigas, subito pubblicato dalla Editorial Destino e accolto con grande favore dalla critica: un libro duro, denso, dalla scrittura trasparente e netta, in cui lo scrittore ha gettato le basi di un cosmo paesano allo stesso tempo reale e fittizio, quello di Getxo, la cittadina sulle coste del golfo di Biscaglia dove ha trascorso quasi tutta la vita e ambientato l’intera sua opera.

Il rapporto con un’industria editoriale pronta a mangiarsi in un boccone un outsider provinciale e dignitosamente ingenuo, però, è stato particolarmente infelice: orgoglioso quanto incapace di adattarsi alle ragioni del marketing e alle leggi moderatamente feroci del mundillo letterario, Pinilla ha optato quasi subito per una volontaria esclusione (“pubblicare sì, ma non a qualsiasi costo e tradendo se stesso”, racconterà molti anni dopo), ritirandosi in una piccola casa circondata da un grande orto, chiamata Walden in omaggio al suo libro prediletto, Walden ovvero vita nei boschi di Thoreau. Là, rimasto solo con tre bambini, li ha cresciuti “come una madre” e con immensa gioia, inventandosi un giornale locale poi distrutto dalle bombe incendiarie dell’ETA, allevando polli e vendendo uova, e infine creando una sorta di laboratorio, El taller: non una scuola di scrittura, ma un semplice luogo di condivisione e di ascolto. A Walden, inoltre, Pinilla ha continuato a vivere la sua “altra vita”, scrivendo e autopubblicandosi attraverso Libropueblo, micro casa editrice fondata con un amico e fallita dopo qualche anno, che vendeva a prezzo di costo libri distribuiti solo nella provincia di Bilbao (molto spesso erano gli editori stessi a venderli nei mercatini), comperati da pochi e letti da pochissimi.

Più solitario che mai, senza avere un editore né una prospettiva di pubblicazione, Pinilla ha impiegato vent’anni per completare quello che Ricardo Senabre ha definito “l’impresa narrativa più considerevole sorta tra noi negli ultimi decenni… Un romanzo fondamentale”, e cioè Verdes valles, collinas rojas, una trilogia di duemilacinquecento pagine abitata da oltre cinquanta personaggi, che, intrecciando le vicende di due famiglie di Getxo dalla fine del diciannovesimo secolo sino all’epoca della guerra civile, disegna la storia dell’intero paese basco e delle sue contraddizioni. Tre romanzi il cui solido realismo si fonda sulla vocazione libertaria e sull’interesse per le questioni sociali dell’autore, sulla sua visione critica del nazionalismo, sul suo culto per la memoria, componendo un mosaico complicato eppure leggibile, fatto di migliaia di piccoli pezzi, ognuno dei quali è un piccolo romanzo a sé.

Proposta dallo scrittore basco Fernando Aramburu all’editore Tusquets (il cui editor Juan Cerezo ha saputo stabilire un rapporto rispettoso e cordiale con Pinilla), la trilogia è stata pubblicata dieci anni fa, quando l’autore aveva superato gli ottanta, ed è immediatamente diventata un caso letterario, vincendo il Premio Nacional de Narrativa e raggiungendo migliaia di lettori, mentre critica e pubblico scoprivano l’esistenza di uno scrittore straordinario cui si doveva uno dei migliori romanzi spagnoli del nuovo secolo. Da allora, tutta l’opera di Pinilla viene ripubblicata da Tusquets, insieme a titoli nuovi e spesso notevoli, come La higuera, che ha preceduto i più recenti divertissement polizieschi (una trilogia il cui protagonista è un eccentrico libraio detective) ispirati da una intensa frequentazione del cinema e della letteratura gialla. All’ultimo romanzo, quello per il quale stava ancora cercando il finale giusto, lo scrittore ha continuato a pensare anche durante il suo ricovero in ospedale: perché Pinilla non ha mai smesso di scrivere, fino all’ ultimo giorno, e chissà che per i lettori italiani non sia arrivato il momento di conoscerlo e, finalmente, di leggerlo.

 


Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il manifesto nell’ottobre 2014

lunedì 6 ottobre 2014

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt




La luna rossa di Roberto Arlt

Nel 1991 il supplemento letterario del quotidiano Pagina/12 pubblicò un testo di Ricardo Piglia intitolato Arlt: un cadaver sobre la ciudad (oggi lo si può leggere nella raccolta Formas breves, edita nel 2000 da Anagrama), in cui si raccontava del funerale di Robert Arlt: dopo la veglia funebre la bara, troppo grande per passare dalla porta, venne calata dalla finestra della casa e rimase sospesa sul panorama di Buenos Aires, città dove lo scrittore era nato a metà del 1900. Una storia davvero suggestiva, ma probabilmente falsa – lo sottolinea Sylvia Saitta, autrice di El escritor en el bosque de ladrillos. Una biografía de Roberto Arlt –, nonostante Piglia affermi che a svelargliela erano state certe foto viste insieme a Juan Carlos Martini, come lui animatore, negli anni ’80, di una fugace rivista letteraria chiamata El traje del fantasma (titolo, guarda caso, tratto da un racconto arltiano). Pare che la veglia, in realtà, si fosse tenuta a pianterreno del Circolo della Stampa, per non parlare del fatto che l’episodio ricorda in modo sospetto quello, analogo e autentico, accaduto nel 1964 a Montevideo, quando l’enorme feretro di Felisberto Hernández – altro indomabile scrittore eccentrico – planò lentamente in strada grazie a corde e carrucole.

Quell’estremo e forse mai avvenuto librarsi sopra Buenos Aires, però, ha consentito a Piglia di commentare che la bara sospesa nell’aria “è una buona immagine del posto di Arlt nella letteratura argentina. È morto a quarantadue anni e sarà sempre giovane e continueremo sempre a far uscire il suo cadavere dalla finestra. Il rischio più grande che corre oggi la sua opera è quello della canonizzazione. Finora il suo stile lo ha salvato dal finire in un museo: è difficile neutralizzare una scrittura che si oppone frontalmente alla norma di ipercorrettezza che definisce lo stile medio della nostra letteratura”. E in effetti nessuno è più estraneo di lui a quel peccato mortale che Piglia chiama con lapidaria efficacia “stile medio”, tanto che la irruzione perturbante e innovatrice di Arlt nella letteratura argentina, alla cui tradizione fu in fondo estraneo, può essere paragonata solo a quella di Manuel Puig, autore da lui diversissimo, ma con il quale condivide la capacità di essere vistosamente in anticipo sul proprio tempo.

Non sono mancate, per fortuna, le versioni italiane dell’opera di Roberto Arlt, anche se Il giocattolo rabbioso (1926), I lanciafiamme (1929) e I sette pazzi (1931) sono arrivati da noi solo negli anni ’70, e se abbiamo dovuto aspettare il 2013 per leggere L’amore stregone (1932), l’ultimo dei suoi quattro romanzi; la stessa sia pur discontinua attenzione non è toccata ai cinque volumi di racconti usciti fra il 1933 e il 1940 (in passato, solo due brevi raccolte ce ne hanno proposto una scelta), e nemmeno alle celebri Aguafuertes Porteñas dedicate a Buenos Aires e ai suoi abitanti: migliaia di testi brevi apparsi ogni giorno sul quotidiano El Mundo a partire dal 1928, che assicurarono al loro autore una considerevole popolarità.

Oggi la lacuna viene in parte colmata dalla prima traduzione italiana delle Acqueforti di Buenos Aires, a cura di Marino Magliani e Alberto Prunetti (Del Vecchio editore, pag. 304, e. 15), che ne hanno selezionato, tradotto e annotato una settantina, e da Scrittore fallito (Edizioni Sur, pag. 231, e. 15), un’antologia di racconti scelti e tradotti da Raul Schenardi, che ha privilegiato gli inediti e ha attinto in modo particolare alla raccolta “africana” El criador de gorila (quindici racconti esotici, fantastici e avventurosi pubblicati per la prima volta nel 1941), superando brillantemente i non pochi ostacoli posti dal lessico e dalla sintassi di Arlt. E appare ovvio, per chi già conosca l’autore, che i due libri vadano letti in parallelo, perché temi, personaggi, ossessioni, ambienti, visioni, incubi, suggestioni e polemiche rimbalzano continuamente da un testo all’altro, tendendo fili evidenti tra l’autore di racconti e la “firma” di El Mundo (lo stesso Arlt, del resto, in una Aguafuerte del 1929 dedicata alla professione che gli dava da vivere e che gli permise di viaggiare come inviato in Cile, Brasile, Uruguay, Africa e Spagna, dichiara: “Per essere un bravo giornalista bisogna essere un bravo scrittore”).

Va detto che per molto tempo le Acqueforti, raccolte in volume già nel 1933, sono state considerate una produzione minore e non strettamente letteraria, materiale deperibile nato per essere rapidamente consumato da operai, impiegati e casalinghe che prediligevano il formato tabloid, le prime pagine vistose e il taglio semplice di El Mundo, giornale creato alla fine degli anni ’20 in una nazione che ancora beneficiava di una crescita economica straordinaria e dell’ingresso nella vita politica di una classe media e di un proletariato nati da un gigantesco melting pot, del quale anche Arlt era figlio (suo padre era prussiano, sua madre triestina). A questo pubblico abbastanza alfabetizzato da poter accedere alla vasta offerta di una industria editoriale in piena espansione, Arlt si rivolgeva direttamente e in prima persona, stabilendo con esso un dialogo costante e senza nascondersi dietro una oggettività per lui impossibile. Ruvido, sarcastico, curioso, trasformava i suoi lunghi vagabondaggi per Buenos Aires in istantanee del paesaggio urbano, in ritratti ironici dei difetti cittadini, in visioni del futuro, in minimi ma succosi excursus filologici sulle radici del lunfardo – derivato in buona parte dai dialetti italiani –, in rapide incursioni nel mondo dell’arte e delle lettere, in una satira aggressiva dell’ipocrisia e del culto collettivo per l’apparenza, e soprattutto nella denuncia della corruzione politica e dei problemi di una metropoli in turbolento sviluppo, conferendo alle Acqueforti una dimensione politica più o meno esplicita, ma sempre presente, anche se Arlt è incline più a un furore individuale che all’adesione a una qualsiasi ideologia (la sua vicinanza ai letterati marxisti del Gruppo di Boedo fu, in effetti, intermittente e occasionale).

Anche travasata nel “mezzo” giornalistico, la sua scrittura rimaneva profondamente narrativa, legata a un discorso letterario del tutto peculiare, in cui avevano fatto irruzione la lingua parlata e il gergo dei bassifondi. Una lingua spezzata e originale, inquieta e ribollente, estranea alla raffinatezza europeizzante dei circoli letterari argentini, così come erano loro estranei i materiali cui Arlt si rifaceva: il romanzo e il teatro popolari, il melodramma, la cronaca nera, il cinema, la stampa “a sensazione”, le enciclopedie a dispense, l’esotismo dei resoconti di viaggio. Da questo magma affiorano costanti che vanno oltre lo sguardo attento di un antropologo urbano, oltre l’indignazione delle risentite Acqueforti, e rimandano al narratore e all’autore di teatro, sottolineando come tutta la sua opera sia un provocatorio continuum di temi, linguaggi, scelte stilistiche (per esempio quella della frammentazione, che spezza i capitoli dei romanzi in sequenze brevi e provviste di titolo, quasi delle Aguafuertes incatenate), argomenti e personaggi.

La lettura di Scrittore fallito evidenzia in modo particolare la contiguità tra l’Arlt giornalista e l’Arlt scrittore, a cominciare dal racconto che dà il nome alla raccolta (una sfrenata parodia dei letterati che “scrivono bene”, si inventano avanguardie senza peso né sostanza e sono letti solo da rispettabili parenti) e che potrebbe corrispondere idealmente all’Acquaforte L’inutilità dei libri, in cui la figura dello scrittore tradizionale, così come la tradizionale e stereotipata immagine della letteratura che distribuisce risposte e verità, vengono attaccate e demolite. Ed ecco tornare, nel racconto Eugenio Delmonte e i 1300 fidanzati, il rabbioso ritratto delle donne (e delle loro terribili madri) che vedono nel matrimonio una “sistemazione”: nelle Acqueforti se ne incontrano a dozzine, rappresentate con lo stesso rancore che ha guadagnato ad Arlt la fama di misogino, forse non del tutto meritata, perché alle popolane che lavorano duramente, oppresse da uomini fannulloni o violenti, viene riservata un’intensa compassione, quasi che attraverso la figura della accalappiatrice lo scrittore volesse criticare non tanto le donne, tutte le donne, quanto la loro condanna sociale a trovare nel matrimonio un’identità e una risorsa economica.

Ma ad accomunare racconti e Acqueforti è soprattutto la visione della città: una Buenos Aires dove tutto cambia da un giorno all’altro, fatta di sterminate periferie abitate da un vero e proprio “popolo degli abissi” che ha come unico codice di comportamento quello della lotta per la sopravvivenza, e pratica una devianza che agli occhi dello scrittore appare, a volte, come l’unica forma di ribellione possibile e dotata di senso. E a un tratto, nell’Acquaforte Gru abbandonate nell’isola di Maciel rivediamo le sagome da paesaggio cubista e le atmosfere sinistre del magnifico racconto La luna rossa, in cui una muta folla di uomini e animali si incammina in silenzio per le strade di una città deserta, per assistere al sorgere di un disco sanguigno che annuncia la guerra e gridare il proprio rifiuto. La città, intesa come corpo vivo e mostruoso, oscuro e divorante, trascolora dal reale al fantastico, diventa metafora di una modernità minacciosa che toglie ogni significato alla parola “progresso”, così fiduciosamente borghese, e sorge dalle pagine delle Acqueforti e dei racconti insieme “alla luna rossa bloccata dai grattacieli vermigli”, mentre la folla capisce che “questa volta l’incendio era divampato in tutto il pianeta, e che non si sarebbe salvato nessuno”. Un paranoico presagio di catastrofe che è il cuore della poetica di Arlt, e che ce lo rende più che mai contemporaneo.

 

 Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’ottobre del 2014