sabato 3 agosto 2019

Da tradurre: Lucía Lijtmaer



Lucía Lijtmaer


Ofendiditos di tutto il mondo, unitevi 

Casa editrice nata nel 1969 a Barcellona e protagonista, all’epoca, di numerosi scontri con l’ancora imperante censura franchista, Anagrama è arrivata al suo cinquantesimo compleanno con un catalogo di quattromila titoli tra letteratura e saggistica, due famosi premi letterari (cui quest’anno si è aggiunto quello per la crónica, cioè il giornalismo narrativo, intitolato al messicano Sergio González Rodríguez) e un intatto livello di qualità, sul quale continua a vegliare il fondatore Jorge Herralde, nonostante abbia ormai ceduto la sua creatura al Gruppo Feltrinelli. Uno dei primi frutti della stretta collaborazione tra Herralde e Silvia Sisé, la nuova direttrice editoriale, sono i Nuevos Cuadernos Anagrama, che fanno diretto riferimento a una delle principali collane degli inizi: piccoli ed eleganti volumi dalla copertina monocroma, dedicati a brevi saggi che esplorano le inquietudini del presente in modo incisivo e polemico.

Tra le uscite più recenti e, in qualche modo, più necessarie, c’è Ofendiditos. Sobre la criminalización de la protesta (pag. 96, e. 8,90) di Lucía Lijtmaer, scrittrice e giornalista poco più che quarantenne, nata Buenos Aires ma cresciuta a Barcellona: un testo graffiante e non privo di umorismo, il cui titolo, intuitivamente comprensibile, non è però facile da tradurre.

In seno a una ormai diffusa narrazione “controriformista” e reazionaria, connotata dai toni del cinismo o dello scherno, in Spagna il termine è usato per squalificare chi difende diritti civili che si credevano solidamente acquisiti, o rigetta stereotipi e pregiudizi che si speravano sepolti, o non accetta comportamenti e discorsi sessisti e razzisti, o protesta contro le mille reincarnazioni del fascismo e le offese nei confronti delle minoranze, in qualunque forma si manifestino. Buonisti, censori, neopuritani, moralisti e musoni: questi sarebbero gli ofendiditos, secondo coloro che si presentano come coraggiosi anticonformisti pronti a sfidare la “dittatura” del politicamente corretto. Ma la verità, sottolinea l’autrice, è che non esiste discorso più funzionale al potere e più egemonico della scorrettezza politica, che, ove pubblicamente rintuzzata, cerca di liquidare qualsiasi dibattito politico e culturale con un minaccioso ghigno derisorio. Lo sappiamo fin troppo bene anche noi, ofendiditos d’Italia, che, quotidianamente innaffiati dalla pioggia degli sprezzanti bacioni di Salvini, confidiamo in una pronta traduzione del saggetto di Lijtmaer.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2019


Da leggere: Elvira Navarro


Elvira Navarro



Il neoliberismo produce follia

Tra le più singolari esperienze dell’editoria europea c’è senza dubbio quella di Caballo de Troya, un minuscolo marchio della Penguin Random House (quasi un raffinato capriccio, per un colosso dalla spiccata vocazione commerciale), creato quindici anni fa dall’editor, critico e saggista Constantino Bértolo per dare spazio a scritture nuove e originali. Proseguito dopo il pensionamento di Bértolo, nel 2014, con la scelta audace di affidare ogni anno la scelta dei titoli a un giovane scrittore e di puntare soprattutto sul formato elettronico, il progetto ha fatto da levatrice ad autori ancora sconosciuti, che hanno poi raggiunto un pubblico più vasto. Tra loro spicca Elvira Navarro (la prima, tra l’altro, a diventare editor temporanea di Caballo de Troya, dopo l’uscita di Bértolo), che col suo libro d’esordio, La ciudad en invierno, suscitò a suo tempo l’entusiasmo di Enrique Vila Matas e che oggi, dopo quattro romanzi e un recentissimo libro di racconti, si presenta come una delle voci più intense e apprezzate del panorama letterario spagnolo.

Tradotto per la prima volta in italiano da Sara Papini e incluso nel catalogo di Liberaria, un piccolo editore pugliese dalle ottime credenziali, arriva infine anche nelle nostre librerie il suo terzo romanzo, come sempre orientato a una densa brevità: La lavoratrice (pag. 173, e. 18), che attraverso una trama solo in apparenza semplice, dove ben poco accade, rovescia gli schemi consueti e racconta vite cui il mercato del lavoro non garantisce se non una difficile e instabile sopravvivenza, generando o amplificando un crescente disagio mentale.

Non c’è davvero nulla a cui afferrarsi nella vita di Elisa, che nonostante una laurea, un master, gli studi all’estero e la pubblicazione di un romanzo, deve accontentarsi di collaborazioni pagate male e in ritardo da una grande casa editrice, e si ritrova condannata alla precarietà senza orari di un lavoro eseguito in solitudine tra le quattro mura di un modesto appartamento in periferia, dove la noia e la fatica del suo “cottimo” da neoproletaria della cultura la spingono a cercare ogni pretesto per interrompersi, vagando in rete o contemplando dalla finestra un paesaggio che ricorda le vedute iperrealiste di pittori come Antonio López o Amalia Avia.

Anche la misteriosa Susana, con la quale Elisa è costretta a condividere un’abitazione che altrimenti non potrebbe permettersi, sembra segnata da una perpetua instabilità e da un trauma segreto che per un certo tempo le ha devastato la mente e il corpo, trasformandola in una sorta di freak e inducendola a cercare eccentrici incontri sessuali. Entrambe prigioniere di un conflitto prontamente medicalizzato, ma le cui radici sembrano trovarsi all’esterno, in un neoliberismo che produce follia, le due donne condividono un’intimità forzata e afasica, eppure finiscono per rispecchiarsi l’una nell’altra: Susana con sostanziale indifferenza, Elisa con terrore, perché la coinquilina le appare come l’esempio di una probabile condizione futura.

Considerato da più parti un perfetto “romanzo della crisi” che racconta una generazione priva di prospettive, La lavoratrice può far pensare a un rinnovato e contemporaneo realismo sociale, ma la struttura della narrazione, l’uso del linguaggio e l’indubbia vocazione sperimentale di Elvira Navarro ci dicono tutt’altro. Non a caso Damián Tabarovsky, critico e scrittore argentino di grande acume e autore di un saggio fondamentale come Literatura de izquierda, dice del romanzo che “ripensa il realismo per sovvertirlo, per espandere le sue possibilità espressive, per portarle all’estremo”, mentre si serve di una storia intima e individuale per raccontare la decostruzione dell’identità provocata dalla crisi economica e riflessa in quella degli spazi urbani dove la protagonista usa vagabondare, di notte, per cercare il vuoto e recuperare il respiro, camminando senza sosta.

La prima persona di Elisa, introspettiva e divorata dall’angoscia, è interrotta da altre voci: quella inaffidabile della mastodontica Susana (cui dobbiamo un incipit pirotecnico e delirante, tra bizzarre fantasie soddisfatte dalla torrida relazione con un nano) e quella cinica e freddamente disperata della caporedattrice Carmentxu, che infrangono la continuità del discorso inserendovi storie spezzate, o, nel caso di Susana, pure fabulazioni che le consentono di esistere, o forse solo di resistere. Storie e bugie che, scopriremo, vengono raccolte e "riordinate" dalla protagonista, pronta a servirsene per il suo nuovo romanzo, come ribadisce in un colloquio finale con lo psichiatra, che le chiede: “E cos’è più importante per lei: registrare ciò che avviene nel mio ambulatorio per concludere bene il suo libro, o curarsi?”. Così, mentre svela implicitamente al lettore il procedimento di costruzione di un’opera disseminata di interruzioni e salti cronologici, l’autrice avvia un riflessione sul senso del narrare e sulla stessa forma-romanzo.

In parallelo al crescere dell’ansia di Elisa, che constata ogni giorno l’impossibilità di guadagnare un orizzonte coerente e solido, le sue esplorazioni notturne della città si fanno prolungate e ossessive, dominate dalla paura e tuttavia indispensabili. La descrizione di una metropoli periferica e marginale si fa sempre più onirica e cupa, tanto che le strade, le case occupate, le silhouettes di chi raccoglie cartoni e fruga nella spazzatura, il contrasto continuo tra luci e ombre, i suoni e gli echi, prendono tinte spettrali, quasi gotiche, e trasformano Madrid in una città inventata, piena di vie e palazzi mai esistiti, pronti a svanire appena si distoglie lo sguardo. E se i passi di Elisa disegnano una mappa che corrisponde a quella dei suoi attacchi di panico, delle sue allucinazioni e dei suoi incubi, Susana, armata di minuscole forbicine e infinita pazienza, compone a sua volta altre mappe, collages labirintici fatti di figurine infinitesimali: una personalissima reinvenzione della città, scomposta in mille elementi e ricomposta secondo una logica straniante.

L’insistita presenza di uno spazio urbano superbamente descritto e ricreato è, del resto, una costante dell’opera di Elvira Navarro, tanto da manifestarsi nei titoli speculari dei suoi primi due romanzi (La ciudad en invierno e La ciudad feliz) e in un blog dedicato alle periferie di Madrid, a confermare una corrispondenza profonda tra “interno” ed “esterno”, come se il secondo definisse e modellasse il primo, avvolgendolo in un secondo corpo altrettanto inquieto e sofferente. Torna, inequivocabile, il tema del doppio: la città è l’alter ego di chi la abita, proprio come Susana potrebbe esserlo di una Elisa più matura e per sempre sconfitta. In una realtà frammentata e priva di speranza (almeno finché le vicende individuali non sapranno fondersi in una rivendicazione collettiva e finalmente politica), le loro storie si intrecciano alla storia di tutti e ne diventano il simbolo, dando vita a un romanzo audace e scomodo, che ci coinvolge in una lettura ipnotica e conturbante.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel luglio del 2019