sabato 29 dicembre 2018

Anniversari e Addii: Osvaldo Bayer


Osvaldo Bayer



L’anarchico pacifista che se n’è andato alla vigilia di Natale

Il Natale non gli piaceva, non tollerava il consumo frenetico che lo accompagna, e inoltre era, da sempre, un ateo convinto. Forse per questo molti dei suoi amici hanno considerato una piccola ma significativa coincidenza il fatto che Osvaldo Bayer sia morto proprio il giorno della Vigilia, nella modesta casa di Buenos Aires (Osvaldo Soriano l’aveva ribattezzata El Tugurio), dove la sua famiglia si era trasferita nel 1935, quando lui aveva otto anni e si arrabbiava per le canzonature dei bambini con cui giocava a pallone.

Alemán, culo de pan!, così lo chiamavano, perché suo nonno Josef Georg Payr (un fabbro che, stufo di sentirsi storpiare il cognome, lo cambiò in Bayer, “come l’aspirina”) era emigrato dal Tirolo nella provincia di Santa Fe, dove nel febbraio del 1927 sarebbe nato Osvaldo, destinato a diventare uno degli intellettuali più singolari e amati non solo del suo paese, ma di tutta l’America latina.

Costringerlo nei panni troppo stretti di una qualsiasi definizione non è semplice, perché Bayer è stato molte cose insieme: uno storico laureato in Germania, che al suo ritorno in patria riuscì a portare alla luce vicende sanguinose e dimenticate come le stragi di anarchici e peones nella Patagonia degli anni ’20; un giornalista che, come i leggendari Rodolfo Walsh e Rogelio García Lupo, diede un senso nuovo alla professione e smascherò senza timore i regimi di turno; uno sceneggiatore di film memorabili; un insegnante, un traduttore, un romanziere (sia pure con un'unica opera, Rainer y Minou, tragica storia d’amore tra una ragazza ebrea e il figlio di un nazista), un commediografo, un appassionato tifoso del Rosario Central (sul calcio scrisse, nel 1990, il saggio Fútbol argentino), e perfino l’autore delle parole di tanghi come Severino, dedicato all’anarchico italiano giustiziato a Buenos Aires nel 1931.

Fu, soprattutto, un’ineguagliabile coscienza critica, un anarchico “pacifista a oltranza”, un difensore dei pueblos originarios e delle lotte operaie e contadine, un politico senza partito che dei partiti denunciò ogni bugia, ipocrisia e manchevolezza: considerava il peronismo “un sistema che cambiò tutto per non cambiare assolutamente nulla”, ai radicali non perdonò mai il massacro patagonico e la complicità con i latifondisti, ai Kirchner – pur riconoscendone i meriti riguardo alla memoria e ai diritti umani – rimproverò la mancata riforma agraria, lo scarso impegno nella lotta alla miseria, la corruzione diffusa, mentre della presidenza Macri sottolineò il terribile sapore di un “ritorno agli anni ’30”, a un passato oligarchico e autoritario aggiornato dall’adesione alla più estrema dottrina neoliberista (ma, al minimo sospetto di settarismo, nemmeno l’anarchia è stata esente dalle sue critiche).

I suoi libri, come La Patagonia rebelde, Severino di Giovanni, el idealista de la violencia, Los anarquistas expropriadores y otros ensayos, Rebeldia y esperanza, Qué debemos hacer los anarquistas? (l’ultimo saggio, uscito nel 2014), nascono da un accuratissimo lavoro di ricerca, analisi e documentazione, quanto da una coerenza senza cedimenti, da un’etica rigorosa, da una presenza combattiva e costante a favore di qualsiasi causa ritenesse giusta. E tutto questo Osvaldo Bayer l’ha pagato con soggiorni in galera, con la condanna a morte da parte della Triple A (l’Alianza Anticomunista Argentina, organizzazione paramilitare creata dall’uomo di fiducia di Perón, il piduista López Rega) e, dopo il colpo di stato dei generali, con un lungo esilio in Germania.

L’opera più importante di Osvaldo Bayer riguarda la lotta dei peones contro i latifondisti, quasi tutti inglesi, che in Patagonia avevano acquistato enormi estensioni di terreno. I lavoratori, costretti a vivere in condizioni miserabili, si organizzarono sotto la guida degli anarchici, in buona parte immigrati italiani e spagnoli, e nel 1920 proclamarono uno sciopero che, divenuto aperta ribellione e duramente represso dall’esercito, si concluse nel 1922 con il massacro di almeno millecinquecento persone. A questa epopea dimenticata, Bayer dedicò quattro volumi, usciti fra il 1972 e il 1975 e riuniti sotto il titolo di Los vengadores de la Patagonia trágica, poi sintetizzati nel 2001 in un unico testo, La Patagonia rebelde, pubblicato in Italia da Eleuthera nel 2010 a cura di Alberto Prunetti (il regista Héctor Olivera ne ha tratto un film, Orso d’Argento a Berlino nel 1974, mentre del 2013 è la versione teatrale dell’ultimo capitolo, intitolata Las putas de San Julián).

Non sarà inutile ricordare che la Patagonia ribelle di Bayer, rievocata a partire da una lunga e minuziosa investigazione condotta negli archivi e sul campo (l’autore visse diversi anni a Esquel, dove fondò anche un giornale, La Chispa) è ben diversa da quella di cui parla Bruce Chatwin nel suo In Patagonia, sofisticato libro sulle avventure di un esteta in cerca del bizzarro e del pittoresco. Non a caso Bayer aveva una pessima opinione di Chatwin, che considerava “un truffatore”, sia per le molte inesattezze e invenzioni contenute nel celebre resoconto di viaggio, sia per un punto di vista che giudicava “coloniale”, sia perché lo scrittore inglese aveva attinto con troppa abbondanza e pochi scrupoli alla vasta bibliografia fornitagli, durante un incontro a Buenos Aires, proprio dallo storico argentino. E l’antipatia era ricambiata: nel 1977 Chatwin scrisse un’acidissima recensione del libro di Bayer, definendolo “retorico e ideologico” e sostenendo, da fedele suddito di Sua Maestà, che la verità sulla lotta contro i “legittimi” proprietari terrieri inglesi e il successivo massacro era quella governativa, e che gli anarchici non erano veri sindacalisti, ma bohémiens arruffapopoli.

Durante la dittatura, La Patagonia rebelde e altri libri di Bayer finirono al rogo (“Bruciare i libri è come abusare dei bambini” commentò lui. “Una vigliaccheria, perché non possono difendersi”), mentre il film di Olivera, alla cui diffusione Perón aveva acconsentito di malavoglia e con qualche censura, venne messo al bando; solo dopo il 1983 gli uni e l’altro poterono circolare liberamente, proprio come il loro autore, che tornò in Argentina dopo aver trascorso in Europa gli otto anni più difficili della sua vita.

Da allora, e fino all’ultimo giorno della sua vita, Bayer ha continuato a lavorare, a scrivere, a viaggiare in tutto il paese battendosi per il diritto alla ribellione, per la giustizia sociale, per reclamare contro gli espropri e l’esclusione di cui i pueblos originarios sono vittime ancora oggi. Si è servito della Storia per cercare nel passato le radici dell’ingiustizia presente, e non è un caso se, negli infiniti omaggi a lui dedicati in questi giorni, tornano invariabilmente due parole: luchador e rebelde.

 

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano il manifesto nel dicembre del 2018


lunedì 24 dicembre 2018

Da leggere: Leonora Carrington

Leonora Carrington

 

Un’inglese in Messico: l’infanzia è uno stato d’animo

Il nome di Salvador Elizondo, il più originale e sofisticato tra gli scrittori messicani della sua generazione, è ancora oggi poco noto in Italia, nonostante il piccolo editore Liberaria abbia riproposto mesi fa un suo singolarissimo romanzo, Farabeuf, in una nuova e bella traduzione. Difficile, quindi, supporre che anche il lettore italiano più ostinato e curioso abbia avuto occasione di imbattersi in una delle riviste da lui fondate, S.NOB, vissuta solo dal giugno all’ottobre del 1962, ma abbastanza eterodossa da lasciare il segno (“uno sputo contro il tedio culturale degli anni ’60”, l’ha definita il romanziere Antonio Ortuño), grazie ai paradossi, agli sberleffi e allo humor nero prodotti dai suoi collaboratori, i più straordinari “ragazzi terribili” dell’epoca, come Álvaro Mutis, Jorge Ibargüengoitia, Alejandro Jodorowsky e Juan García Ponce.

Tra loro, con una rubrica tutta sua chiamata Children’s corner, c’era anche l’inglese Leonora Carrington, stabilitasi in Messico nel 1942, dopo essere scampata prima all’autorità di una famiglia ricchissima e conformista (a diciannove anni aveva seguito a Parigi il surrealista Max Ernst, assai più anziano di lei), poi al manicomio in cui l’avevano rinchiusa mentre fuggiva dall’occupazione tedesca, e infine a una lussuosa clinica per malattie mentali nel lontano Sudafrica, dove suo padre intendeva confinare la figlia “scandalosa”.

Pittrice e scultrice di grande talento, etichettata da sempre come surrealista (una definizione che le andava stretta, e che finì col rifiutare), autrice dell’incantevole romanzo Il cornetto acustico e del doloroso memoir Giù in basso, nonché di racconti visionari e macabri – la recentissima edizione italiana si intitola La debuttante –, Leonora Carrington trascorse in Messico buona parte della sua lunga vita e là si sposò con il fotografo ungherese Chiki Weiss, dal quale ebbe due figli. E proprio per Gabriel e Pablo, quando ancora non sapevano leggere, inventò, scrisse e illustrò una decina di storie, alcune delle quali comparvero poi in Children’s Corner, accompagnate da disegni in bianco e nero realizzati appositamente, invece che dalle immagini originarie, create anni prima e conservate in un album noto solo alla famiglia.

Quell’album, molto tempo dopo, Leonora lo regalò a un Alejandro Jodorowsky in partenza per Parigi, che lo conservò come una reliquia preziosa e dopo la morte della pittrice, nel 2011, lo restituì a uno dei suoi primi destinatari, Gabriel Weisz. A sua volta, Weisz lo passò al Fondo de Cultura Economica, storica casa editrice messicana, perché lo trasformasse in due libri bellissimi, usciti nel 2013 e intitolati entrambi Leche del sueño: uno, di grande formato, è un perfetto facsimile dell’originale, in cui appaiono la svelta calligrafia dell’autrice, le sue cancellature e perfino le macchie della carta; l’altro, quasi un tascabile, offre ai bambini di oggi una versione più nitida e ordinata del testo e delle illustrazioni. Riprendendo una definizione dello stesso Weisz, si potrebbe dire che il primo è un libro d’arte con l’aggiunta di storie, e il secondo un libro di storie con l’aggiunta di una buona dose d’arte.

È questa seconda versione “infantile” di Il latte del sogno (pag. 60, e. 15) che Adelphi, editore italiano di tutte le opere di Carrington, manda adesso in libreria nella traduzione di Livia Signorini, basata sull’edizione in inglese e non sullo spagnolo incerto e un po’ sgrammaticato dell’album, legato a un uso prettamente domestico e familiare. Anche se non possiede le suggestioni del facsimile, così evocativo e personale, il libro offre ai bambini e agli adulti molteplici occasioni di lettura, in cui a volte è il testo a prevalere sulle immagini, tracciate in punta di penna con inchiostro seppia, e a volte è l’immagine a proporsi quale racconto suscettibile di ulteriori invenzioni ed elaborazioni, come nel caso del señor Baffo Baffuto, un Giano con due facce che divora mosche, della sua orrenda figlioletta bifronte che mangia ragni, e di una filiforme consorte sempre a testa in giù, senza braccia e con due minuscole ali da cherubino.

Proprio come nei suoi tenebrosi racconti per adulti, anche in quelli per bambini Carrington scatena un popolo di ibridi e mostri, di creature composite e grottesche alla Hieronymus Bosch, imparentate con miti e leggende provenienti da varie culture (da quella celtica, che segnò la sua infanzia, a quella maya), ma li usa solo per suscitare risate e stupore. Quando non si limitano a esibire la loro affascinante stranezza, come in La storia nera della donna bianca, in cui una signora dal ricco abito color carbone (“neri i pigiami e pure il sapone”) piange lacrime verdi e blu simili a pappagallini, i personaggi vivono avventure di assoluta stravaganza, allegramente crudeli, dove le metamorfosi più drastiche avvengono con perfetta naturalezza e si esplorano senza timore differenze e paure, tra rose spalmate di carne di capra, intingoli disgustosi e parlanti, avvoltoi in gelatina, bambini che hanno una casa in miniatura al posto della testa, o vengono morsi dai buchi del divano, o sono decapitati da una strega e ricomposti da un indio sciocco che incolla le teste nei punti sbagliati, dalle natiche alla pianta del piede.

Chi conosce la pittura e la scultura di Leonora Carrington, o i suoi scritti, scoprirà che queste storie (da leggere ad alta voce, da guardare, da completare o da continuare) sono un coerente prolungamento della sua opera, fondata su un immaginario sfaccettato e inesauribile che ci interpella di continuo con voci diverse e inaspettate, aprendo sempre nuove porte sull’incubo, sul sogno, su quello che il sipario della realtà ci nasconde e la voce della ragione rifiuta di dirci. Come in Alice, i bambini di Il latte del sogno sono impavidamente pronti a “credere fino a sei cose impossibili prima di colazione”, e, decisi a fare e disfare il mondo (proprio come Leonora, a suo tempo bambina furiosamente ribelle), ricorrono talvolta all’aiuto di adulti che sanno stare al gioco (proprio come Leonora, madre favolosamente eccentrica, che la ribellione intendeva coltivarla e trasmetterla).

“Credo che nessuno di noi possa sfuggire alla propria infanzia”, ha detto Carrington in una delle sue ultime interviste, e, attraverso ogni più piccola manifestazione della sua arte, ha voluto ricordarci che, al di là di ogni stereotipo, l’infanzia è uno stato d’animo, un prezioso serbatoio al quale si può attingere fino alla fine.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2018

venerdì 21 dicembre 2018

Da leggere: Leonora Carrington


Leonora Carrington



Un’inglese in Messico: la vita straordinaria di Leonora Carrington

Quando, negli anni ’50, qualcuno chiese a Leonora Carrington se esisteva un momento storico che apprezzasse in modo particolare, rispose: “Quasi nessuno, o forse sì. C’è un momento storico che mi piace. Per esempio la Caduta del Patriarcato, che accadrà nel XXI secolo”. Morta a Città del Messico nel 2011, l’artista anglo-messicana ha avuto il tempo di constatare che, almeno in questo inizio secolo, il patriarcato gode ancora di ottima salute. Lei, però, nel corso dei suoi novantaquattro anni di vita l’ha combattuto a ogni istante, già molto tempo prima di contribuire alla fondazione del Movimiento de Liberación de la Mujer messicano: sin dall’infanzia trascorsa nel Lancashire, dov’era nata in una ricca famiglia di industriali, la sua rivolta contro i tradizionali ruoli femminili era stata clamorosa e assoluta.

Tanto il padre, il potente Harold Carrington, primo azionista della Imperial Chemical Industries, quanto la madre Maurie, che, secondo l’uso dell’epoca, demandava la cura della prole alla servitù, non riuscirono mai a domare la loro secondogenita, ben più “virile” dei tre figli maschi: Leonora, detta Prim, era una bambina audace e insubordinata, la cui immaginazione si nutriva di fiabe e leggende celtiche narrate dalla nanny irlandese, e ingaggiò con i genitori una guerra all’ultimo sangue. Espulsa da collegi religiosi via via più rigidi, sgradita ospite dell’elegante istituto di Miss Penrose, a Firenze, e infelicemente presentata a Corte in un sontuoso abito di raso, nel 1936 la diciannovenne Leonora riuscì infine a frequentare l’accademia d’arte del “purista” Amédée Ozenfant e, conosciuto Max Ernst durante un omaggio londinese al già celebre pittore, fuggì con lui a Parigi.

Grazie al tuffo senza rete nell’universo surrealista, in cui Ernst l’aveva introdotta, Leonora conquistò davvero la libertà così furiosamente desiderata? Non proprio: il gruppo che ruotava intorno ad André Breton aveva in serbo per le donne altri ruoli codificati, altri stereotipi. Whitney Chadwick, autrice di Mirror Images: Women Surrealism, and Self-Representation, nonché di Leonora Carrington: la realidad de la imaginacion, fa notare che “nessun movimento artistico, a partire dal Romanticismo, ha elevato la donna a un ruolo altrettanto centrale nella vita creativa dell’uomo, come ha fatto il surrealismo”, ma si affretta a sottolineare che i surrealisti la consideravano una pura proiezione del desiderio maschile: musa, femme fatale e oggetto erotico, oppure femme-enfant tutta istinto, tramite ideale con l’irrazionale, l’occulto, il sogno.

Molti anni dopo, Carrington confesserà: “André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti, ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli”. E ancora: “Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena per gli uomini surrealisti”. Ma era proprio un perfetto esemplare di femme-enfant che Ernst vedeva in Leonora, tanto da descriverla così nella prefazione a La Dame Ovale: ecco la “sposina del vento”, una bambina che non ha letto nulla, che addirittura non sa leggere, eppure siede, con un libro in mano, tra animali che le si avvicinano senza timore. E se contro la propria famiglia Leonora si era rivoltata con la rabbia cieca che nasce dalla disparità di forze e dall’impotenza infantile, la ribellione nei confronti del nuovo “padre” (Ernst aveva quasi trent’anni più di lei, e fama e prestigio gli conferivano un solido ascendente) fu rallentata dai mille lacci dell’amour-passion e dal timore dell’abbandono, poiché l’amante era ancora sposato con Marie-Berthe Aurenche, fragile e bigotta, che, nonostante Max e Leonora convivessero in una casetta nel sud della Francia, a Saint-Martin-de-Ardèche, continuava a reclamare il ritorno del marito.

Eppure le tracce di una crescente consapevolezza e l’affiorare del rigetto verso il ruolo che le era stato assegnato (“Non avevo tempo per essere la musa di nessuno. Ero troppo occupata a ribellarmi alla mia famiglia e a imparare a essere un’artista”, dirà), si avvertono con chiarezza nei racconti che Leonora aveva cominciato a scrivere proprio a Saint-Martin, “paternamente incoraggiata” da Ernst: una produzione esigua, quella letteraria, se la si paragona alla mole di dipinti, sculture, tessuti, oggetti, gioielli, creati nel corso di una vita lunghissima. Raccolte per la prima volta nel 2017 in The Complete Stories of Leonora Carrington dalla Dorothy Publishing Project (una piccola casa editrice americana che pubblica solo testi scritti da donne), le venticinque short stories appaiono ora in italiano presso Adelphi (La debuttante, pag. 179, e. 17, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini), ed è probabile che quelle prodotte negli anni ’30 riserveranno qualche sorpresa perfino agli appassionati lettori di The Hearing Trumpet (Il cornetto acustico, Adelphi 1984), scritto in Messico quando l’autrice era ormai sulla quarantina. A differenza dei racconti databili fra il 1937 e il 1940, Il cornetto acustico è, infatti, frutto di un sostanziale superamento del surrealismo, come dichiarò Carrington a Silvia Cherem: “Anche se le idee dei surrealisti mi attiravano, non mi piace che oggi mi classifichino come surrealista. Preferisco essere femminista. (…) Inoltre il mio orologio non si è fermato in quel momento, sono vissuta solo tre anni con Ernst e non mi va che mi costringano nel ruolo di stupida. Non sono vissuta sotto l’incantesimo di Ernst: sono nata con la mia vocazione e le mie opere sono soltanto mie”.

E’ piuttosto nei racconti appartenenti alla sua “seconda vita” che si intravedono punti di contatto con il romanzo, traboccante di umorismo, di allusioni alla mitologia celtica ed egiziana, di incantesimi e leggende, rituali segreti e bric-à-brac alchemici. Attraverso la vicende di due eccentriche vegliarde, Il cornetto acustico narra il ritorno a un universo retto da un principio femminile (la Grande Madre in tutte le sue incarnazioni, la Dea Bianca di Robert Graves, la cui lettura aveva avuto tanta importanza per Leonora), ed è allo stesso tempo una celebrazione dell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo: uno di quegli insostituibili legami tra donne fondati non solo sull’affinità e l’affetto, ma sul riconoscimento della rispettiva autorevolezza, che, secondo la storica dell’arte Linda Nochlin, permise a ciascuna di “trovare sé stessa”, ma di farlo “insieme”.

Prima di poter scrivere un testo così ricco e profondo e al tempo stesso ilare e lieve, Carrington visse una vera e propria discesa agli inferi: la seconda guerra mondiale, l’internamento dell’ebreo Ernst in campo di concentramento, un folle viaggio senza di lui attraverso la Spagna, dove la longa manus della famiglia la raggiunse, trascinandola, sedata e quasi incosciente, in una clinica per malattie mentali di Santander, in cui trascorse mesi atroci e fu sottoposta a trattamenti inumani (un’esperienza rievocata nel breve e terribile Down Below, apparso in italiano col titolo Giù in fondo, Adelphi 1979). Solo grazie al matrimonio di convenienza con il poeta e diplomatico messicano Renato Leduc, che le permise di lasciare l’Europa in guerra e di evitare la partenza per il Sudafrica, dove i Carrington intendevano rinchiuderla definitivamente in manicomio, Leonora approdò a quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, il Messico, e là incontrò qualcuno che aveva alle spalle un inferno anche peggiore del suo: Chiki Weiss, fotografo ungherese di poverissima famiglia ebrea, cresciuto in orfanotrofio, scampato al lager tedesco e fuggito a piedi attraverso l’Europa, amico fraterno di Robert Capa, nonché colui che aveva messo al sicuro i negativi di Capa e Gerda Taro contenuti nella famosa maleta mexicana. Non le chiedeva, Chiki, di essere altro che sé stessa, non le era padre ma compagno, riconosceva il suo diritto di vivere a modo proprio, e insieme ebbero due figli amatissimi: il matrimonio durò sessantaquattro anni, anche se ciascuno fece i conti sino alla fine con le proprie cicatrici.

Leonora, dunque, era stata una bambina furibonda, una ragazza ribelle, una musa riluttante, una prigioniera dell’istituzione psichiatrica, per poi rinascere a nuova vita, dopo la morte simbolica provocata dal Cardiazol e la fine del rapporto con Ernst. Ma non si era mai piegata a niente e a nessuno, e, sentendosi “l’autrice di un’altra realtà” più che una surrealista, aveva cominciato a lavorare su un immaginario femminile e femminista, sul rapporto tra le donne e i segreti perduti che desiderava recuperare e a proposito dei quali scrisse, nel ’76: “Le donne non dovrebbero reclamare i loro Diritti. I Diritti erano lì sin dal principio, quello che dobbiamo fare è Recuperarli di Nuovo, includendo i misteri che ci appartenevano e che furono violati, rubati o distrutti, lasciandoci con l’ingrato compito di compiacere il maschio della nostra specie”.

I suoi scritti, spesso “a chiave” e ispirati a quel che le accadeva o alle persone che incontrava, amava, odiava, si popolano di personaggi femminili così decisi a conquistare o salvaguardare l’indipendenza, da pagare volentieri il prezzo dell’isolamento e del rifiuto, o da affrontare la morte. I primi racconti si rifanno ai ricordi d’infanzia e adolescenza, e sono una feroce parodia dell’alta società inglese, oltre che una sorta di allegorica vendetta nei confronti dei genitori. In La dama ovale assistiamo alla metamorfosi della giovane Lucrezia, che in forma di cavallo si rotola nella neve, e alla messa in scena della rottura con un padre crudele, ma anche di quella con Ernst: entrambi tentano di “contenere” la fanciulla artista, uno attraverso rigide norme sociali, l’altro rinchiudendola nel ruolo di musa, o di bambina da manipolare con l’offerta di una libertà illusoria.

In La debuttante, Leonora esibisce il suo rifiuto per l’imposizione dei canoni di una femminilità “accettabile”: al ballo organizzato in suo onore viene sostituita da una iena, che ne indossa gli abiti e nasconde il muso sotto il volto di una domestica uccisa e sbranata per l’occasione. Macabra e sinistramente umoristica, la storia esprime anche un’estraneità profonda, che oppone alla “civiltà delle buone maniere” l’irruzione di un elemento selvaggio e incontrollabile, espresso dal tremendo odore della iena, pronta a fuggire dalla finestra dopo aver divorato la faccia-maschera. Esiste un autoritratto del 1938, oggi al Metropolitan Museum, in cui La dama ovale e La debuttante sembrano incrociarsi: davanti a una Leonora dalla chioma indomabile e dall’aspetto androgino sta una iena che espone mammelle esageratamente femminili, quale provocatorio insulto al “buon gusto”; in alto, appeso alla parete, l’amato cavallo a dondolo che, nel racconto, il padre di Lucrezia brucia senza pietà, mentre all’esterno, inquadrato dalle tende dorate di una finestra, un cavallo bianco corre libero, senza briglie né sella.

L’ordine reale e Zio Sam Carrington sono due autentici sberleffi, uno al potere esercitato con un’assenza di scrupoli che sfocia in un cruento e comico regicidio, e l’altro all’ipocrisia della buona società, con due impeccabili zitellone pronte a eliminare i parenti impresentabili della gente comme il faut. Vola, piccione!, Le sorelle o Il settimo cavallo sono invece visioni oniriche riferibili al rapporto con Max Ernst, in cui le protagoniste si ritrovano chiuse in un mondo claustrofobico e spesso nascondono la loro autentica personalità per compiacere un personaggio maschile più anziano, riflettendo le sensazioni della Leonora reale; in Le sorelle, per esempio, Drusilla, innamorata alla follia dell’ex re Jumart, tiene prigioniera la sorella Juniper, candida vampira alata che però riesce a fuggire: e mentre Drusilla è stretta tra le braccia di Jumart (la cui testa è ornata, in modo più che significativo, dalla carcassa di un pavone), Juniper banchetta col sangue di una serva e poi vola nel cielo notturno, verso la luna… Nel delirante, sensuale e fiabesco “Mentre andavano lungo il margine” si percepisce invece l’eco del timore di perdere l’amante, e la femminilità sfrenata di Virginia Fur, “donna selvatica”, quasi una dea della natura che cavalca con perizia un’enorme ruota, seguita da un corteggio di animali, infuria contro un trasparente alter ego di Marie-Berthe. Ed è in “Un uomo innamorato” che possiamo trovare una spietata presa in giro del maschilismo surrealista: le due donne della storia – una ladra di meloni e una moglie che si consuma in una sorta di animazione sospesa – sono ridotte al silenzio, la prima in quanto ascoltatrice coatta, la seconda in qualità di cadavere vivente, vittima della cecità e del letale talento del marito.

In Il settimo cavallo, del 1940, l’animale totem di Leonora, simbolo di libertà, sensualità e forza, appare per l’ultima volta, e con esso scompaiono per sempre la femme-enfant e il suo latente desiderio di fuga: a prenderne il posto è la donna artista, che ha sciolto il legame tra il suo nome e quella di Ernst. Una rinuncia al passato che in “L’attesa”, scritto, come Il settimo cavallo, nel periodo trascorso a New York prima del trasferimento in Messico, quando la coppia Carrington-Leduc si incontrò con quella formata da Ernst e Peggy Guggenheim, viene ammessa e dolorosamente accettata (il passato può morire, dice nel racconto Margaret/Leonora, “se il presente gli taglia la gola”).

I racconti “messicani”, come Le mie mutande di flanella, Un uomo neutro, Mia madre è una vacca, Una favola messicana e pochi altri, mostrano come la cultura mesoamericana abbia arricchito Leonora, contribuendo alla nascita di una mitologia personale fitta di simboli arcani, già favorita da un forte interesse per l’alchimia e dall’inestinguibile impronta celtica. Carrington continua a scrivere storie in cui animali, creature fantastiche, mostri e spettri (tra i suoi autori preferiti c’era, non a caso, Montague Rhodes James) convivono con gli esseri umani, la realtà è capricciosamente mutevole, la natura enigmatica, densa di meraviglie e a volte minacciosa: racconti ancora pieni di ombre, di personaggi con un’identità ibrida, di provocazioni, della presenza frequente e quasi amichevole della morte, ma resi meno foschi da un’accentuata ironia e dall’esercizio di una comicità inequivocabile.

Sempre concisa, spesso violenta e poetica, basata su libere associazioni di immagini, la prosa di Carrington sostiene a perfezione storie che sfidano la logica e le strutture convenzionali del narrare, che non si curano di arrivare a una conclusione e sciorinano un patrimonio di citazioni pittoriche e letterarie, da Alice all’antichissima collazione di enigmi e parabole contenuti nelle Venticinque storie dello spettro del cadavere della tradizione indiana. L’accostamento che viene spontaneo, leggendo queste short stories mai veramente prese in considerazione dalla critica (forse spiazzata dalla lingua irregolare e dalla ruvidezza della scrittura), è quello con un autore che probabilmente Leonora Carrington non ha mai conosciuto né letto, ossia Juan Rodolfo Wilcock (del quale, certo, non possedeva la perfezione di stile e linguaggio) ma anche con Marosa di Giorgio, grande poetessa uruguayana creatrice di ibridi e mostri. La tardiva apparizione di questo corpus sorprendente – da leggersi avendo sott’occhio i quadri di Carrington, per la quale raccontare dipingendo o scrivendo era quasi la stessa cosa – potrà forse attirare la dovuta attenzione su una delle più straordinarie e insolite artiste vissute a cavallo degli ultimi due secoli, ampiamente rivalutata, finora, solo come pittrice e scultrice.

Peccato, però, che l’edizione Adelphi non contenga alcune informazioni che avrebbero interessato i lettori: sorvola, per esempio, sul fatto che Leonora scrisse alcuni dei suoi racconti in inglese, altri in francese, lingua comune tra lei e Ernst, altri ancora in spagnolo, e che i testi in queste due ultime lingue contengono errori di ortografia e sintassi, ognuno dei quali aggiunge sapore a storie già di per sé stravaganti (e infatti Henri Parisot, suo primo editore, si guardò bene dal correggerli). Non vengono neppure segnalate la datazione dei racconti (tre dei quali inediti) e il fatto che i cinque raccolti nella plaquette La dame ovale (Editions GLM, 1939) fossero illustrati dai collages di Ernst, il che inserisce il libriccino in una pratica estetica cara ai surrealisti, quella della collaborazione interartistica. Sono proprio i collages a permetterci di misurare ancora una volta la natura della relazione tra Ernst e Leonora: nessuna delle immagini ha il minimo rapporto con i racconti, ma rinvia ad altre opere del pittore, e questo totale scollamento tra segno e scrittura, forse voluto, forse casuale, non può non apparire come una manifestazione di affettuosa condiscendenza da parte del maturo mentore verso la sua incantevole femme-enfant. Quando si ritrovarono, prima a Lisbona e poi a New York, si sa che Ernst chiese a Leonora di restare con lui, ma inutilmente: lei si disponeva ormai a vivere un’altra vita, in un paese che l’avrebbe adorata, dipingendo instancabilmente e sognando “di vivere almeno fino a cinquecento anni, e poi morire per evaporazione”.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta 2 nel dicembre del 2018