lunedì 17 settembre 2018

Da leggere: Andrés Barba

Andrés Barba


L’infanzia, un mondo “altro”

“Quando mi chiedono dei trentadue bambini che hanno perso la vita a San Cristóbal la mia risposta varia a seconda dell’età dell’interlocutore. Se è mio coetaneo rispondo che comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto soltanto in modo frammentario, se è più giovane gli chiedo se crede o no nei cattivi presagi. Mi rispondono quasi sempre di no, come se crederci equivalesse a nutrire poca stima nella libertà. A quel punto non faccio altre domande e racconto la mia versione dei fatti, perché è l’unica cosa che posso fare e perché sarebbe inutile convincerli che qui non si tratta tanto di apprezzare la libertà quanto di non credere ingenuamente nella giustizia”.

Così, rivelando sin dalla prima riga il terribile dénouement del suo nuovo romanzo, Repubblica luminosa (La nave di Teseo, pag. 188 e. 18, traduzione di Pino Cacucci), Andrés Barba si libera, come lui stesso ha sottolineato, “della tirannia della trama”, e preannuncia l’andamento falsamente cronachistico della narrazione, concepita abilmente come un puzzle con troppi pezzi mancanti (domande senza risposta, ipotesi non verificate, misteri irrisolti) che gli impediscono di arrivare a una forma definitiva. L’incipit conferma, inoltre, anche il ritorno del madrileno Barba – romanziere, saggista, poeta, traduttore e, a poco più di quarant’anni, uno dei migliori esponenti della letteratura spagnola ed europea di oggi – a un tema che gli è specialmente congeniale, ovvero l’infanzia e l’adolescenza, età di passaggio e di trasformazione, già affrontate in modi differenti, nell’ipnotico Piccole mani (Atmosphere, 2011), in La sorella di Katia (Instar libri 2005), e in Agosto, ottobre, pubblicato da Mondadori nel 2010.

Vincitore nel 2017 del Premio Herralde de Novela, Repubblica luminosa potrebbe far parte della vasta letteratura e filmografia sull’alterità di un’infanzia selvaggia, inconoscibile, aliena: sarebbe però riduttivo paragonare il romanzo – che pure racconta di una torma di bambini fra i nove e tredici anni, apparsi dal nulla e capaci di tenere in scacco, a metà degli anni Novanta, i duecentomila abitanti di un’immaginaria cittadina tropicale – a The Lord of the Flies di William Golding, a The Midwich Cuckoos di John Wyndham, a The Children of the Corn di Stephen King, ai perversi cuginetti di Casa de Campo di José Donoso, o alle tante storie di enfants sauvages allevati dagli animali.

Non solo i punti di riferimento dichiarati dall’autore sono altri (Conrad e il suo Cuore di tenebra, la trilogia di Maeterlinck sugli insetti e poi The Children of Leningradsky, documentario del 2004 di Andrzej Celiński e Hanna Polak sui bambini che vivono nel metrò di Mosca, o semplicemente la realtà delle bande di ragazzi di strada nelle metropoli di varie parti del mondo), ma le questioni poste dal romanzo vanno ben oltre la rivisitazione di un mito minaccioso, specularmente opposto a quello della fragile “età dell’innocenza” che ancora oggi abita, con mille varianti, l’immaginario collettivo: l’uno e l’altro invenzioni culturali che “potrebbero costituire un eccellente test proiettivo del sistema di valori e delle aspirazioni di una società”, scriveva nel 1971 Marie-José Chombart de Lauwe in Un mond autre: l’enfance.

Repubblica luminosa è un romanzo indiscutibilmente politico su una comunità infantile portatrice di una sorta di utopia anarchica, sottratta al controllo e agli stereotipi degli adulti, che rifiuta di farsi addomesticare e semina il panico in una città stretta tra la selva e l’immenso fiume Eré: la torpida San Cristobal, appena approdata a un tranquillo benessere, governata da una classe media che si prende cura dei propri figli e non fa caso alla educata miseria dei piccoli indios ñeê, che vendono orchidee e limoni lungo le strade. Anche i trentadue bambini sono poveri, ma qualcosa li rende irreparabilmente diversi: chiedono, esigono, si prendono quello di cui hanno bisogno, parlano una lingua nuova (a stento decifrata solo da Teresa, ragazzina borghese incantata dal fascino di questi “pifferai”, che verranno presto raggiunti da altri bambini della città), ignorano capi e gerarchie, arrivano a uccidere durante un saccheggio, come trascinati dal piacere di un gioco incomprensibile.

Il rifiuto dell’autorità, la capacità di organizzarsi in modo antagonista e di creare un gruppo sociale in cui “nessuno comanda”, la rapidità con cui appaiono e spariscono, si mostrano e si nascondono, e soprattutto il loro potere di attrazione, che ipnotizza e affascina i coetanei, fanno sì che la città smetta rapidamente di considerarli “soltanto bambini”: diventeranno fin troppo in fretta prede da torturare per ottenere informazioni (è la sorte dell’unico ragazzino catturato) e a cui dare la caccia nella foresta e nel sottosuolo, dove il gruppo ha occupato un’enorme sala all’incrocio tra i condotti fognari, ricoprendola con un mosaico di vetri, latta, plastica, un’opera d’arte che brilla meravigliosamente quando la luce penetra dai tombini.

È solo dopo vent’anni che un narratore di cui non sappiamo il nome, che ha rivestito una carica ufficiale e preso parte alla caccia, prova a ricostruire quella storia, che ha indotto i “bravi cittadini” e lui stesso, uomo non privo di senso etico e morale, a elaborare strategie violente e autogiustificazioni dissennate. Se ci sono riusciti, è perché quelli non erano i “loro” bambini, o i quasi invisibili ñeê, ma “i trentadue”: un minimo spostamento semantico che ha trasformato i membri del gruppo in usurpatori capaci di scardinare valori e certezze, mostrando come il mondo ordinato della città non sia l’unico possibile, e come basti poco a sovvertirlo e gettarlo nel caos. Per tornare a essere soltanto bambini, gli invasori dovranno morire travolti dal fiume, mentre cercano di sfuggire ai “cacciatori”, e l’ipocrisia cittadina, oltre a dedicare loro una statua di pessimo gusto, si sforzerà di identificarli e di rintracciare le famiglie da tempo abbandonate: un altro modo, in fondo, di ristabilire l’ordine e rassicurare sé stessi.

Una storia, quella di Repubblica luminosa, che potrebbe accadere e forse accade in molti luoghi, per la quale Barba ha scelto la forma della cronaca e una prosa misuratissima, sommessa e riflessiva, in cui esplodono a tratti scorci di paesaggio dai colori sontuosi, istantanee di volti e di gesti, indimenticabili lampi descrittivi: un cadaverino sepolto in posizione fetale e confortato da offerte di cibo e giocattoli; lo sguardo inquisitivo di un ragazzo sulla donna che ha appena accoltellato a morte; le impronte lasciate da piccoli corpi su giacigli improvvisati. Il narratore (che accenna discreto e malinconico ad affetti, delusioni, perdite, e alla propria rassegnata acquiescenza e viltà) riporta via via ciò che sul caso è stato detto, filmato, scritto da autorità, giornalisti e ricercatori, cita documenti, inserisce brani del diario di Teresa, cuce il tutto con ricordi personali e domande, costruisce a poco a poco un crescendo che irretisce il lettore. Nell’assoluto rigore della scrittura, in apparenza così naturale e in realtà molto sorvegliata, affiorano tocchi di un “gotico tropicale” che non cancella l’effetto realistico attentamente cercato dall’autore, anzi lo sottolinea, e l’essenziale brevità del romanzo contribuisce in modo determinante alla sua riuscita.

 

 

Una versione abbreviata di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018

domenica 9 settembre 2018

Da leggere: Eduardo Mendoza


Eduardo Mendoza



La Storia al servizio delle storie

Un giornalista di nome Rufo Batalla, uomo mediocre, abulico ed egoista, proiettato da una Spagna prigioniera della decrepitezza di Franco in una tumultuosa New York, alla fine degli anni ’60: ecco il protagonista di El rey recibe (Seix Barral, pag. 368, e. 29,51) l’opera più recente di Eduardo Mendoza, da pochi giorni nelle librerie spagnole. Primo volume dell’annunciata trilogia Las tres leyes del movimiento, il libro è un labirintico affresco del periodo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, che attraverso lo sguardo dell’attonito Batalla racconta le contraddizioni della società nordamericana, i cambiamenti politici, l’affacciarsi di nuove forme di espressione e di nuovi fenomeni sociali, il tutto movimentato dal surreale incontro con il pretendente al trono di Livonia, ignorato territorio baltico impermeabile alle avances del cristianesimo e dedito all’esercizio di un tranquillo cannibalismo. Un romanzo in puro stile Mendoza, insomma, con innumerevoli personaggi, trame intricate e divagazioni che innestano nuove storie su quelle principali, una cura straordinaria per il linguaggio e soprattutto un umorismo irriverente e paradossale che è tra le caratteristiche più spiccate dell’autore e che gli consente di leggere il mondo con contenuta e saggia disillusione.

Appena conclusa la presentazione dell’ultimo romanzo alla stampa spagnola, Mendoza (Premio Cervantes nel 2017 e scrittore di grande e indiscusso prestigio) sta per presentarne un altro, finalmente tradotto nonostante risalga al 2010, ai lettori del Festivaletteratura di Mantova, dove sabato sera parlerà con Giancarlo De Cataldo di Città sospesa. Madrid 1936 (DeA Planeta Libri, pag. 472, traduzione di Francesca Pe’), vincitore a suo tempo del Premio Planeta e che in italiano ha dovuto necessariamente cambiare titolo. Quello originale, Riña de gatos, ovvero “zuffa di gatti”, rimanda infatti a un cartone eseguito da Goya per un arazzo, in cui si vedono due furibondi felini che si affrontano in cima a un muretto: e quei gatos (antico soprannome dei madrileni) che stanno per darsi battaglia, rappresentano in questo caso i partigiani del governo nato dal trionfo elettorale del Frente Popular e coloro che invece aderiscono alla Falange fondata da José Antonio Primo de Rivera.

La terribile zuffa è l’immediato preludio allo scontro che sta per travolgere la Repubblica spagnola, come avverte quel “Madrid 1936” che completa il titolo, dandoci la certezza di trovarci davanti all’ennesimo frutto della sterminata letteratura sulla guerra civile spagnola: un romanzo storico sui giorni convulsi che precedettero il colpo di stato di Francisco Franco. Bastano poche pagine, però, per rendersi conto che la scelta di Mendoza è la stessa che nel 1975 segnò il suo magistrale debutto con La verità sul caso Savolta (Feltrinelli, 1995) – un’opera che secondo Javier Marìas “ha insegnato alla maggioranza dei romanzieri venuti in seguito che cosa significava scrivere con libertà” –, ovvero quella di affrontare l’argomento in un modo che si potrebbe definire “laterale”, insinuando nel flusso della Storia personaggi al margine, estranei al contesto in cui si muovono, inconsapevoli e confusi,  prigionieri delle loro piccole storie perfino quando il caso o il destino li trasformano in protagonisti di vicende più grandi.

È quel che accade, per esempio, a Suor Consuelo in Gli anni del diluvio, incantevole romanzo del 1992, o a Onofre Bouvila, rustico zappaterra catalano che diventa un ricchissimo magnate grazie all’astuzia e al delitto, nello splendido La città dei prodigi (1986), forse il più bel romanzo mai scritto su Barcellona, dove Mendoza è nato nel 1943. Ed è quel che accade, soprattutto, all’inglese ed esperto di arte spagnola del Siglo de Oro Anthony Whitelands, straniero chiamato in Spagna per valutare la collezione d’arte di un gioviale duca che vorrebbe venderla clandestinamente, in vista di una probabile “rivoluzione” e del conseguente espatrio. Uomo convenzionale e un po’ sprovveduto, studioso competente dalle speranze sempre deluse, incerto e timoroso dongiovanni, Whitelands possiede tutte le caratteristiche di un “innocente all’estero” che non intende immischiarsi nelle vicende interne di una nazione travagliata, ma che diventa l’ignara pedina di un gioco imperniato sulla ricerca di un leggendario Velazquez, muovendosi (o, più di frequente, venendo mosso) fra trame politiche e diplomatiche di cui nulla sa e nulla capisce, come il detective inglese che in La novela número 13 di Wenceslao Fernández Flórezdel 1942, si occupa stolidamente della ricerca di un cavallo da corsa perduto nella Spagna repubblicana.

Con l’abilità di un narratore onnisciente e distaccato che, grazie a un collaudatissimo mestiere, è capace di tenere insieme tutti i fili di un racconto complesso, in cui trovano posto anche deliziosi excursus sulla storia dell’arte, Mendoza fa muovere un’esuberante e ben caratterizzata folla di personaggi in una Madrid disegnata strada per strada, con una minuziosa fedeltà che si estende anche al linguaggio, ricco di espressioni locali e d’epoca: comunisti, anarchici, falangisti, fascisti, diplomatici, aristocratici, spie sovietiche, gendarmi, soavi prostitute, giovani marchese caustiche e capricciose, mescolati a personaggi reali come José Antonio Primo de Rivera, dandy sentimentale e vanitoso (più un memo – ossia uno stupido –  che un fanatico, spogliato da Mendoza di ogni aura mitica), e poi Franco con il suo contorno di spietati generali, e Manuel Azaña, ultimo e sconfortato presidente della Seconda Repubblica Spagnola.

Il risultato è una narrazione colta e appassionante, piena di colpi di scena e di avventure, punteggiata da materiali diversi (lettere, articoli di giornale, schede segnaletiche), che rivisita e manipola più generi (la spy story, il romanzo storico e quello sentimentale, il feuilleton che “aggancia” ogni capitolo al seguente, e soprattutto il giallo, nel quale Mendoza è maestro, come dimostrano i suoi polizieschi imperniati su Ceferino, investigatore lumpen a lungo confinato in manicomio e poi avviato alla professione di parrucchiere per signora), facendo uso di un umorismo scintillante e sottile, del grottesco, della parodia o di un’immediata comicità.

Per lo scrittore argentino Rodrigo Fresán, che di Mendoza è ammiratore entusiasta e che lo accosta per più ragioni (tra cui la levità, l’ironia e il desiderio di intrattenere) a Adolfo Bioy Casares, Città sospesa, Madrid 1936 è “una sorta di pazzo vaudeville e di poliziesco stravagante, adatto a ogni nazionalità e interesse”. Non si può negare, tuttavia, che al di là della superficie brillante e dell’intreccio avvincente, la visione di Mendoza sia improntata a un pessimismo consapevole e profondo, che l’umorismo può temperare, senza negarlo o nasconderlo. Per capirlo davvero il lettore dovrà arrivare alle ultime righe, quelle in cui, parlando del quadro Las meninas, Whitelands lo descrive come una scena quotidiana in cui appaiono bambine, serve, nani, animali e il pittore stesso, ma, nello sfondo, le immagini dei sovrani riflesse nello specchio ci ricordano l’esistenza di un potere che, inavvertito e quasi invisibile, controlla ogni cosa.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018


Da leggere: Eduardo Mendoza

Eduardo Mendoza



Che cosa succede in Catalogna?

“Nel bene e nel male, sono un uomo privo di fede. Voglio credere di avere dei principii, ma non credo in nessuna religione e in nessuna patria. Ho sempre fatto in modo di vivere fuori dal mio paese. E quando finalmente riesco a mettere radici in una nuova casa, ne cerco un'altra dove trasferirmi. Mi piace essere straniero e credo di essere libero dal condizionamento della nostalgia. Se ora ho votato contro l'indipendenza, non l'ho fatto per patriottismo né mosso da lacrimoso sentimentalismo. Semplicemente, ho votato contro perché credo che l'indipendenza non sarebbe una buona cosa per i catalani”.

Così, nel settembre del 2015, Eduardo Mendoza parlava al pubblico dell’Hay Festival di Segovia a proposito delle elezioni anticipate in Catalogna, trasformate in una sorta di referendum per l’indipendenza. Da allora molte cose sono cambiate, e non in meglio, tanto che Mendoza, scrittore barcellonese che ha organizzato buona parte della propria opera intorno alla propria affascinante e contradditoria città, nel 2017 ha deciso di scrivere un breve pamphlet intitolato Che cosa succede in Catalogna (Utet, pag. 88, traduzione di Bruno Arpaia, e. 10), non per prendere posizione a favore di una parte o dell’altra (“Personalmente, non mi piace nessuna delle due”, avverte nell’introduzione), ma per tentare di diradare “i pregiudizi che pesano sull’immagine della Catalogna e della Spagna e, quindi, su ciò che sta accadendo e sui precedenti…”. Sfatare luoghi comuni, inquadrare storicamente le radici di un secolare contrasto, in modo rapido e chiaro: questo lo scopo di un libro utilissimo per chiunque voglia orientarsi in un conflitto di difficile decifrazione e del quale nemmeno Gurb, l’extraterrestre catapultato nella Barcellona preolimpica e capace di trasformarsi in chiunque, protagonista di uno dei più popolari ed esilaranti libri di Mendoza (Nessuna notizia da Gurb, pubblicato nel 1991 da Seix Barral e l’anno dopo da Feltrinelli), saprebbe trovare il bandolo.



Questa articolo è apparso sul quotidiano Il Manifesto nel settembre del 2018

lunedì 3 settembre 2018

Da tradurre: Ricardo Piglia

Ricardo Piglia



I casi del commissario Croce

“Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un sacerdote prediche, un professore manuali, ecc. un delinquente produce delitti”, e non soltanto quelli, scrive nel 1857 Karl Marx, prendendo in esame le attività umane stimolate o favorite dall’esercizio del crimine. Tra le tante, non mancano l’arte, la letteratura e il romanzo, e non c’è quindi da stupirsi che nella sua Antología personal, pubblicata da Anagrama nel 2015 e composta in parti uguali da racconti e saggi, Ricardo Piglia abbia scelto questo brano per introdurre i tre racconti del capitolo Los casos de Croce, dedicati al medesimo commissario protagonista di Bersaglio Notturno (Feltrinelli, 2011): un personaggio che l’autore amava in modo particolare, “per il suo passato e per il modo delirante con cui risolve  o non risolve  i problemi che gli si presentano”, ha confessato in una breve nota.

Adesso il commissario ritorna in un’antologia postuma, preparata da Piglia durante i suoi ultimi e affaccendatissimi anni, vissuti in lotta costante con la malattia: Los casos del Comisario Croce (Anagrama, pag. 184, e. 16,9, dal 12 settembre nelle librerie spagnole), che aggiunge otto racconti inediti ai tre già noti. Dal caso del marinaio jugoslavo accusato di aver ucciso una prostituta, a quello di un introvabile film pornografico di Eva Perón, Croce va incontro a nuovi dilemmi racchiusi in una rete di riferimenti e allusioni ad Agatha Christie, Conan Doyle, Chesterton o Poe: una sorta di omaggio a Borges, che grazie alla collana El Septimo Circulo, da lui diretta con Bioy Casares, aveva portato in Argentina i maestri inglesi e americani del giallo per enigmi, il cui detective è, secondo Piglia, l’incarnazione dell’intellettuale che tenta di decifrare il mondo e i suoi labirinti. Ma il commissario ha qualcosa in comune anche con i disincantati, solitari investigatori dell’hard boiled nordamericano, che negli anni ’70 popolavano la Serie Negra curata da Piglia per la Editorial Tiempo Contemporaneo, imperniata sul detective in quanto uomo d’azione che affronta i crimini nati dall’incrocio tra denaro e potere. E, quasi a chiudere un cerchio, nell’indice del primo volume pubblicato (un’antologia del 1969 fitta di nomi celebri come Chandler, Cain, Hammett) si legge: “Selezione e note di Emilio Renzi”.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018


Da leggere: Ricardo Piglia

Ricardo Piglia


Se critica e finzione si fondono e si confondono

Per Ricardo Piglia  uno dei più importanti e celebrati scrittori argentini, morto lo scorso anno  non esisteva il mercato, ma solo “una manipolazione della letteratura da parte della cultura di massa”, ed era per sfuggirle che preferiva trovarsi invariabilmente “fuori centro”, in qualche altrove. Un testo come Critica e finzione  oggi finalmente disponibile in italiano (Mimesis, pag. 207, e. 18, traduzione e prologo di Mirko Olivati, a cura di Massimo Rizzante, che è anche autore di una postfazione ricca di suggestioni), nonché il primo tra i suoi libri che possiamo inscrivere in una produzione saggistica senza dubbio eterodossa, ma fondamentale  si potrebbe leggere anche così, come uno sberleffo al mercato: impadronirsi di uno strumento che caratterizza i mass media, usato ormai dagli scrittori soprattutto per promuoversi, e farlo diventare una macchina critica e narrativa al tempo stesso, il luogo di un dibattito in cui è l’interrogato a porre più domande dell’interrogante. Uno spazio in cui costruire, insomma, piuttosto che un vuoto rincorrersi di echi.

Del resto, critica e finzione si trovano da sempre intrecciati e mescolati nella produzione dello scrittore argentino, a partire da L’invasione (Sur, 2015), prima raccolta di racconti del 1967, a Solo per Ida Brown,  il suo ultimo romanzo (Feltrinelli, 2017), a L’ultimo lettore, (Feltrinelli 2007), fino a oggi unica traduzione del Piglia critico: una riflessione sui modi e i significati della lettura che l’editore spagnolo e quello italiano hanno inserito nelle loro collane di narrativa, come per sottolineare la costante ibridazione presente in tutta l’opera dell’autore, i cui saggi mostrano robuste incrostazioni finzionali, mentre racconti e romanzi sono densi di argomentazioni teoriche.

Critica e finzione si presenta come una raccolta di interviste scelte e riunite da Piglia per pubblicarle una prima volta nel 1986, e poi nel 2001 con l’aggiunta di altri diciotto testi; ma in realtà queste “conversazioni fittizie” (così le definisce lo scrittore in una nota finale) si rivelano brani di critica letteraria elaborati a partire dalla domande altrui. E sin dal titolo è chiaro che allo scrittore non interessano gli spazi “puri”, ma le mescolanze e le contaminazioni, la molteplicità delle letture e delle interpretazioni, la cancellazione di confini troppo rigidi.

Modificando e “lavorando” le risposte, Piglia si riappropria totalmente dei testi, senza disconoscere il ruolo degli interlocutori (a volte bravi giornalisti culturali, oppure critici illustri come Sarlo, Altamirano, Speranza, Dámaso Martínez, o scrittori come Alan Pauls e Jorge Halperin), mantenendo la tensione del dialogo e il tono dell’oralità, rilanciando domande e seminando dubbi. Il libro diventa così un oggetto inclassificabile e ben più ambizioso; come fa notare Rizzante, Piglia affida alla riscrittura delle risposte “il compito di fornire alcuni strumenti indispensabili per comprendere a fondo le sue opere narrative, di presentare la sua idea di letteratura inserendola in una tradizione precisa e di indicare gli scrittori che costituiscono la sua costellazione letteraria”.

Le interviste sembrano ordinate in base allo loro complessità e, man mano, le risposte si fanno più lunghe ed elaborate, incatenando un capitolo all’altro e conferendo sostanziale unità a un discorso in apparenza frammentario, che tocca temi diversi e fa emergere le ossessioni coltivate dall’autore, sempre in cerca di nuovi modi per dialogare con la tradizione letteraria, in primo luogo quella argentina, non a caso segnata dal magnifico peccato originale del Facundo di Domingo Faustino Sarmiento, libro fondativo “che unisce il saggio, il pamphlet, la finzione, la teoria, il racconto di viaggio, l’autobiografia”. È una simile genealogia che consente a Piglia di includere la critica nella finzione e viceversa, facendo di questo incrocio la base del proprio lavoro e sovrapponendogli più strati: l’autobiografia, il poliziesco, la politica, la falsificazione, l’intertestualità, fino a creare un ampio spazio metaletterario.

A dar voce alle sue idee e intuizioni, nei romanzi e nei racconti, è quasi sempre Emilio Renzi, alter ego apparso per la prima volta in L’invasione, e protagonista-autore della finzione autobiografica dei Diari, segreto laboratorio di scrittura affiorato solo in anni recenti (l’ultimo dei tre volumi è stato pubblicato dopo la morte dell’autore), ma la cui stesura ha avuto inizio durante l’adolescenza di Piglia. È il giovane Renzi che in Respirazione artificiale (Sur, 2012), traccia con notevole vis polemica una quasi-storia della letteratura argentina, ridefinendo il canone rioplatense a partire dal trio Borges-Macedonio Fernández-Roberto Arlt, mentre il suo interlocutore Tardewski, trasparente doppio di Witold Gombrowicz, narra la propria scoperta di un presunto incontro a Praga tra Kafka e Hitler. E se la scrittura della critica può rientrare nella sequenza narrativa di un simile romanzo e del successivo La città assente (Sur, 2014), e insinuarsi persino nel finale di un noir perfetto come Soldi bruciati (Feltrinelli, 2008), la narratività ha pieno diritto, a sua volta, di inserirsi nel discorso critico.

Gli stessi temi ed argomenti vengono modulati nelle risposte di Critica e finzione, visto che le conversazioni, “replica immaginaria di un’esperienza reale”, li ripropongono in modo suscettibile di sempre nuovi sviluppi: Borges come lettore ideale (ma anche come critico eterodosso e autore da sottoporre a una lettura politica che ne metta in risalto il lato eversivo); Macedonio Fernández, eletto ad autentico fondatore della moderna letteratura argentina; Arlt, l’irriducibile ribelle che oppone il suo racconto violento e rivelatore a quello onnipervasivo dello Stato, macchina per “far credere” messa in moto dallo stretto legame tra politica e finzione. E poi Joyce, Kafka, Hemingway, Faulkner, gli scrittori nordamericani, i formalisti russi; la Storia intesa come rete di narrazioni (non a caso Piglia decise di laurearsi in Storia e non in letteratura, convinto che quest’ultima non si potesse “classificare e ordinare”); il critico-detective che indaga sullo scrittore-criminale; la lettura come strumento di costruzione della letteratura; il fondamentale esercizio della critica da parte dello scrittore, il cui sguardo differisce fruttuosamente da quello dell’Accademia. Non mancano, com’è ovvio, brandelli di autobiografia, e nemmeno innumerevoli riferimenti al poliziesco, genere con il quale Piglia ha familiarizzato sin da giovanissimo, riconoscendolo come uno dei grandi modi di narrare e venendone profondamente influenzato, tanto che la sua opera, “senza essere poliziesca in senso stretto, approfitta del genere e se ne serve per sviarlo e trasgredirlo”, scrivono Lafforgue e Rivera in Asesinos de papel.

Di speciale interesse è, infine, il complicato rapporto tra letteratura e mercato, e il modo in cui lo scrittore sceglie di mettersi in relazione con quest’ultimo. Piglia, che, come fa notare in una delle sue risposte, non viveva della sua scrittura ma dell’insegnamento in varie università (ultima quella di Princeton) e di collaborazioni con l’editoria, aveva scelto di stare nel mercato “senza starci”, prendendosi cioè lunghe pause di invisibilità, preferendo il rischio di essere dimenticato a quello di produrre un romanzo all’anno per soddisfare esigenze commerciali e confermarsi come un “marchio” riconoscibile, e infine lasciando un potente gruppo editoriale come Planeta per un editore più piccolo, che però rispettava i suoi tempi e gli consentiva di scrivere e riscrivere, correggendo all’infinito.


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018