lunedì 22 giugno 2020

Da leggere: Alejandra Costamagna



Alejandra Costamagna 


Un paese di stranieri

Il sistema del tatto, romanzo di Alejandra Costamagna appena pubblicato da Edicola Ediciones (pag. 184, e. 15) nell’eccellente traduzione di Maria Nicola, si apre con due epigrafi – una provocatoria, l’altra poetica – di María Sonia Cristoff e Natalia Ginzburg sulla memoria e le genealogie. Una volta letto il libro, però, viene da pensare a una terza possibile epigrafe che forse suonerebbe altrettanto pertinente, e cioè una frase di Giorgio Manganelli rintracciabile in un suo articolo del 1988 su un viaggio a Buenos Aires, ora nel volumetto Ah, l’America! (MDS 2017): “Ma in realtà tutti gli argentini sono degli immigrati; dunque gli argentini sono degli stranieri; e tuttavia l’Argentina esiste”.

Quanto sono o si sentono stranieri i personaggi di Il sistema del tatto, partiti dal Piemonte per trasformare una terra sconosciuta in quello che Manganelli chiama “un luogo stranamente domestico, forse assurdamente domestico”, e venirne a propria volta trasformati? E Alejandra Costamagna, le cui origini sono segnate da una doppia migrazione (dall’Italia all’Argentina, i nonni; dall’Argentina al Cile, i genitori, fuggiti per sottrarsi al regime di Ongania), si sentirà o no “straniera” da una parte e dall’altra delle Ande attraversate tante volte nell’infanzia, oscillando ogni estate tra la dittatura di Pinochet e quella di Videla?

Proprio dello sradicamento, dell’estraneità, dell’obbligo di imparare a essere un altro, parla Costamagna in questo nuovo romanzo (il quinto, al quale vanno aggiunti sei volumi di racconti), ispirato alle vicende della sua famiglia, ma da non confondere con le storie quasi vere prodotte da una consolidata letteratura dell’emigrazione, o dalla cosiddetta autofiction. Il sistema del tatto va, infatti, al là del mémoires e si sottrae a vezzi autoreferenziali, offrendoci un testo aperto alle interpretazioni, denso di omissioni suggestive e di segreti non svelati, attento alla reinvenzione infantile del vocabolario o al suono di due lingue simili e diverse (lo spagnolo cileno e argentino), e pronto a cogliere dettagli solo in apparenza banali, secondo la lezione di Hebe Uhart, grande scrittrice argentina alla quale Costamagna riconosce di dovere molto.

L’inserimento tra un capitolo e l’altro dei materiali di un piccolo archivio – scoperto dall’autrice nella realtà, e dalla protagonista nel romanzo – composto da vecchie foto, pagine di quaderno, lettere, esercizi di dattilografia, brani di romanzi del terrore, citazioni tratte da un Manuale dell’immigrante italiano del 1913, si propone inoltre come una sorta di installazione in miniatura e rinsalda, invece di smentirla, la scelta di imboccare la strada dell’immaginazione, piuttosto che della pura testimonianza o della cronaca familiare, ricomponendo i diversi frammenti per realizzare una costruzione ibrida, letteraria e visuale.

Il viaggio di Ania, che torna nel paesetto dei nonni argentini per seppellire l’ultimo membro della famiglia rimasto laggiù, si trasforma così in un va e vieni tra il suo presente e il passato di Agustín, aggrappato per tutta la vita alla macchina da scrivere e, un tempo, ambiguamente ossessionato proprio dalla chilenita bambina. Unico della famiglia a non essersi mai mosso dal luogo dov’è nato, Agustín è cresciuto all’ombra tormentata della madre, spedita in Argentina per sposare un cugino sconosciuto e scivolata a poco a poco nella follia: ed è lei, Nelida, la figura più potente, sfuggente e misteriosa del romanzo. Tra scoperte e illuminazioni, carte e foto la rivelano come una donna moderna, dattilografa di mestiere (“il sistema del tatto” è un metodo di scrittura che consente di non guardare i tasti), bella e vivace: il contrario, dunque, della “zia pazza” che Ania ha visto trascinarsi in un’impenetrabile oscurità, sopraffatta da una vita non sua, dall’impossibilità del ritorno, da un paese percepito sino alla fine come estraneo e incupito dal macabro sottofondo della dittatura.

All’identità spezzata di Nelida e Agustín corrisponde quella incerta di Ania, che non sa e non vuole inserirsi nella “normalità” proposta dalla famiglia e dal mondo del lavoro (né moglie né madre, si trova meglio con gli animali e le piante che con le persone, ha perso il posto di insegnante per “scarsa severità” e vive di lavori precari). Ognuno dei tre, a suo modo, ha provato a resistere e a rifiutare il manuale di istruzioni offerto dalla società, sentendosi tenacemente “straniero”. Ed è nel continuo stabilire corrispondenze tra la storia di tutti (le ondate migratorie e il modo di accoglierle, i nazionalismi vecchi e nuovi, i processi di integrazione, la xenofobia) e quella intima e minima dei singoli, che il romanzo si conferma tra i migliori di un’autrice dalla scrittura limpida e implacabile, che a suo tempo Roberto Bolaño volle inserire in una triade di formidabili ragazze cilene (le altre due sono Lina Meruane e Nona Fernández) “pronte a mangiarsi il mondo”: leggendo Il sistema del tatto, come non dare ragione alla sua profezia?

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2020

mercoledì 10 giugno 2020

Da leggere: Mercé Rodoreda


 
Mercé Rodoreda


La morte e la primavera

Quanti sono i romanzi che la morte o la volontà del loro autore ha lasciato incompiuti, e che tuttavia sono diventati veri e propri classici? Vengono subito in mente America di Kafka e L’uomo senza qualità di Musil, ma se potrebbero citare altri, invariabilmente accompagnati dalle ipotesi sulla parte mancante e, a volte, da tentativi di concludere l’opera, come nel caso del dickensiano Il mistero di Erwin Drood.
Anche La morte e la primavera della catalana Mercé Rodoreda, da tempo riconosciuta come una fra voci più significative della letteratura europea, è un romanzo incompiuto al quale l’autrice lavorò per molti anni, abbandonandolo spesso e mettendolo infine da parte, anche se, rientrata in Catalogna dopo il lungo esilio seguito alla sconfitta repubblicana, negli ultimi anni della sua vita affermava di volerlo terminare. Dopo la scomparsa della scrittrice, nel 1983, l’abbondante materiale conservato presso la Fundaciò Rodoreda ha tuttavia permesso di “ricostruire” tre differenti versioni del testo, appena apparso in italiano nell’ottima traduzione di Amaranta Sbardella per La Nuova Frontiera (pag. 124, e. 16,50), casa editrice che si è assunta il compito di riproporre ai lettori italiani l’intera opera dell’autrice barcellonese e ha ormai pubblicato tutti i suoi romanzi, tranne l’esile – e anch’esso incompiuto – Isabel e Maria.
A Nuria Folch, vedova di Joan Sales (editore di La piazza del diamante, il più noto tra i titoli di Rodoreda) si deve la prima versione, basata sul manoscritto del 1961 e su alcune varianti successive, e pubblicata nel 1986; Carme Arnau è responsabile della seconda, che privilegia le riscritture più recenti e che dal 2008 fa parte delle Opere Complete; Arnau Pons è infine il curatore di quella del 2017, che tiene conto del lavoro di Folch ma vi introduce profonde modifiche e lo correda di un saggio in cui sostiene, tra l’altro, che siamo davanti a un romanzo incompleto ma non inconcluso, con un inizio e un finale ben precisi, e che l’autrice se ne allontanò perché si sentiva in qualche modo sopraffatta dal dipanarsi di un’opera difficile e labirintica, “terribilmente poetica e terribilmente nera”, come scrisse lei stessa a Sales.
L’edizione di La Nuova Frontiera si rifà a quella del 2008 (anche se prescinde dal suo taglio filologico ed esclude la segnalazione di note, correzioni e ripensamenti) e differisce quindi, almeno in parte, dall’edizione Sellerio del 2004, fondata sulla versione di Folch; ma il complicato percorso del romanzo non deve far pensare a un testo instabile e fin troppo manipolato, perché le discrepanze sono soprattutto stilistiche e la variante più sostanziosa è forse il peso crescente attribuito a un fabulatore ambiguo e perverso (il giovanissimo figlio del fabbro), una delle figure più inquietanti tra quelle di una narrazione dalle tinte gotiche, incantate e feroci, che secondo Pons si presenta come “un’opera sovversiva in cui il fantastico serve a promuovere con maggior forza una critica delle convenzioni e delle pratiche sociali”.
Molto diverso dagli altri romanzi di Rodoreda, affidati per lo più al realismo e a una sottile analisi psicologica, La morte e la primavera sembra comunque preannunciato da racconti quali La salamandra, storia di una donna bruciata come strega per via dei suoi amori irregolari e reincarnata in un animale che sfida il fuoco, dalle presenze spettrali di Specchio infranto, dai microracconti fantastici di Viaggi e fiori e dalla meravigliosa parabola di Quanta, quanta guerra, denso di metafore e di apparizioni e costruito per la prima volta attorno a un protagonista maschile, in luogo dei personaggi femminili cui l’autrice ha saputo conferire uno spessore e un’autenticità fuori dal comune. Nel romanzo vediamo inoltre riaffiorare alcune costanti, trasformate in squisite allegorie: il difficile rapporto tra maschile e femminile, l’incesto e la consanguineità, la delusione legata a relazioni ingannevoli e manipolatorie, la presenza di una natura sontuosa, carica di bellezza e di minaccia.
Anche qui la voce che racconta (“Nel mio stile attuale: in prima persona e cercando di dire le cose nel modo più puro e più inatteso” leggiamo nella corrispondenza con Sales) è quella di un ragazzo senza nome, prima adolescente e poi uomo sofferente e disilluso, definito con rara efficacia dalla prosa cristallina e immaginosa di un monologo lungo quanto il romanzo. Tracciando un cerchio perfetto, La morte e la primavera si apre e si chiude con un atroce suicidio, unica possibile rivolta contro le norme di una società chiusa – un “mondo secondario” magnificamente descritto in ogni più piccolo particolare –, collocata in uno spazio e un tempo indefiniti, che scrive il destino dei propri abitanti sin dalla nascita e sembra guidarli verso il Bosco dei Morti, dove ogni albero ha il nome di colui che verrà sepolto nel suo tronco, la bocca piena di cemento perché l’anima non fugga e non torni a spaventare i vivi.
La breve esistenza del protagonista, sottoposto alla stessa prova che ha già devastato la vita di suo padre (ogni anno un uomo muore o rimane sfigurato, mentre affronta il fiume sotterraneo che sembra attirare a sé le case del villaggio) è scandita da riti incomprensibili e segnata da infinite domande senza risposta, dall’impossibilità dell’amore, dal desiderio che lo spinge verso la giovane matrigna deforme, quasi una bambina. Ed è proprio il desiderio, ogni genere di desiderio, a rappresentare la minaccia più grave per la comunità che vive all’ombra della montagna spaccata, soggetta a un signore invisibile e assediata dal terrore di nemici ignoti e senza volto, mai visti eppure temuti.
C’è chi ritiene La morte e la primavera un’allegoria del franchismo, oppure un romanzo di iniziazione che illustra tenebrosi riti di passaggio, o, ancora, una riflessione sulla fine della giovinezza, sul male e sulla morte, o una distopia che ritrae una società totalitaria che ha soppresso ogni forma di pensiero critico, o, infine, una messa in scena dei demoni personali della Rodoreda, la cui vita ha attraversato due guerre, misurandosi con un esilio durissimo e soprattutto con una lunga solitudine. Interpretazioni che appaiono riduttive se prese singolarmente, ma che tutte insieme concorrono a sottolineare la complessità del romanzo, le sue infinite possibilità di lettura, e soprattutto la sua sorprendente, innegabile modernità.

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Notizie biografiche

Mercè Rodoreda i Gurgui nacque a Barcellona nel 1908, in una famiglia della piccola borghesia dominata da un nonno eccentrico, appassionato di piante e giardini e cultore della lingua catalana. Spinta dalla famiglia, a vent’anni sposò il fratello maggiore di sua madre, un uomo maturo che l’aveva chiesta in moglie quando lei era appena tredicenne, e da lui ebbe un figlio: una maternità non desiderata e un matrimonio infelicissimo, al quale riuscì a sottrarsi scrivendo (oltre ai racconti pubblicati su riviste dell’epoca, tre romanzi che poi disconobbe e uno, Aloma, che le fruttò un premio importante), frequentando gruppi di giovani e brillanti intellettuali e lavorando, negli anni della guerra civile, per il Commissariat de Propaganda Antifeixista. Ormai divorziata, nel 1939 lasciò il figlio alle cure della nonna e con altri intellettuali catalani riparò in Francia, dove si innamorò di Armand Obiols, critico acuto e scrittore mancato: un legame complesso e non del tutto felice, che tuttavia durò sino alla morte di lui. La loro vita in comune cominciò con una fuga a piedi sotto i bombardamenti, nella Francia occupata dai tedeschi, e proseguì in estrema povertà e tra le mille difficoltà dell’esilio, finché negli anni ’50 la coppia riuscì a trovare un lavoro dignitoso a Ginevra. Per molti anni Rodoreda non poté scrivere, impegnata com’era a sopravvivere e bloccata da una paralisi psicosomatica al braccio che le impediva di impugnare la penna; nel 1958, tuttavia, pubblicò una splendida raccolta di racconti e, rimasta in Svizzera dopo il trasferimento di Obiols a Vienna, dagli anni ’60 lavorò in assoluta solitudine alla maggior parte delle sue opere (racconti, romanzi, poesia e teatro), continuando a confrontarsi da lontano con il compagno, suo primo lettore e critico. Il grande successo di La piazza del diamante, pubblicato nel 1962 e tradotto in tutto il mondo, segnò l’inizio di una ininterrotta fortuna letteraria. Nel 1971, morto Obiols, Rodoreda tornò definitivamente in Catalogna, dove condusse una vita estremamente appartata, senza riallacciare i legami familiari spezzati all’epoca della fuga, ma contando su pochi e fidati amici. Morì nel 1983 a Romanyà de la Selva, dove si era fatta costruire un casa circondata da un grande e magnifico giardino.
  
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel giugno del 2020 

lunedì 1 giugno 2020

Da leggere: Martín Gaite



Martín Gaite


Ragazze alla finestra

“Esaltazione nazionalista, glorificazione dello spirito e delle virtù militari, fervente cattolicesimo, ispanità, preferenza per forme e stili classici e tradizionali furono i principi che in una primo momento definirono la cultura franchista”: cosi Francisco Calvo Serraller e Juan Pablo Fusi, nel loro saggio El espejo del Tiempo, annunciano l’avvio del rigido controllo e dell’onnidivorante propaganda che negli anni del dopoguerra sembrò travolgere la letteratura e le arti spagnole. Sotto la funerea superficie della cultura ufficiale, alla quale molti si erano sottratti con l’esilio, scorreva però l’energia non del tutto clandestina della cosiddetta Generación del Medio Siglo, ovvero degli scrittori che cominciarono a farsi avanti negli anni cinquanta e diedero vita a pubblicazioni effimere ma fondamentali, per esempio la «Revista Española» fondata nel 1953 da Rafael Sánchez Ferlosio, Alfonso Sastre e Ignacio Aldecoa: sei numeri soltanto, ma capaci di influenzare la letteratura dell’epoca con una proposta che attingeva al neorealismo italiano, al nouveau roman e alla convinzione che nella Spagna franchista il senso della scrittura coincidesse con una cruda testimonianza della realtà nazionale, criticata in profondità e narrata con un linguaggio oggettivo e disadorno.

Nelle foto che ritraggono i membri del gruppo, straordinariamente giovani e con una vaga aria di sfida, a colpire è la mancanza di volti femminili, come se la politica del regime, indirizzata a fare delle cultura una “faccenda maschile”, avesse pienamente raggiunto il suo scopo. Alla rivista non mancavano però le collaboratrici, alcune delle quali avrebbero dato un contributo di enorme importanza alla letteratura spagnola del novecento: fra queste Ana Maria Matute e, soprattutto, Carmen Martín Gaite – nata a Salamanca nel 1925 –, che nell’arco di cinquant’anni avrebbe disegnato un personalissimo itinerario di narratrice, saggista, traduttrice, commediografa e poeta.

Tradotta da noi tardivamente e solo in parte, quando era ormai celebre e la sua traiettoria letteraria era da tempo oggetto di un ampio approfondimento critico sia in Europa che negli Stati Uniti, da quasi un decennio l’opera di Martín Gaite è assente dalle nostre librerie, dov’era approdata tramite La Tartaruga e la collana Astrea della Giunti, e soltanto oggi ci viene offerta, nell’ottima traduzione di Elisabetta Sarmati, la versione italiana di Entre visillos, Attraverso le tendine (Voland, pp. 270, e. 17), il suo primo romanzo, datato 1958. Nel collocarlo in un preciso contesto, quello dei fermenti letterari del dopoguerra, Sarmati ci ricorda come Martín Gaite abbia imparato, in seno al gruppo della «Revista Española», “a coltivare una scrittura di taglio oggettivista”, “a osservare con attenzione la realtà̀ e ad ascoltarla”, anche se, dichiarò la stessa scrittrice, Attraverso le tendine  rimase il suo unico, vero contributo al realismo sociale, della cui presenza troviamo scarsa traccia nei testi precedenti e che nei successivi si affievolirà sino a scomparire, lasciandole in eredità una grande precisione di linguaggio, arricchita da intense suggestioni poetiche.

Romanzo corale, Attraverso le tendine si apre con l’arrivo del giovane professore Pablo Klein e si chiude con la sua partenza, ritraendo, nell’arco quattro mesi, la vita quotidiana di un gruppo di ragazze degli anni Cinquanta che, in una città imprecisata nella quale è facile riconoscere Salamanca, sembrano incarnare i valori imposti dal regime attraverso Chiesa, famiglia, scuola, l’onnipresente Sección Femenina governata da Pilar Primo de Rivera e l’insistente propaganda veicolata anche dalla stampa popolare e da una diffusissima letteratura rosa. Private del diritto di proprietà, espulse dal mondo del lavoro, soggette all’assoluta autorità maschile, scoraggiate dall’avventurarsi troppo nel periglioso territorio della cultura e dell’istruzione, condannate al ruolo unico di moglie e madre, le giovani donne che popolano il romanzo attendono impazienti l’arrivo di un buon partito e, nel frattempo, imparano le arti domestiche e chiacchierano con le amiche, in un ambiente provinciale che lo sguardo “straniero” di Pablo ci svela come paralizzante e oppressivo.

Chiuse in una “prigione di tendine” (Cárcel de visillos era il titolo di una prima versione breve, poi scartata), le ragazze osservano il mondo esterno dalla finestra – insieme allo specchio, immagine e simbolo tra i più presenti nell’opera di Martín Gaite – soglia che le separa dal mondo e che però simboleggia anche una via di fuga e la possibilità di sognare un futuro diverso, come accade a Natalia, adolescente che trova in Pablo un interlocutore e progetta per sé un’altra vita. È lei, tra tutte, l’unica pronta a portare fino in fondo una ribellione sommessa ma decisa (studiare, andarsene, scegliere), libera dalla rassegnazione inconsapevole che induce le altre a obbedire; ed è sua la voce che, attraverso pagine di diario, si alterna a quelle di Pablo e di un narratore ignoto e onnisciente.

È subito chiara, in questa opera giovanile eppure singolarmente compiuta, la presenza di un sottile discostamento dai canoni del realismo sociale, a segnalare come l’autrice stesse mettendo le basi di una complessa poetica che si sarebbe dispiegata per intero solo nelle opere successive, raggiungendo il culmine vent’anni dopo, con il magnifico e inclassificabile El cuarto de atrás (La stanza dei giochi, La Tartaruga 1993), “non-romanzo” in cui vengono liberamente utilizzati generi diversi e che apparve, non a caso, mentre la Spagna usciva finalmente dalla lunga notte franchista. Sono già percettibili, infatti, le caratteristiche future di un’opera vasta, appassionante e singolare: la minuziosa analisi psicologica, l’attenzione costante e indagatrice per la condizione femminile, la costruzione dell’io attraverso la memoria, la presenza del “doppio”, la ricerca assidua di un interlocutore ideale, l’accenno a una corposa intertestualità. Manca soltanto quell’innesto del fantastico nel reale che in seguito diventerà un elemento chiave e che possiamo rintracciare in El libro de la fiebre, elaborato nel 1949 ma di pubblicazione postuma, che l’autrice accantonò anche, ma non solo, per il parere negativo di Sánchez Ferlosio, con il quale si sarebbe sposata nel 1953.

Non solo: a chi conosca l’opera di Martín Gaite appare evidente che, sin dagli inizi, l’autrice abbia teso fra le proprie opere fili sottilissimi, a partire dalle autocitazioni e dalle memorie personali fino alla presenza di luoghi e oggetti-simbolo, abilmente tessuti nelle trame fino a comporre una sorta di sottotesto, così che opere diverse sembrano completarsi a vicenda. Come non vedere, per esempio, il legame di Attraverso le tendine con Usos amorosos de la posguerra, saggio avvincente sull’educazione sentimentale nella Nueva España di Franco, o la riproposizione in La stanza dei giochi di ambienti, atmosfere e ricordi salmantini riletti alla luce della maturità, o ancora l’approfondirsi, in Nuvolosità variabile, di un tema quale l’amicizia femminile, obliquamente insinuato nel romanzo del ’58? E non si intitola forse Desde la ventana il volume in cui Martín Gaite raccolse nel 1987 i suoi saggi sulle scrittrici spagnole, definite innanzitutto come donne ventaneras? Trame e motivi che si giustappongono o si intrecciano come in un perfetto lavoro di cucito, non a caso un altro dei simboli fondanti di una scrittura dall’alta densità metaforica.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2020

 


Da leggere: Edurne Portela



Edurne Portela


Un nemico in casa

Pubblicato da Galaxia Gutenberg nel 2016 e mai tradotto in italiano, El eco de los disparos: cultura y memoria de la violencia è un saggio esemplare in cui Edurne Portela, nata nel 1974 in un’Euskadi annichilita dal terrorismo, analizza la convivenza quotidiana con la violenza e l’immagine che ne hanno dato letteratura e cinema: un testo che fonde rigore accademico e intenzione narrativa, e che sembra comporre un dittico con il suo Meglio l’assenza (Lindau, 2019), romanzo di formazione dalle tinte autobiografiche dedicato all’infanzia e all’adolescenza di una protagonista cresciuta nel clima avvelenato di una società attraversata a ogni livello da un conflitto insanabile.

Come altre scrittrici basche della sua generazione o di poco più giovani, Portela ha conquistato la forza e il distacco necessari a elaborare il punto di vista di bambine, ragazze, donne che hanno dovuto misurarsi con la paura e il silenzio provocati da una violenza profondamente interiorizzata e ormai vissuta come “normale”. Non c’è da stupirsi, quindi, se la presenza dell’ETA riaffiora anche in Forme di lontananza (pagg. 276, e. 19,50), secondo romanzo dell’autrice appena pubblicato da Lindau nella bella traduzione di Thais Siciliano: pur diluita dal tempo e dalla distanza, “l’eco degli spari” fa ancora parte di Alicia, la protagonista, che per allontanarsene una volta per tutte ha scelto di proseguire gli studi negli Stati Uniti.

Nell’economia della vicenda che la vede inserirsi nel “sogno americano” (il matrimonio, un lavoro all’università, una bella casa), quel passato doloroso appare marginale, ma rappresenta in un certo senso il preludio a una violenza nuova, annunciata nel prologo in cui scopriamo Alicia barricata in una casa gelida e deserta, mentre teme di sentire i passi e il respiro di Matty, il marito dal quale sta divorziando: un nemico che lei ha rifiutato a lungo di riconoscere come tale, giustificandone le pretese, le sfuriate, gli insulti, il disprezzo, i divieti, i continui tentativi di costringerla nella rete di un possesso totale. E subito dopo è la voce di Matty, silenziosamente appostato vicino all’edificio, a fare da tormentato controcanto alla desolazione di lei, negando perfino a sé stesso ogni somiglianza con un padre razzista e brutale (in fondo, si ripete, non ha mai picchiato Alicia, anche se “avrebbe avuto tutte le ragioni” per farlo) e lamentando furiosamente che la moglie gli sia sfuggita tramite il lavoro, i libri, gli amici e soprattutto i pensieri, sempre inaccessibili.

A partire da qui la storia si dipana con frequenti salti temporali, cambiamenti del punto di vista e passaggi dalla prima alla terza persona, con raffiche di brevi capitoli che ricostruiscono la storia di un matrimonio in cui l’abuso, proprio come il terrorismo dell’ETA, acquista un terribile carattere di normalità. Se Alicia ha accettato tutto questo e per troppo tempo se ne è assunta la colpa, è forse per la sua antica consuetudine con la violenza, ma soprattutto per l’ingenua adesione all’ideale – definito da Portela “pericoloso e perverso” – dell’amore romantico, che esige dalle donne sottomissione, sacrificio di sé, adeguamento alle aspettative.

Il romanzo ruota dunque attorno a una violenza psicologica logorante e feroce, svolge il filo di un rapporto malato che vede Alicia arretrare di continuo eppure mantenersi ferma su quanto è per lei irrinunciabile (l’insegnamento, lo studio, il rifiuto della maternità), e allo stesso tempo mette in evidenza l’insicurezza e le ferite di Matty, pronto a spacciare il proprio bisogno di controllo per ansia di proteggere la donna amata. Il libro, però, ci offre ben più delle inquietanti “scene da un matrimonio” viste da un’autrice che non giudica né giustifica, ma si limita a raccontare, quasi sostenesse uno specchio rivelatore davanti agli occhi dei suoi personaggi. Portela, che come Alicia ha studiato e insegnato per quasi vent’anni in alcune piccole università degli Stati Uniti, disegna infatti un crudo ritratto dell’America profonda, fatta di cittadine diffidenti e chiuse in sé stesse che contraddicono il mito dell’accoglienza e del melting pot e dove tutto, perfino la neve, sembra destinato a stabilire una qualche “forma di lontananza”, proprio come nella coppia formata da Alicia e Matty. Nella storia si inserisce così una folla di personaggi secondari: immigrati latinoamericani ai quali la protagonista scopre di venire assimilata, subendo spesso lo stesso trattamento vessatorio riservato agli “ispanici”, e poi gli antiabortisti che assediano le cliniche, o i professori e gli allievi dell’università che, pur sembrando ligi al più stretto politically correct, si muovono in un ambiente di violenza silenziosa, dove si tende a sorvolare sugli abusi sessuali commessi dalle confraternite e sul razzismo sempre negato ma onnipresente.

Se lo stile e il linguaggio sono semplici e spogli, quasi cronachistici, l’architettura del romanzo è quella ambiziosa e complessa di un affresco realistico e con evidenti coloriture politiche, e se nel suo allineare situazioni fin troppo emblematiche la narrazione rischia a volte di apparire didascalica, Portela riesce sempre ad andare oltre la superficie e a porre al lettore infinite domande, utilizzando mezzi toni, escludendo il bianco e nero a favore di una scala di grigi che mette in evidenza le contraddizioni, e dandoci infine la sensazione che tutto quanto ci racconta acquisti un carattere di inquietante familiarità.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2020