Haroldo Conti |
Il circo e la rivoluzione
Nell’Argentina del 1975, ancora governata da
Isabelita Perón ma già avviata verso il colpo di stato, un ignoto “consulente”
non privo di acume stilò per la División de Informaciones della polizia
bonaerense un rapporto sul romanzo di Haroldo Conti “Mascaró, el cazador
americano”, dichiarando che il libro, “di alto livello tecnico e
letterario”, pur senza riferirsi esplicitamente al marxismo ne diffondeva senza
possibilità di errore “ideologie, dottrine, sistemi politici, economici o
sociali”. Apparso in quello stesso anno e vincitore del premio Casa de las
Américas, il volume fu quindi tolto dalla circolazione e restituito ai lettori
argentini solo molto tempo dopo, quando il suo autore era ormai entrato a far
parte del lungo elenco dei desaparecidos.
Il
corpo dello scrittore, giornalista e cineasta che all’epoca del sequestro aveva
cinquantuno anni ed era membro del Partido Revolucionario de los Trabajadores,
non è mai stato ritrovato, nonostante l’appello fatto da Gabriel García Márquez
in un articolo del 1981 che ora precede la nuova edizione italiana di
“Mascaró”, pubblicato da Bompiani quarant’anni fa e appena riproposto da Exorma
(pag.360, e. 16,50) nella traduzione di Marino Magliani, già curatore di
Sudeste (Exorma 2018), splendida opera prima ambientata nel Delta del Paranà.
Se i resti mortali di Conti giacciono chissà dove, i suoi libri sono ancora tra
noi, e leggerli significa confrontarsi con una scrittura e un immaginario
potenti e suggestivi, ma anche con una acuta riflessione sulla natura e il
ruolo dell’arte.
“Mascaró”
è prima di tutto un grande romanzo di avventure, che si apre con l’attesa di un
battello sul quale il vagabondo Oreste Antonelli si imbarcherà insieme al
misterioso “cacciatore americano”, vestito di nero come uno Zorro proletario, e
al “legittimo Principe Patagón”, artista di strada ritratto in tutto il suo
ciarlatanesco splendore. Una compagnia insolita, come insolito sarà il viaggio
che, tra canzoni e racconti, finirà per assomigliare a una festa, quasi ad
annunciare l’imminente nascita del cencioso e scintillante Circo dell’Arca,
avviato a percorrere il grande deserto argentino sotto la guida del Principe e
di Oreste, divenuto un abile mimo.
Ovunque
il circo dia spettacolo, il suo incanto sgangherato incrina il torpore di
paesetti prigionieri della miseria e dell’isolamento, risvegliando i desideri e
le coscienze degli abitanti e spingendoli all’azione, tanto da provocare la
reazione dei rurales (braccio armato del potere) che arrestano Oreste,
lo torturano selvaggiamente – un episodio narrato con umorismo, ma con il
sapore di una terribile premonizione –, e poi lo lasciano andare, credendolo un
povero pazzo. La sua presunta follia, però, è quella di chi ha infine compreso
qual è il proprio destino ed è pronto ad andargli incontro: il Circo dell’Arca
non esiste più, eppure lo spettacolo è appena cominciato.
Suddiviso
in due parti, intitolate “Il Circo” e “La guerriglia”, il romanzo indugia in
scene vivacissime e descrizioni di caratteri, introducendo qua e là tocchi di
magia, come accade quando Oreste getta dal battello alla deriva un rimedio per
“i mali di viaggio” e il vento ricomincia a soffiare. Anche l’apparizione di
Basilio Argimón, Icaro paesano che si unisce al circo in qualità di
uomo-uccello, appartiene al territorio del meraviglioso, e così pure la
trasformazione della vedova Maruca - alias “Sonia la veggente” o “la ballerina
orientale” - in una divinità obesa dal sorprendente fascino erotico.
Su
tutto e tutti si allunga l’ombra di Mascaró, capo della guerriglia che si
unisce alla carovana per non farsi catturare: leader taciturno dalle molte
identità, compare nei momenti decisivi per indicare la direzione e l’obiettivo,
e ha un nome altamente simbolico; se quello del Principe Patagón rimanda a
Orélie-Antoine de Tounens, avventuriero francese che nel 1860 fondò l’utopico
regno di Araucanía e Patagonia, e se immediato è il parallelo tra Oreste e il
suo omonimo greco, Mascaró ricorda il mascarón, ossia la polena, figura
salvifica che sul battello El Mañana (altro nome significativo)
rappresenta un angelo-sirena di vedetta a prua.
Il
romanzo, che a poco a poco diventa corale e costruisce attorno ai due
personaggi principali una rete di irresistibili co-protagonisti – non ultimo un
anziano e placido leone di nome Budinetto –, sembra segnare una rottura con il
rigoroso realismo di Conti e lo avvicina ad autori come García Márquez e Juan
Rulfo; l’elemento magico e fantastico, tuttavia, è rielaborato in modo
personalissimo e innestato sulla presenza densa e costante di una cultura
popolare fatta di oralità, musica, leggende, ricette della farmacopea
tradizionale, amuleti e sortilegi, senza disdegnare curiosi detriti come la
manualistica da colportage, che include un ineguagliabile Segretario Galante.
Nel
testo non mancano, comunque, i motivi tipici della narrativa contiana: il gusto
per i grandi paesaggi vuoti, il viaggio per mare e il volo (parte importante,
tra l’altro, della vita di uno scrittore che era anche pilota di aerei e
appassionato marinaio), l’intenso rapporto con la natura e gli animali, e
infine il riutilizzo di figure già apparse in opere precedenti, come Oreste,
travet angosciato dall’incapacità di sottrarsi al tedio della routine
quotidiana nel romanzo “En vida”, o il suo oscuro collega Requena, non ancora
trasmutato in Principe. A loro, finalmente sfuggiti alla “cattività” imposta
dallo sfruttamento e dal possesso, dobbiamo l’introduzione in “Mascaró” di un
tema presente come aspirazione dolorosa nell’intero corpus narrativo di Conti,
ma che qui diviene un desiderio realizzato: la libera vita del vagabondo, che
cerca la rinascita collocandosi ai margini e rifiutandosi di produrre quanto di
consumare.
Spetta
alla sintassi irregolare, insieme all’uso dello spagnolo rioplatense, il
compito di far presente la specificità latinoamericana, mentre il linguaggio
sperimenta registri verbali nuovi e diversi, in un continuo alternarsi di alto
e basso, elegia e grottesco, incongrui latinismi e citazioni comicamente
erudite, come per riflettere l’atmosfera funambolesca, eccessiva e ludica del
circo. La gioiosa effervescenza, il tono da epopea umoristica e l’assoluta
libertà della scrittura non fanno dimenticare, però, che siamo davanti a un
romanzo dal chiaro contenuto politico, una complessa allegoria in cui il circo
e la sua gente si propongono come sovversivi e appiccano ovunque il fuoco
“rivoluzionario” senza per questo obbedire a dogmi o ricorrere a messaggi
espliciti, perché – fu Conti a dichiararlo in una intervista del 1969 – “l’arte
è il regno della libertà pura che non può ricevere imposizioni estranee
all’arte stessa”, ma ispira e produce mutamenti profondi, chiamando a
immaginare, creare, fondare nuove realtà.
Questo
articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel gennaio del 2021