mercoledì 22 luglio 2020

Anniversari e Addii: Juan Marsé



Juan Marsé


Un narratore senza eguali

“Mi dichiaro anticlericale militante, come lo era mio padre; a questo paese la Chiesa ha fatto tanto danno, e continua a farlo… Perché devo pagare di tasca mia questa banda di spudorati, di imbroglioni, i vescovi della Chiesa?”. Da una simile invettiva, che prima o poi tornava ad affiorare nelle rare interviste concesse da Juan Marsé - scomparso a ottantasette anni nella notte di sabato e ultimo narratore della generazione del ‘50, nonché uno dei più grandi del ventesimo secolo - è facile immaginare che ai suoi laicissimi funerali, questo martedì, non ci saranno simboli religiosi. E, probabilmente, neppure bandiere catalane o spagnole, perché Marsé non esitava, specie negli ultimi anni, a dichiarare: “Non sono nazionalista né indipendentista, e di un’identità nazionale sballottata da una parte all’altra non me ne importa un fico secco. Per me fa lo stesso sentirmi spagnolo o catalano, nessuna delle due cose mi riempie di entusiasmo e tanto meno di fervore patriottico”. Una presa di posizione netta (e non diversa da quella di Vázquez Montalbán rispetto al pujolismo), lontana sia dalle esasperazioni identitarie sia dal nazionalismo españolista, ma che nel 2017 gli fruttò l’epiteto di botifler, ossia traditore, da parte di fanatici che mutilarono i suoi libri nelle biblioteche pubbliche. Libri in spagnolo, perché, nonostante il catalano fosse la sua lingua madre, Marsé scriveva in quella che aveva formato il suo immaginario, tra fumetti, cinema e libri: un affronto che i catalanisti non gli hanno mai perdonato.

Mangiapreti e antinazionalista irriducibile, dunque, nonché antifranchista di ferro (ricordava ancora le lacrime sue e del padre Pep, mentre assistevano all’entrata delle truppe “nere” a Barcellona), Marsé non era solo un grande scrittore, ma un uomo di immacolata coerenza, alieno dai compromessi e capace tanto di sottrarsi agli entusiasmi di un “realismo sociale” che un tempo avrebbe potuto trasformarlo nel proprio elefante bianco (un autentico proletario diventato scrittore!), quanto di evitare il circo mediatico nella cui pista si esibisce oggi la letteratura.

Sarebbe inutile, tuttavia, cercare di inchiodarlo allo stereotipo dell’uomo tutto d’un pezzo, pugnace e di sinistra (per cinque anni fu iscritto al partito comunista, che lasciò, dicono, per l’ostracismo decretato nei confronti del suo amico Gil De Biedma, poeta sublime col “difetto” dell’omosessualità), o dell’orgoglioso autodidatta pronto a rifiutare omaggi ufficiali e un seggio all’Accademia di Spagna. Marsé era molto più complicato e sfuggente di quanto le apparenze lasciassero supporre, e la sua intuizione che la realtà esiste solo se la sogniamo o la raccontiamo sembra nascere insieme a lui, con una sorta di fiaba raccontata dalla madre adottiva Alberta Marsé per rendergli meno amaro l’abbandono del padre, scapestrato chauffeur che, morta la moglie, l’aveva dato via appena nato (Juan conosceva benissimo la vera storia della sua adozione, però preferiva l’altra, diceva, perché sembrava una pagina di Dickens).

Si può avere un’infanzia felice in una città “spaventata, schiacciata e grigia”, dove la propria lingua non viene insegnata a scuola ma è relegata alla strada e all’ambito domestico, e la povertà è tale che a tredici anni bisogna lavorare come operaio? Felice, Juanito Marsé lo era; gran lettore di fumetti, giocatore scatenato di pallone e appassionato spettatore di film americani che ritroveremo in quel “raccontare per immagini” che è una delle caratteristiche della sua prosa. Ma era anche attento a ciò che gli accadeva intorno, con quella straordinaria capacità di osservazione che secondo Enrique Vila-Matas è sempre stata una delle sue qualità più evidenti, e disegnava mentalmente una Barcellona fatta dei “suoi” quartieri (Gracia, Horta-Guinardó, Carmel), segnata dal freddo, dalla fame e dalla sconfitta, eppure fonte di storie che sarebbero diventate romanzi irrinunciabili.

Fu la letteratura a strapparlo a una vita che appariva già modellata su quella dei suoi genitori e dei tanti che vivevano nei quartieri operai e nelle baracche affollate di charnegos (cioè di non catalani) arrivati negli anni ‘60 per costruire le fortune industriali della regione, in una Spagna ormai meta di investimenti stranieri e di un turismo playa y sol sempre più intrusivo. E fu l’incoraggiamento di nuovi amici (Paulina Crusat, Carlos Barral, Gil de Biedma) che, nel 1960, lo spinse ad andare a Parigi, lasciando lo stanzone dove lavorava con altri trenta operai, e la casa materna dove la notte scriveva i suoi primi racconti e poi un romanzo, Encerrados con un solo juguete, dallo sguardo più “interno”, più oggettivo e freddo di quello del realismo sociale propugnato dai chicos bien, scrittori e intellettuali che, tornato in Spagna, Marsé aveva ripreso a frequentare.

Di alcuni era amico, di altri un po’ meno, ma sapeva di non appartenere alla loro cerchia e di non volerne essere fagocitato: molti li ritrasse con ironia spietata e un umorismo incapace di sconti già nella sua terza opera, Ultime sere con Teresa (1966). Dopo quel romanzo, oggi un classico, Marsé ne scrisse altri dodici, alcuni dei quali sono indiscutibili capolavori, come Si te dicen que caí (1973), Il mistero di Shangai, 1993), Coda di lucertola, Ronda del Guinardò (1984), e molti mirabili racconti, raccolti dal 2002 in Cuentos completos (benché i suoi libri migliori siano stati tradotti in italiano, molti mancano ancora all’appello, e uno dei suoi testi chiave – per l’appunto Ultime sere con Teresa – è apparso per la prima volta presso Bompiani solo due anni fa).

Fondato su un linguaggio ricco e prezioso, pieno di minuzie, corretto e rivisto all’infinito, e intriso, oltre che di una  disillusione costante, di un’ironia e di un senso dell’umorismo assai rari nel panorama letterario spagnolo, il realismo di Marsé si rivela mutevole e pieno di sorprese, teso com’è verso la continua ansia di rinnovarsi, di tentare nuove strade, di azzardare nuove tecniche, pronte a sostenerlo nel suo compito di fabulatore d’eccezione che non ha mai voluto rinnegare il lato “artigianale” del mestiere (“il miglior narratore che la letteratura spagnola ci abbia dato in parecchi decenni”, dice il critico Ignacio Echevarría), cesellatore di trame complesse e creatore di personaggi che hanno segnato un’epoca, quali il Pijoaparte, protagonista di Ultime sere con Teresa, o Kim, l’eroe imprendibile e sconfitto di Il Mistero di Shangai, romanzo pieno di suggestioni hollywoodiane e di personaggi esilaranti che si sovrappongono alla tragedia.

Marsé ha finito per costruire un universo letterario circoscritto – come lo era quello di Onetti, l’autore che più ha influito su di lui – a un territorio ben preciso, una Barcellona quasi scomparsa, quella della guerra civile, della posguerra, del franchismo e del suo sordido grigiore, del miracolo economico, del destape, ma della quale non ha mai smesso di seguire e individuare i mutamenti sociali, la violenza, l’ipocrisia (nessuno come lui ha saputo “denudare” la borghesia catalana), le tracce della memoria, rivissuta alla luce dell’immaginazione. Una città segreta che ancora oggi continua a vivere sotto la patina irreale di un marchio di successo, invisibile perché nessuno vuole vederla, e che solo scrittori come Marsé e quelli che, come lui, hanno scritto e continuano a scrivere il Grande Romanzo di Barcellona (Vázquez Montalbán, Mendoza, Casavella e altri ancora) possono portare alla luce.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2020


lunedì 20 luglio 2020

Da leggere: Giovanna Rivero



Giovanna Rivero


Scoprire la bellezza in ciò che è sinistro

Una prosa densa, a volte lirica e a volte brutale, di certo temeraria e costruita tenendo conto di un’oralità elaborata e musicale (una musica variabile, seduttiva anche nelle frequenti asprezze, segnata da localismi, altre lingue, vocaboli aymara, gergo urbano, luoghi comuni spietatamente sminuzzati), che usa e decostruisce generi diversi, dal gotico alla fantascienza, dal realismo alla fiaba classica sino ai miti precolombiani, innestati sulle pieghe delle quotidianità, o su scenari apertamente distopici. Di questo sono fatti i quindici racconti della boliviana Giovanna Rivero, scelti da Matteo Lefevre – coordinatore del laboratorio di traduzione impegnato nella non facile impresa di restituire i testi nella nostra lingua – per l’antologia Ricomporre amorevoli scheletri (gran vía, pp. 283, e. 16), che rappresenta il debutto italiano di un’autrice la cui indiscussa originalità si nutre anche di rimandi ad altre scritture: per esempio a quella di Maria Virginia Estenssoro, che a metà degli anni trenta scandalizzò la società letteraria di La Paz con un romanzo avanguardista dai contenuti “indicibili”, oppure di Amparo Davila, maestra messicana del racconto di recente scomparsa, che ha racchiuso incubi inesplicabili in ambienti fin troppo domestici.

Le più riconoscibili e presenti fra le compagne di strade di Giovanna Rivero (nata nel 1972 vicino a Santa Cruz de la Sierra, nella parte orientale e sontuosamente tropicale della Bolivia, ha scritto quattro romanzi e vari volumi di racconti) sono tuttavia le molte scrittrici latinoamericane che oggi stanno dando vita a una letteratura squisitamente insolita nei contenuti e negli esiti formali, che va da un minimalismo lavoratissimo a un tumulto quasi esplosivo, passando per la satira, la parodia, l’esercizio della crudeltà e uno sguardo attento sulla vita, i pensieri, la voce delle donne.

Pur segnalando le molte differenze di stile e di approccio a temi spesso simili, vanno almeno sottolineate certe affinità con Liliana Colanzi (anche lei santacruzana) che come Rivero si è avventurata nel territorio di una fantascienza sui generis, e, soprattutto, con l’argentina Mariana Enríquez, la cui obra maestra, l’imponente Nuestra parte de noche (ora in traduzione presso Marsilio), sancisce l’esistenza di un gotico latinoamericano e contemporaneo di rara potenza. Anche quelle di Rivero, perfino quando si nascondono sotto il realismo e la memoria, sono fiabe nere in cui bisogna “scoprire la bellezza in ciò che è sinistro, il destino nella tragedia” – come dice la protagonista di L’Uomo della Gamba, racconto che apre l’antologia – e si legano alle contraddizioni del presente, alla devastazioni compiute dal neoliberismo, ai traumi dell’emigrazione (residente da anni negli Stati Uniti, dove insegna all’università, l’autrice li ha vissuti in prima persona), alla costante presenza dell’infanzia, della famiglia e della maternità come fulcro fatale e ferale, alla follia, ai rifiuti e alle rovine di un mondo fluido e permeabile, trascinato da correnti instabili.

Ambientati in un continente americano concepito, da sud a nord, come un colossale corpo malato che divora gli altri e sé stesso, “un intestino infinito e vorace”, i racconti espongono una collezione di pezzi anatomici repulsiva e insieme stranamente sensuale, dalla quale è impossibile distogliere lo sguardo: i seni di una vecchia gonfiati dalla disperazione, in Margarita, dove un interno spocchiosamente borghese conserva la memoria dello stupro e dell’incesto; gli occhi impazziti di un giovane recluso in manicomio, in I due nomi di Saulo; il canino luminoso e affilato di una bambina in Yucu (splendida storia tropicale di vampiri); la gamba putrefatta di un fiero mendicante e un ventre di donna torturato dalle iniezioni di ormoni della fecondità, in L’Uomo della Gamba; le unghie strappate dai soldatini torturatori durante la dittatura di Banzer, in Yerka. E le ossa, naturalmente: ossa nascoste nei corpi vivi di cui sono il sostegno o nella terra che le ha accolte.

Accanto alla qualità ammaliatrice e ipnotica della scrittura e alla considerevole abilità con cui l’autrice ha ricomposto gli “amorevoli scheletri” delle strutture narrative, i racconti svelano, uno dopo l’altro, la capacità di maneggiare con estrema precisione metafore e allegorie, evocando trame volutamente piene di allusioni, di lacune che dovranno essere colmate dall’altrui immaginazione, di finali aperti a letture diverse, strati sottili da sfogliare con delicatezza, in cerca di continue sorprese. Al di là della ricchezza interpretativa favorita dall’uso calcolato e inquietante dell’omissione, il frequente ricorso al gotico, al fantastico, al soprannaturale o semplicemente al “perturbante” è, per Rivero, quasi un pretesto, un modo per collegare impercettibilmente la fabula a concrete realtà individuali e collettive, mescolando con naturalezza le tracce di un passato ancora vivo a un presente scosso da implosioni continue, per poi lanciarsi nella rappresentazione del futuro in due racconti collegati, Passò come uno spirito e Ritorno, che ipotizzano l’esistenza di un impero andino alla conquista dello spazio e di un Evo dal corpo putrescente ma immortale, i cui seguaci vogliono colonizzare Marte.

Un’allegoria politica, certo, ma anche un esperimento che rimanda ad alcuni racconti di Colanzi, al fantasmagorico romanzo De cuando en cuando Saturnina di Alison Spedding, che narra le avventure nella galassia di un’india aymara, o all’antologia fantascientifica messicana Una realidad más amplia, compilata da Libia Brenda, e soprattutto all’afrofuturismo e alla “decolonizzazione” della fantascienza statunitense effettuata da Octavia Butler e Samuel R. Delany, ripresa da Rivero in chiave spiccatamente andina.

Proprio la presenza, nei racconti di Ricomporre amorevoli scheletri, di riferimenti alle culture dei popoli originari, alle loro mitologie, alla labilità del confine che in esse separa la vita dalla morte, ci ricorda che la più recente letteratura latinoamericana (e in particolare quella scritta da donne) si va allontanando dal rifiuto di tutto quanto veniva inteso come locale, folklorico, indigenista, e che poteva apparire "esotico" agli occhi del lettore di altri paesi; un rifiuto espresso già negli anni ‘90 da una corrente effimera come McOndo e motivato dalla massiccia dose di realismo magico richiesta dall’editoria internazionale. Senza cedere di un millimetro all’esotismo o al costumbrismo più convenzionale, scrittrici come Rivero hanno imboccato una strada nuova e vanno effettuando un recupero anche linguistico di un’identità antica e tenace, ma contaminata in profondità da tutti gli aspetti della globalizzazione, dalla tecnologia, dai media, da un immaginario definitivamente meticcio: un’ibridazione inevitabile, forse conflittuale ma fecondissima, espressione ultima dell’impossibilità di mettere a tacere tutto ciò che di “altro” c’è in noi e intorno a noi, e che vuole essere riconosciuto.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2020.