lunedì 16 marzo 2020

Da leggere: Ramiro Pinilla


Ramiro Pinilla



Tra il mito e la storia

È insolito che una casa editrice si azzardi a pubblicare una trilogia di duemilacinquecento pagine firmata da un ottantunenne sconosciuto, o meglio del tutto dimenticato dopo una fugace popolarità risalente agli anni Sessanta. Accadde a Ramiro Pinilla, che poteva contare sul ricordo di pochi, e tra questi Fernando Aramburu, il quale prima ancora di diventare celebre con il suo Patria, non aveva mai smesso di leggerlo e di ammirarlo: fu lui a proporre all’Editorial Tusquets Verdes valles, collinas rojas, alla cui stesura Pinilla aveva dedicato quasi vent’anni e che rappresentava il culmine di una vasta e ignorata produzione narrativa.

Apparsa in veste più breve alcuni anni prima nel catalogo di Libropueblo (minuscola impresa artigianale fondata dallo stesso Pinilla), l’opera riaffiorata nel 2004 si rivelò complessa e ambiziosa, un romanzo di assoluta originalità che, in uno stile personalissimo sostenuto da una solida struttura, fondava un universo narrativo chiuso nello spazio di Getxo, la piccola città sul Golfo di Biscaglia dove l’autore, morto nel 2014, trascorse buona parte della vita. Saghe familiari, faide tra terribili matriarche, leggende, delitti, il soccombere di una società arcaica e rurale all’industrializzazione, le bandiere rosse impugnate dai minatori e dagli operai maketos (ossia non baschi) sfruttati dai padroni locali, gli amori proibiti, le antiche usanze, le stragi della guerra civile intrecciano in queste pagine un potente ritratto del popolo basco, denso di inquietanti presagi e ricco di innumerevoli personaggi. È da una “costola” di Verdes valles, collinas rojas, che sarebbe nato La Higuera – pubblicato in Spagna, per una singolare coincidenza, proprio mentre veniva approvata la Ley de la memoria historica voluta da Zapatero – oggi in italiano con il titolo L’albero della vergogna (nell’ammirevole traduzione di Raul Schenardi, Fazi, pp. 279, e. 18,00).

In molti si sono interrogati sulle ragioni della prolungata rimozione dalla scena letteraria spagnola di Ramiro Pinilla: la risposta più immediata è da cercare nella sua biografia e soprattutto nel carattere di questo autodidatta, che ha prima lavorato sui mercantili e poi nell’azienda del gas di Getxo, confezionando, “per arrotondare”, biografie su commissione e testi per gli album di figurine; un uomo ruvido, orgoglioso e ostinato, che, nonostante il successo del suo Las hormigas ciegas, pubblicato da un editore di peso come Destino, per più di quarant’anni non esitò a voltare le spalle alle richieste e ai rituali di un mundillo editoriale detestato sin dal primo istante. Non è solo questa, tuttavia, la ragione per la quale Pinilla è stato dimenticato tanto a lungo: a giocare un ruolo determinante fu anche la sua scrittura, impossibile da collocare tanto nella cornice letteraria degli anni ’60, impregnata di un sostanzioso realismo sociale, né in quella degli anni ’70, votata alla desrealización e alla sperimentazione. Outsider radicale, Pinilla era rimasto estraneo a entrambi i territori.

La sua versione del realismo evita le descrizioni, si inoltra in labirinti psicologici e sensoriali, si nutre di simboli e allegorie, procede per frammenti, coniuga abilmente concezione mitica e dimensione storica, e giustappone monologhi interiori e punti di vista secondo la lezione di Faulkner, l’autore che più di ogni altro lo ha influenzato. Il suo fraseggio diretto, funzionale a uno stile “trasparente” e a una prosa che “non si noti”, lo allontanava dagli sperimentalismi e da qualsiasi tentazione di fioritura formale, per lasciar parlare le storie e dare risalto a una preoccupazione etica sottintesa, ma sempre presente nei testi di un autore profondamente libertario, vicino alla sinistra e avverso a nazionalismi di ogni tipo (“La mia patria non è il Paese Basco e neppure la Spagna”, usava dire, “ma l’infanzia”).

Su queste basi, la narrativa di Pinilla ha sviluppato caratteristiche uniche, impiantandosi tutta nel medesimo spazio, concreto eppure fantastico, dove si muovono personaggi ricorrenti dei quali possiamo seguire genealogie e vicende, che convergono in una stessa direzione: la guerra civile e quella repressione post-bellica che lo storico inglese Paul Preston ha definito “l’Olocausto spagnolo”. Per quanto omogenea e singolarmente “compatta”, l’opera di Pinilla si presenta non solo lontana da scuole e correnti, ma suscettibile di costante evoluzione: L’albero della vergogna rende infatti evidente la capacità dello scrittore spagnolo di creare, con luoghi e personaggi già presenti in altri testi, un romanzo autonomo, la cui architettura differisce radicalmente da quella del suo opus magnum. Al posto di una folla di personaggi e della complicata tessitura di storie individuali, manovrate con sicurezza dall’autore che le incastra l’una nell’altra fino a dar vita a una narrazione epica e collettiva, ci si offre una trama semplice e lineare, con un numero di personaggi relativamente ridotto, mentre la coralità e il fluviale alternarsi dei punti di vista lasciano il posto a una suddivisione in tre parti, affidate a due voci soltanto: la maestra Merche, cui spettano l’introduzione e il brevissimo epilogo, e Rogelio, falangista di Valladolid che nei mesi successivi al trionfo di Franco arriva in una Getxo annichilita dalla paura e da una repressione senza precedenti, per unirsi a uno dei tanti gruppi di giustizieri decisi a ripulire il paese dai “rossi” e a fare grande la Nuova Spagna.

Se Merche, amica del maestro Manuel (personaggio fondamentale della trilogia, qui diventato poco più di una comparsa) racconta i fatti da un punto di vista esterno ma partecipe, basandosi su quel che vede e sa, ma soprattutto su ciò che non sa e può soltanto ipotizzare, Rogelio narra una storia che lo riguarda intimamente, ma che conserva anche per lui un fondo di mistero. Tutto ruota intorno al suo rapporto con Gabino, ragazzo di dieci anni che ha visto i falangisti prelevare il fratello adolescente e il padre, un maestro socialista, per trascinarli in uno dei mortali paseos notturni che all’epoca il regime incoraggiava, e che costarono alla Spagna migliaia e migliaia di morti: corpi insepolti apparivano al mattino ai bordi delle strade, e altri venivano frettolosamente gettati in fosse comuni (in buona parte sconosciute ancora oggi), per privarli della dignità di un funerale.

Gabino, giovanissima versione maschile di Antigone, provvede a seppellire segretamente padre e fratello con le sue sole forze, segnando il luogo della sepoltura con un germoglio dell’albero di fico cresciuto accanto alla loro casa confiscata, ma Rogelio, ossessionato dallo sguardo senza lacrime del bambino, in cui crede di leggere una promessa di vendetta, individua la tomba, e, obbedendo all’ordine silenzioso impartito da quegli occhi, abbandona le mortali spedizioni notturne per diventare custode del misero rametto, che, innaffiato ogni sera, con gli anni si trasforma in una enorme pianta le cui radici avviluppano gli uccisi. A sua volta, anche Rogelio si trasforma, o meglio viene trasformato dal compito che si è assunto e dalla volontà di una straripante beghina, pescivendola sboccata quanto devota, che vede in lui la manifestazione del potere miracoloso della Vergine del Carmelo, capace di toccare il cuore dei peggiori assassini.

L’ex falangista si ritroverà, senza volerlo, a farsi eremita con tanto di saio e in odore di santità, venerato da una folla di pellegrini che ignorano il vero motivo della sua tenace veglia presso la pianta, in un campo inospitale e con l’unico riparo di una miserabile capanna. Nemmeno Rogelio, in realtà, sa bene perché si trovi lì, assediato da fedeli che rifiuta di benedire, e dai suoi antichi compagni che prima lo deridono e con il passare del tempo cercano di obbligarlo ad andarsene, perché la sua presenza e soprattutto quell’albero testimoniano i loro antichi delitti, che negli anni Sessanta il franchismo, ansioso di esibire una “rispettabile” normalità, tentava di dimenticare.

Conflitti che convergono verso una soluzione inevitabilmente drammatica segnano lo svolgersi della trama: lo scontro silenzioso tra gli di sguardi di Gabino e Rogelio, le minacce all’albero e al suo custode, le aggressioni sempre più grottesche e feroci degli antichi compari. Attorno al fico – vero e proprio monolite, monumento che si contrappone alla spaventosa croce del Valle de los Caidos rivendicando il diritto dei vinti a venire pianti e onorati – Pinilla colloca con grande abilità tutti i pezzi della scacchiera: i terrorizzati paesani di Getxo, l’arroganza della Chiesa, l’opportunismo dei traditori, le improbabili giustificazioni degli assassini, la lunga autocondanna e l’espiazione di Rogelio (perché di questo si tratta, che lui ne sia o no consapevole). E Gabino, che parla con gli occhi e solo nelle ultime pagine, ormai divenuto adulto, fa sentire la sua voce in un brevissimo dialogo con l’eremita, per offrirgli non il perdono, ma la propria gratitudine.

Simbolo, insieme al ragazzo, delle “due Spagne” create dalla frattura della guerra civile, Rogelio – redento non dalla sua lunga e contraddittoria permanenza accanto all’albero, ma dal tempo immobile e quasi estatico che essa gli ha offerto – incarna ormai uno spirito riparatore che consente di affrontare il trauma, “vedere” finalmente l’altro da sé, riconoscere il dolore inflitto. Pinilla elabora dunque la realtà storica e la reinventa senza tradirla, narrando una ferocia pronta a riproporsi con nuove maschere, e attraverso la fondazione di un nuovo mito prosegue il suo “restauro” di una memoria sempre a rischio di illecite manipolazioni.

Se l’intera trilogia di Verde valles, collinas rojas irretisce e intrattiene con un turbine di storie e con gli infiniti dettagli del suo minuzioso, sovrabbondante disegno, L’albero della vergogna assorbe il lettore e lo turba con la metafora solenne di un albero che si nutre delle vittime della guerra e produce frutti destinati a nutrire a loro volta quei corpi nascosti: appena compaiono i primi fichi, Gabino li seppellisce infatti nella terra della tomba, ripetendo l’antichissima offerta rituale del cibo ai defunti, ed è allora che ci accorgiamo di come, con un linguaggio sobrio, quasi rude, tradotto in immagini straordinariamente vivide, fra brevi momenti di lirismo e dialoghi magistrali, Pinilla ci abbia condotto verso quella che da sempre è la sua meta, luoghi di confine sempre sull’orlo dell’oblio, che, come il fico dell’eremita, chiedono di venire curati e custoditi.


 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2020


mercoledì 11 marzo 2020

Da leggere: Heridas




Una pugnalata alle spalle

Nell’edizione originale si chiama Puñalada trapera (Editorial Rey Naranjo, 2017), ossia “Pugnalata alle spalle” e in quella italiana Heridas, cioè “Ferite” (gran vía, pp. 284, e. 16): entrambi titoli perfetti per l’antologia curata da Maria Cristina Secci, autrice dell’ottima prefazione e coordinatrice di un gruppo di giovani traduttori suoi allievi.

Nel volume troviamo i nomi di ventidue scrittori nati in Colombia tra il 1972 e il 1985, ben pochi dei quali già tradotti in Italia (tra tutti, da ricordare Cárdenas e l’ammirevole Margarita García Robayo) ma sempre di considerevole interesse, che con i loro racconti ci forniscono un quadro attendibile della letteratura di un paese sovrastato dall’ombra immensa di Gabriel García Márquez, cui è toccato l’ingrato ruolo di mettere in secondo piano, almeno agli occhi dei lettori non colombiani, alcune generazioni di autori più che eccellenti. Il libro è una vera e propria mappa che consente di esplorare la nuova narrativa colombiana e testimonia non solo della sua buona salute, ma anche della grande varietà stilistica e tematica che la connota. Senza dimenticare alcune lezioni del passato (in primo luogo quella che ha aperto una cultura per lungo tempo “chiusa” a influenze e contaminazioni di ogni genere: apertura accentuata dal vero e proprio fenomeno migratorio che sembra coinvolgere tanti scrittori latinoamericani), i diversi autori si allontanano ciascuno a suo modo da tenaci stereotipi, adottano audaci registri linguistici e si accostano con estrema cautela al tema della violenza, che ha così profondamente segnato la letteratura colombiana: un argomento che non si può ignorare, e che tuttavia si riduce spesso a un rumore di fondo, a un dettaglio minimo, a una presenza sotterranea, raramente esplicitata. Un’antologia, in conclusione, che, come nota nell’introduzione Maria Cristina Secci, si può definire “generazionale” e che invita gli editori a osare nuove traduzioni da proporre a lettori felicemente curiosi.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2020


Da leggere: María Ospina Pizano


María Ospina Pizano



Non essere divorati è il sentimento più perfetto

Nata a Bogotà nel 1977, María Ospina Pizano insegna alla Wesleyan University, negli Stati Uniti, ed è una studiosa della cultura latinoamericana contemporanea che nel 2019 ha pubblicato il saggio El rompecabezas de la memoria. Literatura, cine y testimonio de comienzos del siglo en Colombia, acuta analisi del modo in cui cinema, letteratura e testimonianze concorrono alla costruzione della memoria di un’epoca dolorosa e drammatica. Oltre che un’accademica, però, Ospina è anche una narratrice di notevole talento, il cui libro d’esordio arriva ora nelle librerie italiane nella traduzione di Amaranta Sbardella per Edicola Ediciones – piccola casa editrice dal gusto impeccabile con sede a Ortona e a Santiago del Cile – e va ad aggiungersi a quelli di tante giovani autrici latinoamericane alle quali dobbiamo, in questi ultimi anni, una nuova e sorprendente produzione letteraria.

Le sei storie raccolte in Gli azzardi del corpo (pp. 144 e. 14) sono abitate da donne molto diverse per età, esperienza, classe sociale, e soprattutto dai loro corpi, che la scrittura di Ospina esplora fino a renderli quasi tangibili, servendosi di uno stile sobrio e insieme brillante, ricco di immagini e dettagli squisiti, e spingendosi fino a stabilire sofisticate corrispondenze tra il modo di esprimersi delle sue protagoniste (lettere seminate di errori, messaggi sgrammaticati, testimonianze sulla guerriglia emendate e ripensate da una redattrice decisa ad adattare il “prodotto” alle esigenze del mercato) e la loro corporeità, quasi a sottolineare la coincidenza tra diversi, e comunque profondi, tipi di esclusione.

Perché sono proprio i corpi a raccontare, una dopo l’altra, vicende e percorsi profondamente intimi, consentendo inoltre alla storia recente di una nazione tormentata di affacciarsi da strappi e fessure del telone di fondo, quello di una Bogotà che l’autrice trasforma magistralmente in personaggio.

Il primo racconto, Policarpa, è quello che meglio riflette il periodo di transizione e di incertezza oggi vissuto dalla Colombia, in vista di una pace sfuggente, fragile, spesso incrinata. Un tema difficile da eludere, che Ospina affronta attraverso la storia di una ex guerrigliera intrappolata in un programma di reinserimento che, oltre a spogliarla del nome e dell’identità, la colloca dietro la cassa di un supermercato dove il suo corpo forte e atletico si muove con lenta goffaggine. Persa in un mondo urbano che le è estraneo, Marcela (ora divenuta Policarpa), cerca di ricostruirsi con diligenza, anche se il passato continua a inviarle nostalgici segnali: piedi che rifiutano le calzature cittadine e desiderano la comodità degli anfibi; orecchie che rimpiangono silenzi, versi di uccelli, fruscii; occhi che, nell’immenso capannone del Carrefour, guardano verso l’alto per cercare voli, alberi, pezzi di cielo; pelle segnata dalle cicatrici che non smettono di prudere, muscoli potenti che nemmeno le cure minuziose di balsami e creme riescono ad ammorbidire.

In Occasione, che insieme a Policarpa forma una sorta di dittico, la domestica Zenaida si chiede che fine abbia fatto sua sorella Marcela, arruolata anni prima nella guerriglia, e intanto, incinta di un invisibile fidanzato, accudisce il lussuoso appartamento e i figli di quella che forse è la donna di un narcotrafficante. In Salvezza di signorine una ragazza spia dalla finestra un convitto di monache e scambia lettere con un’allieva adolescente (due solitudini che si studiano, si confrontano, danno vita a un’ossessione delusa), accompagnata dal continuo sottofondo delle voci e dei commenti degli ex guerriglieri "reinseriti", che occupano un edificio e inquietano il quartiere. In Collateral Beauty l’erede di una antica “clinica” per i giocattoli vive tra innumerevoli parti di minuscoli corpi artificiali (occhi, gambe, braccia, che richiamano quelli delle vittime smembrate negli anni della violenza) e quando parte per New York, portando con sé alcune splendide bambole antiche, vede i doganieri trattarle come possibili contenitori di droga.

Le tracce di cinquant’anni di guerra, della violenza legata al narcotraffico, del ritorno a una precaria normalità segnano, come nei o rughe o ferite o punture d’insetto, l’epidermide delle protagoniste e la superficie dei racconti. Accenni inevitabili, sommessi, che si insinuano in storie di donne in movimento, convinte che la vita sia altrove, e che trasformano il loro va e vieni in una forma di resistenza alle convenzioni, come fa Mila, l’anziana vedova in viaggio verso il mare insieme al suo nuovo feticcio: un paio di forbici chirurgiche pronte a eliminare imperfezioni e pellicine, quasi un sostituto dell’amica estetista che la depila, estirpa calli e duroni, le dipinge le unghie, aiutandola a coltivare un’ultima e impossibile civetteria.

Ciascuna fugge o fa ritorno in una città di migranti, dove la guerra ha convogliato centinaia di migliaia di persone, e cerca di intrecciare con altre donne relazioni in cui trovano posto l’accudimento, la lotta, la trasformazione, la conquista di uno spazio, il riconoscimento reciproco; per questo, forse, l’autrice ha scelto di far transitare alcuni personaggi (compreso quello di una fiera cagnolina randagia) da un racconto all’altro, così da formare una sorta di costellazione o di rete che unisce ogni vita alle altre.

Dalla misteriosa bambina che mangia la terra dei vasi in Occasione, alla vecchia signora ostaggio della guerriglia che insegna a Marcela i nomi degli uccelli tropicali, fino alla ragazza tormentata da un’invasione di insetti mordaci, tutte sono in dialogo continuo col proprio corpo (e con quello delle altre donne), che sin dall’infanzia hanno imparato a considerare scomodo, insufficiente, “oggetto pubblico” sottoposto alla pressione sociale e al desiderio altrui, e del quale è fin troppo facile essere espropriate. Non è un caso, del resto, che in questo incrociarsi di voci la presenza e lo sguardo maschili siano quasi invisibili, solo vagamente evocati, ma non irrilevanti: proprio la loro sostanziale assenza sembra sottolineare quanto sia “interna”, nei racconti, la lettura del corpo femminile come luogo di censure, negazioni e dispute, ma anche come spazio di resistenza e di azzardi, deciso innanzitutto a non farsi divorare, perché, dice la protagonista di La donna più piccola del mondo di Clarice Lispector, “Non essere divorati è il sentimento più̀ perfetto. Non essere divorati è l’obiettivo segreto di tutta una vita”, c’è da stupirsi che Ospina abbia scelto questa frase come epigrafe per il suo libro?
 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2020