martedì 27 marzo 2018

Da leggere: Haroldo Conti


Haroldo Conti


Un uomo senza barca non è completo

Il 19 maggio 1976, a meno di due mesi dal colpo di Stato che aveva dato  inizio alla più sanguinosa dittatura della storia argentina, il generale Videla pranzò alla Casa Rosada con quattro ospiti alquanto insoliti: due celebrità letterarie quali Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges, un autore modesto come Horacio Esteban Ratti, presidente della Società Argentina degli Scrittori, e un anziano gesuita, Leonardo Castellani, considerato vicino alla destra nazionalista e sospeso a divinis per l’eterodossa attività politica.

Citato, narrato e commentato infinite volte (nel 2015 il regista Javier Torre gli dedicò addirittura un film, El almuerzo), l’incontro fu denso di effetti per alcuni - a Borges, per esempio, costò l’assegnazione del premio Nobel - o singolarmente povero di conseguenze per altri, come nel caso di Sabato, che si mostrò molto ossequioso con il generale, eppure ricevette anni dopo l’incarico di presiedere la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas e di redigere il rapporto Nunca más, in cui espose l’ambigua teoria dei Dos Demonios.

Sul tono e i temi della conversazione circolarono da subito molte versioni, e quando la rivista Crisis, diretta da Eduardo Galeano e chiusa di lì a poco, volle intervistare i partecipanti, trovò un’unica persona disposta a parlare: il cura Castellani, che, come gli altri invitati, prima del pranzo aveva ricevuto svariate sollecitazioni a interrogare Videla sulla sorte di Haroldo Conti, scrittore sequestrato due settimane prima e incontrato un paio di volte dal vecchio prete nel seminario di Villa Devoto, prima che la mancanza di autentica vocazione inducesse Conti ad abbandonarlo. Il gesuita, l’unico a interpellare Videla in proposito, raccontò che per lui il pranzo non significava nulla, a meno che ne derivassero fatti concreti, come la riapparizione di Conti.

In seguito si disse che Castellani era riuscito a vedere lo scrittore imprigionato e torturato e a dargli l’estrema unzione: una voce mai confermata, ma entrata stabilmente a far parte del bozzolo di storie che avvolge Haroldo Conti e che ancora oggi si sovrappone alla sua opera, nascondendola dietro l’assenza fin troppo “presente”  di un corpo mai ritrovato. Che Conti sia ormai una leggenda argentina, non c’è dubbio alcuno: il Centro Culturale della Memoria nella ex caserma Esma porta oggi il suo nome, la sua casa sul fiume è diventata un museo, il cinque maggio di ogni anno si celebra in suo onore il Giorno dello Scrittore Bonaerense. E a ricordarlo ci sono documentari come Homo viator di Miguel Mato, o El retrato postergado, di Andrés Cuervo, e poi saggi, libri di memorie, mostre, omaggi che neppure lo strisciante negazionismo del governo Macri oserebbe cancellare.

A restare a lungo nell’ombra, però, è stata la sua opera, finché l’editore Emecé non ha riproposto in anni recenti una Biblioteca Haroldo Conti e l’editore spagnolo Bartleby non ha in parte riscoperto i suoi libri, che rimangono quasi sconosciuti in Italia, dove quella di Mascarò, il cacciatore solitario (l’ultimo suo romanzo, uscito nel 1975 in Argentina e proposto da Bompiani nel 1983, in un’edizione ormai introvabile prefata da García Márquez) è stata fino a oggi l’unica traduzione disponibile. Da pochi giorni, però, il primo e il più noto dei romanzi di Conti, Sudeste, uscito in lingua originale nel 1962, è in libreria nella bella traduzione di Marino Magliani (Exorma, pag. 217, e. 14,29) e permette finalmente di avvicinarsi a un autore che, in seno a un canone contemporaneo in cui appaiono nomi come quelli di Saer, Puig o Piglia, va forse considerato uno dei grandi, gloriosi “minori” ai quali Tomasi di Lampedusa assegnava il compito di rendere “abitabile” la letteratura, di formarne l’ossatura e di esprimere lo spirito del proprio tempo.  

Tra i quattro romanzi e i due libri di racconti lasciati da Conti – tutti   notevoli e tutti meritevoli di traduzione e di appassionata lettura – Sudeste è forse il più suggestivo. La vicenda di Boga, il ragazzo che ha il nome di un pesce e che vive sul fiume e del fiume, nasce dalla comune passione dello scrittore e del suo personaggio per la distesa piatta e brillante dell’immenso e ramificato Delta del Paranà, ingannevolmente immutabile, tra isole, distese di giunchi, barche che scivolano in silenzio, presenze animali e vegetali che sfidano le percezioni umane con apparizioni improvvise e suoni che scandiscono il tempo e definiscono lo spazio.

Conti, che era nato a Chacabuco, un paesetto a duecento chilometri da Buenos Aires, aveva trovato nel Delta il suo luogo dell’anima, dove le storie (come quelle che gli narrava il padre, venditore ambulante e grande affabulatore) nascono quasi da sole, in un vagabondaggio ozioso e continuo che permette di volgere le spalle alla città, abbastanza vicina da poterne intravedere la sagoma e respingerne senza rimpianti le convenzioni, le stesse che lo scrittore descriverà nel suo En vida, romanzo con cui nel 1972 vinse in Spagna il premio Barral. Conti aveva scritto Sudeste mentre costruiva con le proprie mani un piccolo veliero (“un uomo senza barca non è completo”) con il quale avrebbe percorso il Delta dopo averlo conosciuto dall’alto, quando, anni prima, aveva preso il brevetto di pilota. Dopo essere stato seminarista, maestro rurale, camionista, cassiere di banca, professore di latino, critico cinematografico, aiuto regista e sceneggiatore, marinaio (e poi naufrago) su uno yacht, nel fiume e sul fiume si era riconosciuto, inserendosi allo stesso tempo in una tradizione letteraria che comprende le aguafuertes fluviales di Arlt, certe cronicas di Rodolfo Walsh (amico e sodale di Conti e come lui desaparecido), i poemi di Juan L. Ortiz, alcuni romanzi di Saer e innumerevoli altri scritti di autori più o meno noti, risalendo fino a El Carapachay dell’imprescindibile Sarmiento.

Territorio letterario, il Delta, per il quale tutti sono passati, ma che forse solo Conti ha saputo restituire per intero, con un testo dove già si riconoscono le costanti delle sue opere future: situazioni e luoghi periferici, ignorati a favore della "centralità" cittadina; personaggi altrettanto marginali, condannati o respinti da una società che ne ha modellato la sorte; lo spezzarsi della relazione tra puer e senex che per breve tempo garantisce qualche stabilità, come accade a Boga e al “vecchio” in Sudeste, e a Milo e Silvestre nel bellissimo Alrededor de la Juala, del 1966; la ricerca della solitudine e del silenzio come forma di libertà; un mondo in cui la natura, gli animali, gli oggetti acquistano connotati quasi umani; lo scivolare verso una sconfitta che non è mai veramente tale, come accade a Boga, contemplativo e fatalista, che si lascia vivere ed è risucchiato per forza d’inerzia, dopo la morte del suo vecchio mentore, da una banda di piccoli criminali, ma alla fine riesce a diventare tutt’uno con la sua barca decrepita, a farsi pesce, a consegnarsi completamente al fiume.

Accompagnato da un linguaggio che da lirico diventa popolare e popolano, con pochi dialoghi e molte descrizioni di un nitore visivo fuori del comune, Sudeste sembra costruito per sequenze che sfumano una nell’altra e rivela la profonda influenza esercitata dal cinema su Conti (la cui idea iniziale era, del resto, quella di scrivere un copione cinematografico), oltre a non nascondere la sua attenta lettura degli scrittori nordamericani contemporanei, da Faulkner a Hemingway, ma anche di Camus e degli esistenzialisti.

Sostenitore della rivoluzione cubana e del Frente Antiimperialista por el Socialismo (e coerente al punto da rifiutare una borsa di studio Guggenheim, “una delle forme più sottili di penetrazione culturale dell’imperialismo nordamericano in America latina”), Conti era tuttavia convinto che “l’arte è il regno della libertà pura, non può subire imposizioni estranee all’arte stessa (…). Essere rivoluzionario è un modo di vivere, non un modo di scrivere”. Eppure Sudeste, romanzo di iniziazione in cui non mancano metafore e allegorie, avventure e utopie, trasmette una precisa visione politica e sociale della realtà, e le storie che racconta ne sono intrise. Questa era la sua militanza, tanto è vero che sulla parete dietro la sua scrivania si poteva leggere la frase: “Ecco il mio posto di combattimento, e da qui non mi muoverò”. Era in latino, e i sequestratori di Conti, che non seppero decifrare la scritta, non si curarono di strapparla.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di marzo del 2018


Da leggere: César Aira



César Aira


Farsi mostro: l’artista e l’Altro 

“La brevità non è stata una scelta. È venuta da sé. C’è una certa densità in quello che cerco di fare: non si può prolungare per 200 pagine, non le reggerebbe”. Così César Aira ha risposto a una delle tre domande che sempre gli vengono poste: quella sulla brevità dei suoi libri, che – con rare eccezioni – vanno dalle trenta alle cento pagine, e che lui chiama novelitas o invenciones; quella sulla prolificità: quasi un centinaio di titoli in poco più di trent’anni, se alla narrativa si aggiungono una decina di saggi spesso notevoli, che includono un impressionante Diccionario de autores latinoamericanos, seicento pagine destinate a chi è “in cerca di tesori”; e la terza – il cui tono va dal perplesso all’estatico – sulla irriducibile bizzarria (o meglio, l’unicità) del suo progetto letterario.

Un progetto-puzzle – come ben sa chi conosce l’opera di questo autore nato nel 1949 a Coronel Pringles e da un cinquantennio residente a Buenos Aires, dove scrive ogni giorno seduto al tavolino dello stesso caffè –, che rimanda al surrealismo e all’avanguardia e non si affida alla solidità della trama o alla perfezione della prosa, ma al “procedimento”, alla fuga in avanti, all’uso sfrenato dell’assurdo, dell’ironia e dell’immaginazione. Aperte da incipit ingannatori, le storie mutano proditoriamente argomento e punto di vista, sembrano sbucare l’una dall’altra e sono abbandonate “quando smettono di cominciare”, ossia quando la novità e il divertimento di chi scrive vengono meno. Come certi testi di Copi, di Osvaldo Lamborghini o di Juan Emar, o le opere di certi pittori (primo fra tutti Duchamp, sul quale Aira ha scritto un saggio), sono esperimenti, giochi intellettuali, macchine per produrre stupore, paradossi calati in una scrittura trasparente e in forme sempre nuove: perché è l’azzardo della forma, oltre alle rutilanti invenzioni, a fare di Aira uno scrittore nuovo a ogni libro.

Nonostante sia oggi un autore di fama internazionale, cui la Penguin-Random House dedica un’apposita “Biblioteca” (contraddizione non da poco, diventare protagonista di un mercato editoriale al quale la sua scrittura ha sempre voltato le spalle), Aira è, tuttavia, poco tradotto in Italia: dopo Ema, la prigioniera, edito nel ’91 da Bollati Boringhieri, sono apparsi presso Feltrinelli e Sur solo sei titoli, avidamente accolti da un numero di lettori forse ristretto, ma entusiasta. Tanto più interessante risulta, allora, l’apparizione di Il pittore fulminato (Fazi, pp. 93, e. 16,00 nella traduzione davvero eccellente di Raul Schenardi), che possiede in sommo grado la densità proverbiale dell’autore: ricchissimo e complesso, suscettibile di infinite interpretazioni, il testo offre – nella sua apparente levità – immagini magnifiche, riflessioni sulla natura della rappresentazione e del procedimento artistico, o su questioni epistemologiche relative alla pittura e, per analogia, alla scrittura.

Per raccontare l’avventura argentina di Johann Moritz Rugendas, pittore tedesco vissuto nella prima metà del XIX secolo e influenzato dalle teorie di Von Humboldt sulla “fisiognomica della natura”, Aira sceglie un incipit in contrasto con la propria ripulsa per il romanzo storico, elargendoci un riassunto della storia familiare del protagonista, erede di una dinastia di artisti e “pittore viaggiante” che intende cogliere il carattere della natura di contrade remote (dopo quattro anni in Brasile e Messico, ne trascorse altri sedici in Cile e in altri paesi dell’America Latina). Il lettore viene così indotto ad aspettarsi uno dei tanti resoconti di viaggio ottocenteschi, dovuti ai tanti naturalisti ed esploratori europei che contribuirono a fondare nuove scienze, alimentarono il sogno coloniale e, per quanto riguarda l’Argentina, fornirono sostegno alla “Conquista del Deserto”, la colonizzazione interna che è tra i miti fondativi della nazione e della sua letteratura. Ma, di fatto, Aira usa il suo incipit “di genere” solo come provocazione, perché subito si dedica (come in Ema, la prigioniera e in La liebre, i suoi principali testi pampeani, cui vanno aggiunti El vestido rosa, Las Ovejas, Entre los indios e il recente Eterna Juventud) a demolire e parodiare il processo di costruzione dell’identità nazionale, insieme alla produzione culturale che lo accompagna.

Al pari degli altri suoi romanzi ambientati nella pampa (il “deserto” argentino che, oltre a fornire materiali inesauribili alla letteratura popolare quanto alla più sofisticata, compresi Borges e il sublime Juan José Saer di Le nuvole) o in Patagonia, anche questo sembra ribaltare e irridere le tesi espresse nel Facundo o civilización y barbarie di Domingo Faustino Sarmiento – del quale, tra l’altro Rugendas fu amico e corrispondente –, in cui la popolazione autoctona e meticcia viene descritta come barbara e oziosa, e le grandi pianure come un impedimento alla “civiltà” portata dagli europei. All’antinomia sarmentiana (che è anche quella tra la grande Buenos Aires e el interior, il vasto e solitario interno del paese), oppure alla trilogia di Estanislao Zeballos, che prelude alla conquista di un desierto popolato da primitivi quasi animaleschi, Aira sembra preferire, piuttosto, la curiosità impenitente e indagatoria dell’eccentrico Lucio V. Mansilla, contemporaneo di Sarmiento e autore di Una excursión a los indios ranqueles, nato da una concreta esperienza “sul campo”. E tuttavia, benché Il pittore fulminato si inquadri in un ambiente e in un’epoca ben precisi, rilegga personaggi realmente esistiti e rimandi a testi fondamentali della tradizione argentina, il romanzo rifiuta di organizzarsi in base a una logica storica di qualche tipo.

Se nella prima parte del viaggio che li porta oltre le Ande, nella pampa, lo sguardo di Rugendas e del suo giovane amico Krause riorganizza il paesaggio da una prospettiva esplicitamente coloniale, immaginando il sorgere di città e fortezze, a poco a poco il pittore (proprio come chi narra) è catturato dalla ricerca del “procedimento” capace di portarlo verso un’arte diversa, aliena ai precetti di Humboldt. E, mentre cavalca nella pampa devastata dalle cavallette, una sciagura gli apre infine le frontiere di un nuovo stile: un fulmine distrugge il volto di colui che si è specializzato nel ritrarre la fisionomia della natura. Rugendas è ora un mostro, costretto a nutrirsi di morfina per placare i dolori e le convulsioni (pur sapendo che in realtà l’incidente non fu così disastroso, Aira insiste su immaginarie conferme fornite dall’epistolario del pittore, a ulteriore parodia del tradizionale racconto di viaggio).

È allora che tutto cambia, portando Rugendas a un automatismo ossessivo e la sua matita a muoversi velocissima sulla carta per catturare ogni dettaglio. La sofferenza, le visioni indotte dalla morfina, il velo nero con cui si copre il viso per filtrare la luce, trasformano la sua percezione e la mettono alla prova durante il malón (la scorreria in cui gli indios si impadronivano di bestiame e donne) che gli permette di incontrarsi e in un certo senso di fondersi con l’Altro per antonomasia, l’irriducibile “selvaggio” che il nascente Stato-nazione aveva eletto a proprio nemico.

Tutta la seconda parte del romanzo è dedicata proprio al malón, a tratti simile a una violenta danza rituale, a tratti paragonabile a un’esibizione teatrale e quasi buffonesca: un caos simile a quello dei lineamenti del pittore, che all’inizio ritrae da lontano, ma poi si avvicina, “entra” nel quadro e finisce per farne parte, sedendosi attorno al fuoco tra gli indios stupefatti e ritraendoli con rapidità instancabile, come un fotografo che scatti delle istantanee.

Non è più l’europeo viaggiatore, l’estraneo perduto in terre lontane, ma appartiene anche lui a un mondo che ammette ogni diversità e si regge su un ordine di altro tipo. La distanza è annullata, l’opera nasce da un nuovo sguardo. E il fulcro del romanzo è, a questo punto, compiutamente svelato: un’immagine dell’artista che solo facendosi “mostro”, lasciandosi contaminare e devastare per congiungersi all’altro, può far nascere un’arte nuova, può intuire, osare, sperimentare. Può assolvere, insomma, al suo compito: andare oltre quella che chiamiamo realtà, creare qualcosa che prima non esisteva, o che, semplicemente, era invisibile ai nostri occhi. Ed è proprio questo, in effetti, che Aira ha tentato e tenta di fare con le sue innumerevoli novelitas.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2018