lunedì 9 dicembre 2019

Da leggere: Juan José Saer


Juan José Saer


A guisa di un vastissimo mare

Un paesaggio che, visto dall’alto, è “il più austero, il più povero del mondo”. Un luogo piatto e desolato, immemore e vuoto, ovvero il punto in cui due grandi fiumi, il Paranà e l’Uruguay, confluiscono a formare l’immenso estuario del Río de la Plata, che nel 1729 il gesuita Gaetano Cattaneo descrisse così: “E quando si va verso il mezzo, si perde di vista la spiaggia, né altro si vede all’intorno che cielo ed acqua a guisa di un vastissimo mare”. A questo universo acquatico e ai piatti territori che lo circondano è dedicato Il fiume senza sponde. Trattato immaginario di Juan José Saer (La Nuova Frontiera, pp. 254, e. 18, pubblicato nel 1991 e oggi tradotto per la prima volta in italiano da Gina Maneri e dagli allievi della scuola Tutteuropa di Torino), uno dei rari titoli non-fiction del grande romanziere argentino e l’unico scritto su commissione, per una collana sui fiumi del mondo progettata da Alianza Editorial.

Saer – nato nel 1937 a Serodino, in vista del fiume Paranà, e residente a Parigi per buona parte della sua vita – pur tra molti dubbi aveva finito per accettare quell’insolita sfida, che sembrava allontanarlo da una scommessa letteraria orientata alla narrativa e alla più assoluta autonomia formale, ma che lo riportava alle origini e al punto focale di tutte le sue opere, una Zona fatta di acque, isole, pianure e città costiere, spazi fisici ben riconoscibili e allo stesso tempo luoghi dell’immaginario. Non a caso, nel lungo prologo in cui dà conto della genesi e della natura del libro, l’autore mette subito in chiaro che il suo sarà un saggio anomalo, in cui verranno inevitabilmente evocati impressioni personali ed episodi autobiografici, a cominciare dal contraddittorio senso di appartenenza e sradicamento suscitato dalle acque fangose dell’estuario, viste dal finestrino dell’aereo che lo porta in Argentina.

Altrettanto intensa, però, è la consapevolezza che né l’esperienza né la memoria gli forniranno sufficiente materia prima e che si renderà necessario l’esame di innumerevoli fonti e testimonianze (tra le quali primeggiano i resoconti di esploratori e viaggiatori del diciottesimo e diciannovesimo secolo: naturalisti, missionari, militari, ingegneri, marinai, animati da una vivissima e pragmatica curiosità), per dar vita a quello che dovrebbe essere un saggio, ma che in realtà è un ibrido riferibile a una letteratura nazionale ricca di opere difficili da classificare secondo precise tipologie testuali, libri unici e indefinibili i cui titoli Saer elenca profusamente a conclusione del suo Martín Fierro: problemas de género, breve saggio del 1992.

Dopo aver preso l’impegno di non includere nel racconto nulla di fittizio, pur sapendo che “le sottili fioriture” della finzione trasgrediscono spesso i protocolli del cronista più vigile, l’autore divide il testo in quattro parti – ciascuna corrispondente a una stagione dell’anno, presa a simbolo di aspetti diversi delle vicende argentine – e dispiega via via una sovrabbondanza di materiali eterogenei, esaminando contributi storici e dedicando pagine di grande fascino alla toponomastica, alla flora spontanea e agli animali, ai fenomeni atmosferici, agli spazi urbani, alla cultura ufficiale e non (memorabili i piccoli ritratti del gruppo riunito intorno alla rivista Sur e di due esuli profondamente diversi, Roger Caillois e Witold Gombrowicz), alla mescolanza di lingue e popolazioni, alle superbe e quasi oniriche descrizioni della pampa e del cielo sconfinato che le impone grandiose architetture di nubi, alla sanguinosa fondazione delle città e alla tragedia degli indios, ad acute analisi politiche ed economiche valide ancora oggi, al racconto delle prime spedizioni spagnole, come a quello terribile dell’ultima dittatura.

Ci viene così offerta, attraverso suggestive associazioni e la ricomposizione di mille diversi frammenti, una visione complessa, sfaccettata e magnificamente personale del territorio rioplatense, inteso come sinonimo dell’Argentina (la sponda uruguayana dell’estuario viene esclusa già dal prologo, là dove Saer afferma di non averne esperienza alcuna), la cui contemplazione trasmette allo scrittore, anche dopo anni di assenza, un piacere malinconico, “non privo di euforia né di collera e amarezza”.

Sin dal sottotitolo quasi provocatorio – quel Trattato immaginario in cui può leggersi la volontà di contenere, senza eliminarla, la pur ampia componente scientifica, storiografica o antropologica del saggio – è subito evidente che lo scrittore affronta il testo dalla prospettiva della narrazione e in funzione di quest’ultima, concepita come un organismo in continuo mutamento, pronto a sottrarsi alle rigide forme imposte dai generi e ad assecondare la voce di colui che racconta, adottando lo sguardo “esterno” dell’espatriato, ma senza rinunciare a un punto di vista “interno” e chiaramente soggettivo, che finisce per prevalere quando nel racconto irrompe lo spazio remoto dell’infanzia. L’autore/narratore diventa così personaggio di una trama che è poi lo stesso farsi del libro, il procedere della scrittura, la ricerca, la consultazione e il commento delle fonti, nonché l’impressione profonda suscitata da memorie così intime.

Sempre affiorante tra il fluire dei dati e le considerazioni sulle caratteristiche culturali degli argentini, sul loro immaginario e sugli archetipi dispensatori di identità, il ritorno all’origine comporta l’utilizzo di una mitologia personale che rimodella il territorio e la tradizione servendosi di una lingua “privata” (Lengua privada y literatura è appunto il titolo della relazione che Saer, già malato, non poté leggere a chiusura del Congreso de la Lengua Española del 2004), cresciuta però in un terreno collettivamente fecondato dalle culture e dagli idiomi – spagnolo, portoghese, gallego, italiano e altri ancora – portati dalle successive ondate migratorie, ma anche dai molti e diversi linguaggi aborigeni, la cui eco permane, inalterata e suggestiva, nella toponomastica e in numerosi termini di uso comune.

Di questa lingua ibrida, necessariamente condivisa ma resa unica da uno sfolgorante procedimento estetico, l’autore fa un uso prodigioso sia per quanto riguarda il racconto del vissuto, sia nel reinterpretare il taglio storico e scientifico del saggio, disseminato di considerazioni che demoliscono i luoghi comuni e i miti nazionali più abusati (a partire dalla figura del gaucho, esaltata da Borges e Lugones) e contribuiscono a decostruire l’idea del contrasto fra “civiltà e barbarie” proposto da Domingo Sarmiento nel suo Facundo, suggerendo che siano in realtà due facce di una stessa medaglia. Infine, e questo è forse l’aspetto più interessante di Il fiume senza sponde, Saer apre in questo tumultuoso, avvincente racconto spiragli che rimandano ai suoi ineguagliabili romanzi (in primo luogo L’arcano e Le nuvole, pubblicati entrambi da La Nuova Frontiera), permettendoci di scorgere la materia della quale la sua narrativa si è nutrita, e soprattutto di gettare uno sguardo su una concezione della letteratura che propone quale patria esclusiva dello scrittore “la fitta giungla del reale”, dove è in agguato la necessità di riflettere e interrogarsi sulla natura dell’esperienza, quanto sull’impossibilità di trasmetterla senza ricrearla.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2019

 

 

Scomparso a Parigi nel 2005, Juan José Saer ha lasciato una vasta opera narrativa che include quattro volumi di racconti pubblicati tra il 1960 e il 2000 e dodici romanzi (cinque sono tradotti in italiano). Poco estesa, ma fondamentale, è la sua produzione saggistica, riunita in quattro volumi tra i quali viene abitualmente collocato anche Il fiume senza sponde, nonostante sia universalmente riconosciuto come inclassificabile.

I veri e propri saggi i Saer sono raccolti in El concepto de ficción (1997), La narración-objeto (1999) e Trabajos (2005), tutti inediti in Italia nonostante siano di notevole interesse, e non solo perché delineano con chiarezza il progetto narrativo dell’autore (convinto dell’impossibilità di catturare e rappresentate il reale nella sua totalità, e impegnato nella costruzione di un’opera in perpetuo divenire, composta da testi collegati l’uno all’altro, che si modificano vicendevolmente), ma perché contengono un’analisi stimolante della tradizionale forma-romanzo, unita all’esame del rapporto che essa intrattiene con il contesto sociale, politico ed economico, fino all’individuazione dei generi letterari come merce funzionale agli interessi e al profitto delle grandi concentrazioni editoriali.

A una critica puntuale e severa del Boom letterario latinoamericano si unisce quella al concetto stesso di “letteratura latinoamericana” (lo scrittore occupò per anni, presso l’Università di Rennes, proprio una cattedra intitolata a quest’ultima), se intesa come categoria estetica che, secondo Saer, porta il doppio marchio del vitalismo e del volontarismo. L’errore più grave per la letteratura latinoamericana, insomma, sarebbe proprio quello di presentarsi a priori come tale: ciò che di latinoamericano può esserci nell’opera di uno scrittore dev’essere secondario e venire “per aggiunta”, poiché la specificità di un autore proviene dal suo lavoro, “non dal caso geografico della sua nascita”, senza contare che nessuna letteratura può davvero aderire a un’identità nazionale o rappresentarla, né è tenuta a farlo. Questo non significa rinunciare alla propria nazionalità o rifiutare la tradizione cui si appartiene, ma essere consapevole del fatto che, se la propria opera contraddice “una serie di valori presentati come indiscutibili”, ma che in realtà si limitano a essere “le convinzioni ristrette e tiepide della classe media” – non può essere se non quella di un “esiliato”, anche nel caso in cui non si siano mai varcati i confini del paese natale.