mercoledì 17 aprile 2019

Da leggere: Juan Rodolfo Wilcock


Juan Rodolfo Wilcock



Il portacenere più cattivo d’Italia 

Chiunque affronti la figura e l’opera multiforme e ricchissima di Juan Rodolfo Wilcock, nato a Buenos Aires cento anni fa, esordisce con un riferimento al suo abbandono del paese di origine, nel 1957, per stabilirsi in un’Italia della quale avrebbe adottato la lingua, usandola con cristallina eleganza per scrivere romanzi, racconti e poesie, nonché innumerevoli articoli, elzeviri e recensioni (per lo più ironici e giustamente velenosi) su quotidiani e riviste come la Voce Repubblicana, Il Mondo, L’Espresso e altri ancora. Anche se non fu l’unico argentino, in quegli anni, a scegliere di espatriare e rinunciare alla lingua materna – sia Copi che Hector Bianciotti, emigrati a Parigi, optarono per il francese – la sua decisione sembra suscitare ancora oggi interrogativi e curiosità, forse perché contravviene al consueto stereotipo dell’esilio (“quasi una tradizione” per gli autori argentini, scrive Ricardo Piglia), come a quello dell’intellettuale latinoamericano del secolo scorso, irresistibilmente attratto dalla calamita culturale parigina, o dal richiamo della otra orilla spagnola.

Lo scrittore non mise più piede in Argentina, e quel viaggio senza ritorno possiede, in effetti, caratteristiche insolite, perché nasce da una precisa opzione estetica e anticipa l’avvento di una letteratura postnazionale, pronta ad attraversare lingue e tradizioni e a coltivare uno sguardo “estraneo” capace di conferirle una vertiginosa libertà, che nel caso di Wilcock fu pagata a caro prezzo: la sua volontaria, sdegnosa ed eccentrica marginalità fece sì che né la cultura argentina, né quella italiana, si preoccupassero di rivendicarne fino in fondo la letteratura, accantonando i suoi libri per lunghi periodi.

Sui motivi di una decisione così radicale e mai veramente chiarita, sono state fatte molte congetture: un irriducibile antiperonismo (anche se nel ’57 Perón era stato già defenestrato dalla Revolución Libertadora), la convinzione che lo spagnolo fosse una lingua insoddisfacente e poco flessibile, il sentirsi un “argentino per caso”, e, forse, la difficoltà di vivere la propria omosessualità in un contesto che, narrano Hector Bianciotti in Ce que la nuit raconte au jour e Oscar Villordo in La brasa en la mano, imponeva il codice eterosessuale come l’unico possibile.

Esiste però un’altra ipotesi, suggerita tra gli altri dallo scrittore e critico argentino Luis Chitarroni, direttore editoriale di La Bestia Equilátera, che nel 2015 ha pubblicato la raccolta di racconti El caos, chiudendo così un cerchio: Il libro, scritto in spagnolo prima della partenza, quindi tradotto per Bompiani nel 1960, e poi rivisto da Wilcock per l’edizione Adelphi del 1974 (intitolata “Parsifal: i racconti del caos”), è infine riapparso nella lingua originaria grazie alla cura di Ernesto Montequin.

Chitarroni, rievocando la grande ammirazione dell’autore per Borges (che invece lo detestava, secondo la testimonianza di Bioy Casares), si chiede se il loro desencuentro non fosse una delle ragioni per cui Wilcock si lasciò lo spagnolo alle spalle. A dividere i due non erano solo caratteri opposti, ma anche la spregiudicata esplorazione, da parte del più giovane, della narrativa legata al successo di mercato, e soprattutto una diversa lettura delle avanguardie, disprezzate da Borges e molto amate da Wilcock, che si riconosceva, in particolare, nel meditato e travolgente caos dell’“Ulisse”. E il giudizio di Borges al riguardo, come il solito Bioy non manca di riferire nel suo monumentale diario, era alquanto aspro: “Wilcock, nonostante eserciti di continuo e sottilmente la sua intelligenza, si lascia dominare dallo snobismo a favore dei moderni: venera Joyce, Eliot, Pound, eccetera”. Inventarsi un nuovo destino, tornando all’Europa cui sentiva di appartenere, e appropriarsi di una lingua sulla quale Borges non esercitava giurisdizione alcuna, significava perciò prendere le distanze dal canone borgesiano e dal suo megafono, la rivista Sur fondata da Victoria Ocampo, che sotto una maschera cosmopolita nascondeva un volto troppo conservatore per il giovane Wilcock, cooptato a suo tempo in quanto poeta neoromantico di riconosciuto valore, dopo l’esordio a vent’anni con il primo di sei volumi di versi.

Più del duo Borges-Bioy o della temibile Victoria, però, la sua stella polare era stata Silvina, la minore della Ocampo, scrittrice geniale e misteriosa cui lo univa una profonda affinità. Per lei, il trasferimento del suo “Johnny” nell’Italia visitata insieme nel 1951, durante un grand tour europeo, fu un grande dispiacere, mentre per Wilcock si trattò di una scommessa azzardata, fatta per ridefinirsi esplorando altre strade. Passare all’italiano, utilizzato con destrezza estrema, significò muoversi in un territorio culturale senza barriere, dove poteva servirsi di un nitido e sorvegliatissimo linguaggio letterario per costruire, con la spassionata oggettività di un entomologo, personaggi e situazioni ai confini del fantastico, nati da una distorsione iperbolica e grottesca della realtà. Se in Argentina era stato quasi esclusivamente poeta, in Italia, pur continuando a scrivere versi, diventò un narratore votato all’assurdo, all’umorismo nero, al grottesco, alla parodia e alla satira (esemplare, in questo senso, il romanzo Due allegri indiani, collage in cui tutte le ipocrisie italiche vengono sciorinate con un’ironia inarrivabile), che la sua posizione di straniero eterodosso gli consentiva di esercitare con irriverenza da “snob assoluto”, secondo la definizione di Luigi Malerba.

In una nota su Samuel Beckett, Wilcock osserva che l’umanità è come una mela marcia con una parte sana, tenuta insieme solo dalla buccia; al minimo tocco, però, quella guasta cede e si disfa. Ed è questa l’umanità ritratta nelle vite immaginarie di La sinagoga degli iconoclasti (più vicino a Schwob che a Borges), nella delirante mitologia di Lo stereoscopio dei solitari e nei dettagliati orrori del postumo Il libro dei mostri (pag. 143, e. 16), che Adelphi finalmente ristampa dopo molti anni e in cui l’autore ha raccolto, con occhio di collezionista, una serie di personaggi mostruosi, ma, a modo loro, terribilmente normali. Le figurine (quasi delle miniature) descritte in racconti di due o tre pagine sembrano uscite da qualche antico resoconto di viaggi in cui compaiono popoli immaginari e remoti: un critico letterario che è in realtà una massa di vermi semovente; uno scrittore con la fronte ornata da lunghi tentacoli, impegnati a scrivere ciascuno un proprio romanzo; una diva in decomposizione, il cui corpo putrefatto è oggetto dell’unanime desiderio maschile; un capitano che sguscia annualmente dalla propria pelle, raccolta e imbottita dalla moglie, che colleziona i simulacri; un padre trasformato in un modesto vulcano, che mette in riga la propria famiglia eruttando fango; un tizio ridotto allo stato liquido e contenuto in un bidone che viene regolarmente schiumato…

L’autore non si sofferma a spiegarci il come e il perché della trasformazione, proprio come fa Kafka con Gregor Samsa: a differenza di quest’ultimo, però, i mostri di Wilcock non vedono la propria esistenza paralizzata e poi spezzata dalla metamorfosi, e si industriano a ricreare intorno alla loro nuova forma una routine quotidiana e un minimo di normalità piccolo-borghese. La sopraggiunta mostruosità, infatti, non li emargina, ma si limita a rendere visibile ciò che prima non lo era: solo dopo essere diventato un lucido portacenere di legno, per esempio, il signor Zulemo Moss si è reso conto che la sua grande ambizione è quella di far danno agli altri. È il portacenere più cattivo d’Italia, ma, in quanto oggetto inanimato, forzatamente innocuo. Ecco perché passa il suo tempo a immaginare atroci vendette contro chiunque, rivelandosi come la versione wilcockiana di un hater perfetto. E di simili visioni profetiche sull’Italia di oggi, dobbiamo ammetterlo, la narrativa di Wilcock sembra traboccare.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’aprile 2019

mercoledì 3 aprile 2019

Da leggere: Paulina Flores


Paulina Flores



La vergogna, un filo tenace e sottile

Una comuna, cioè un enorme sobborgo nato dalle occupazioni dei terreni nella zona nord di Santiago, durante la migrazione interna che nel secolo scorso portò nella capitale più di un milione di persone: questo è Conchalí, abitato soprattutto da famiglie operaie e piccolo borghesi in perpetua lotta con la disoccupazione e la crisi economica. Qui, nel 1988, è nata Paulina Flores, nome nuovo della letteratura cilena, che con il suo primo libro (il secondo, un romanzo, arriverà quest’anno) ha vinto alcuni premi importanti, è stata tradotta in diverse lingue e si è attirata le lodi unanimi della critica. Un’autrice cresciuta in una casa modesta dove i libri scarseggiavano, ma folgorata a vent’anni da una vocazione improvvisa: scrivere, e prima ancora leggere, leggere moltissimo, mentre studiava all’università, vinceva borse di studio, lavorava come cameriera o bibliotecaria e frequentava il laboratorio di scrittura di Alejandro Zambra, autore celebre che tra i primi ne ha sostenuto il talento.

Intitolato Che vergogna e pubblicato nel 2015 da una casa editrice indipendente e raffinata come la Hueders – e poi rilanciato in tutti i paesi di lingua spagnola da Seix Barral – il libro appare adesso in italiano presso Marsilio (pag. 234, e. 16) nella traduzione di Giulia Zavagna, capace di rendere nel modo migliore i racconti della ragazza di Conchalì, che in nove storie quasi sempre magistrali racconta paesaggi urbani abitati da personaggi spesso giovanissimi, colti nell’istante in cui un avvenimento minimo o una scena sommessa ma cruciale, segneranno un momento di svolta, di cambiamento, di accettazione del proprio destino. Storie di perdenti che però non si sentono tali, anche quando vengono messi di fronte ai limiti e agli spigoli di una realtà dalla quale sembrano non aspettarsi molto, quella di un paese ritratto in due momenti diversi: la difficile e non del tutto risolta transizione alla democrazia degli anni ’90, e un presente attraversato dal chiacchiericcio continuo dei social media.

Lontana da ogni stereotipo generazionale e dal costante interrogarsi sulle onnipresenti tracce della dittatura (materia inevitabile di tanta scrittura cilena contemporanea), nonché dall’eccesso di afasia del minimalismo alla moda, Paulina Flores si prende tutto lo spazio necessario per dispiegare una narrazione realistica e minuziosa, ricca di dettagli e di immagini, descrivendoci quartieri periferici, desolate cittadine portuali, interni borghesi o palazzi-alveare in cui si consumano vite familiari spezzate, rapidi incontri sessuali, infanzie e adolescenze le cui illusioni sono destinate a infrangersi nell’istante in cui si scopre che “la vita è così”, senza però rinunciare del tutto alla speranza, anche quando pare che non ne esista nessuna (“… è forse lei l’unica che aspetta qualcuno?”, si chiede, con l’orecchio incollato alla porta, la protagonista di Fortunata me, lungo racconto che intreccia con suggestiva abilità un’infanzia segnata dalla perdita e una giovinezza incapace di stabilire rapporti col mondo, se non attraverso uno sguardo clandestino sull’altrui intimità).

Adolescenti proletari che trascorrono l’estate progettando un furto di strumenti musicali, mentre il padre di uno di loro, ex militare, approda alla disfatta definitiva; ragazzini che rifiutano la possibilità di una vita migliore per prendersi cura di una miserevole figura materna; ragazze che vivono incontri fugaci, sospesi nel nulla, o che non percepiscono la violenza del compagno, o che coprono i tradimenti e le doppiezze delle amiche di un tempo; vecchie zie amatissime, le uniche a comprendere che nascondersi sotto il letto significa raggiungere l’unico posto al mondo veramente sicuro; madri terribili e padri disoccupati da troppo tempo per mantenere il rispetto di sé… E bambine, soprattutto magnifiche bambine dallo sguardo fin troppo acuto, innamorate della figura paterna e decise a salvarla dal fallimento, colpite dal tradimento inaspettato di un genitore, o vittime, nell’oscurità di una spiaggia estiva, della seduzione di un pedofilo insinuante e tenace come i molluschi incollati alle rocce che li circondano.

Questi i personaggi disegnati con profondità e leggerezza in Che vergogna, le cui storie ci permettono di intravedere alcuni precisi punti di riferimento: in primo luogo i testi lunghi ed ellittici di Alice Munro, e poi Flannery O’Connor, Amy Hempel, Lorrie Moore; l’influenza esercitata su Flores da queste maestre del racconto è indubbia, ma non le ha impedito di pervenire, da subito, a una scrittura soltanto sua e già sorprendentemente matura, quella di una giovane autrice latinoamericana ben consapevole della realtà che la circonda, modellata da un neoliberismo che sottrae tempo di vita, non garantisce che precarietà, colloca il profitto individuale al di sopra di ogni esigenza collettiva, e tuttavia è attraversato da correnti profonde, da discorsi che tentano di minare un panorama egemonico dal quale continuano a emergere voci diverse e impreviste, destinate a contrastarlo proprio attraverso la sua rappresentazione. Lontano da un’esplicita intenzione politica (l’attivismo dello scrittore va lasciato alle interviste – ha precisato Paulina Flores, che alle ultime elezioni dichiara di aver votato per il partito comunista – “perché la letteratura non può essere un pamphlet”) e tuttavia intrinsecamente politici per lo sguardo con il quale affrontano la quotidianità e interrogano il mondo, seminando dubbi e disintegrando certezze, Che vergogna è un autentico saggio di bravura e allo stesso tempo un “messaggio in bottiglia” che ci conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la ricchezza di un universo letterario del quale, nonostante l’accresciuta attenzione della nostra editoria, non sappiamo ancora abbastanza, invitandoci ad approfondirne la conoscenza.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'aprile del 2019