La merce, dio oscuro
Una ragazza vestita di nero, armata di secchio
e straccio, si inginocchia davanti a uno dei più miseri bordelli di Santiago del
Cile e comincia a lavare il marciapiede. Poco prima ha letto, davanti ad un piccolo
pubblico composto da prostitute, brani del romanzo che sta scrivendo (uscirà nel
1983 e si chiamerà Lumpérica), imperniato su un corpo femminile torturato
ed esposto al centro di una piazza crudamente illuminata. Siamo nel 1980 e la donna
si chiama Diamela Eltit, nata trent’anni prima a Santiago e membro del CADA
(Colectivo Acciones de Arte), che, in una città schiacciata dalla dittatura,
organizza performances provocatorie come questa, intitolata Zona de dolor.
“Un gruppo interamente pensato all’interno della sinistra”, dirà anni dopo Eltit,
la cui opera letteraria, da tempo considerata la più significativa, complessa e
coerente del Cile contemporaneo, si radica proprio nell’esperienza fondante del
CADA, stabilendo intensi rapporti con le arti visuali e restando fedele a
una sorta di epica della marginalità.
Alla prima parte del romanzo corrispondono
otto monologhi recitati dalla voce anonima di uno scaffalista che a poco a poco
rivela il controllo cui è sottoposto, racconta l’assillo dei clienti - tra i più
fastidiosi: i bambini, consumatori futuri, e i vecchi, che esorcizzano la morte
con petulanza -, i turni estenuanti e i tormenti del corpo, costretto a pagare un
tributo quotidiano a quell’oscura divinità che è la merce. Denso di ripetizioni,
ostacolato da frequenti parentesi, a volte barocco e visionario, altre volte meditativo,
il suo linguaggio si adegua al meccanismo che lo ha intrappolato, ma anche alla
disintegrazione fisica e alla perdita di identità.
Nella seconda parte del romanzo tutto cambia:
ai monologhi individuali si sostituisce una voce che parla a nome di un “noi” tumultuoso
e contraddittorio, ovvero di alcuni impiegati del supermercato che ricoprono incarichi
diversi e condividono un appartamento per far fronte alle spese, riproducendo le
gerarchie, le dinamiche, gli abusi e perfino, in versione degradata e stracciona,
l’estetica del luogo di lavoro. I coinquilini vogliono sentirsi, e lo dichiarano,
una famiglia che dispensa calore e attenzioni, ma li vediamo via via dibattersi
in un groviglio di opportunismi, intrighi, soprusi, proprio come accade tra gli
scaffali o alle casse. La prosa inconfondibile di Eltit, che qui scivola per la
prima volta verso un realismo grottesco, quasi espressionista, conferisce alla loro
vita quotidiana tocchi di parodia esasperata e, a tratti, perfino di angosciosa
comicità.
A presentarceli, uno dopo l’altro, è un rosario
di lodi affettuose che, quando si affaccia il rischio di perdere lavoro e introiti,
diventano minacce di espulsione e gergo osceno. Come il linguaggio, anche i corpi,
consegnati per intero al mercato, consumati dalla precarietà e dal terrore di perdere
quel poco che consente di sopravvivere, decadono e si corrompono: spurgano sangue
e liquidi nauseabondi, oppure assorbono e sprigionano odori mefitici. E se lo spazio
domestico replica la vocazione al cannibalismo di quello lavorativo, anche lingua
e sintassi si adeguano a una violenza verbale che non destabilizza l’ordine dominante
ma ne diventa il riflesso. Nulla, né le delazioni né la supina accettazione delle
regole, potrà tuttavia salvarli dal licenziamento e dallo sfratto, a opera di quello
che consideravano il loro leader e che è asceso nella gerarchia lavorativa.
Non potranno fare altro, allora, che avviarsi
verso un domani ignoto, guidati da un nuovo capo (il più giovane e ribelle fra loro),
che ha intenzione di strappare qualcosa al futuro. Un finale che sembra agganciarsi
all’ultimo romanzo di Eltit, Sumar (2018), imperniato sulla marcia di un
gruppo di venditori ambulanti esasperati dalle privazioni e decisi a rivendicare
i propri diritti, e presago dell’immensa protesta iniziata in Cile nell’ottobre
del 2019. I personaggi di Manodopera non
sono ancora a quel punto, ma basta leggere i paratesti del romanzo (a cominciare
dai versi dell’epigrafe, della poetessa argentina Sandra Cornejo: “Qualche volta,
per un istante, /la storia dovrebbe provare compassione/ e metterci in guardia”)
per rendersi conto che avrebbero a portata di mano una memoria sulla quale riflettere,
senza nostalgia né illusioni.
I titoli della due parti del romanzo e degli
otto monologhi, infatti, sono quelli di altrettanti giornali dei secoli scorsi destinati
alle organizzazioni operaie, ciascuno corredato dalle date di momenti storici significativi
(tra tutti, spicca Puro Chile, il combattivo giornale che accompagnò la presidenza
Allende e venne chiuso il giorno successivo al colpo di Stato). È evidente che Eltit
li sottopone al lettore per stabilire una tensione tra passato e presente; ma, al
di là della testimonianza su un’epoca perduta, si intravede un’altra strategia:
mettere in discussione il capitalismo a partire da uno scenario testuale in cui
ogni piega della forma rappresenti una scelta politica.
Oggi come allora, Eltit (che è anche una
brillante saggista e ha alle spalle una lunga carriera accademica) continua a dispiegare
strategie narrative sorprendenti e sempre rinnovate, intrecciando un discorso sul
potere e i suoi effetti sul corpo, l’identità e le relazioni, a una continua e rigorosa
sperimentazione formale, e collegando quel primo audace testo ai successivi, che
siano stati scritti nel clima soffocante del regime di Pinochet o durante l’eterna
transizione cilena. Il primo romanzo in cui, dopo gli anni della dittatura, Eltit
affronta esplicitamente la violenza di un neo-liberismo estremo quanto feroce, è
Manodopera (Alessandro Polidoro Editore,
pp. 160, e. 16), ora volto in italiano da Laura Scarabelli, traduttrice e acuta
studiosa: il suo saggio Escenarios del nuevo milenio. La narrativa de Diamela
Eltit 1998-2018 (Cuarto Proprio, 2018) tratta appunto della produzione
più recente della scrittrice cilena, in cui affiorano le enormi disuguaglianze del
Cile di oggi.
Apparso per la prima volta nel 2002, Manodopera ruota intorno alla rappresentazione di un immenso supermercato e della forza-lavoro che lo abita, trasparenti allegorie di una società dominata dalla collusione tra le tenaci e longeve oligarchie nazionali e i poteri globali. Se il riferimento visivo di Lumpérica era la performance, quello di Manodopera è un palcoscenico con attori terrorizzati dal licenziamento e intenti a recitare meglio che possono, tra merci scadute e rese appetibili da una segreta “cosmesi”. Un vero e proprio teatro della crudeltà, dove l’imbustatore, la cassiera o la squartatrice di polli si esibiscono con abilità da “artisti popolari”, ma anche un panopticon costantemente illuminato e sorvegliato da telecamere, supervisori, colleghi spioni in balìa di un’assoluta precarietà, che non osano concedersi il minimo gesto solidale.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2020