Jorge Ibargüengoitia |
Una
storia quasi vera
A metà degli anni sessanta, affermazioni
del genere si potevano leggere su buona parte della stampa messicana e in
particolare sulla rivista Alarma!,
che aveva aumentato vertiginosamente le tirature grazie alle due “sataniche
sfruttatrici del vizio”, proprietarie di tre bordelli tra lo Stato di Guanjuato e
quello di Jalisco. Le Poquianchis (ovvero
“puttane”) compravano o
rapivano ragazzine che costringevano a prostituirsi, sottoponendole a una
disciplina quasi militare e ad aborti brutali, per poi rivenderle quando le
giudicavano troppo vecchie. Dopo anni di lucrosa attività, però, la
prostituzione venne di colpo proibita da un governatore ambizioso e le sorelle nascosero
le donne in un rancho isolato, in attesa di tempi migliori; là, in quanto “improduttive”, le affamarono
e tormentarono per mesi, finché una riuscì a fuggire e la polizia liberò un
gruppo di ragazze scheletriche, scoprendo per di più un cimitero clandestino in
cui erano sepolte dozzine di prostitute morte per i motivi più diversi, dalla
fame ai pestaggi, dalle fucilate alla mancanza di cure mediche.
Il processo alle Poquianchis fu una manna per i giornali
che, tuffandosi nel mare dell’iperbole fabulatoria, trasformarono la vicenda in
un colossale Grand Guignol di cui si trova ancora traccia nella cultura
popolare, ma anche in film, documentari, studi accademici, libri-inchiesta. E
mentre i giornali dispiegavano un repertorio di nefandezze (si insinuò perfino
che le sorelle fossero adoratrici del diavolo) e ricordavano compuntamente i
lettori l’importanza dei valori morali, il caso divenne oggetto di disputa
politica, in quanto intreccio di corruzione, traffico di influenze e collusioni
con settori della polizia e dell’amministrazione pubblica.
Fu a tutto questo che si ispirò
Jorge Ibargüengoitia, cui dobbiamo alcuni fra i migliori romanzi latinoamericani
del Novecento (altri ne avrebbe scritti, se non forse morto nel 1983, a
cinquantacinque anni, in un grave incidente aereo), per il suo Le morte, che torna dopo molti anni in
libreria (La Nuova Frontiera, traduzione di Angelo Morino, pp.176, e.15), a
confermare la singolarità di questo autore messicano, per molti versi in
anticipo sui tempi e capace di costruire macchine narrative invariabilmente
perfette.
In un articolo per la rivista Vuelta Ibargüengoitia scrisse, a
proposito di Le morte: “Sulle bugie
dette dalla stampa e le verità che dimenticò di dire si potrebbe scrivere un
altro libro. Il tema mi ha interessato per la repulsione che mi provocava: la
storia era orribile, la reazione della gente era stupida, quello che dicevano i
giornali era così idiota da sfiorare il sublime…”.
Trovare la voce giusta per
narrare una storia del genere non era facile, e, anche se Le morte apparve nel 1977, lo scrittore accumulò per quasi un
decennio materiali e appunti, tanto da introdurre in un’altra sua opera – Estas ruinas que ves, del 1975 – un
personaggio deciso a scrivere un libro sulle Poquianchis. Scelse, alla fine, un procedimento annunciato già nell’epigrafe
(“Alcuni
dei fatti qui narrati sono reali. Tutti i personaggi sono immaginari”), pensata per
sottolineare che Le morte non è un romanzo-verità
o una cronaca, ma il suo opposto: parte infatti da una vicenda autentica per
leggerla secondo un’altra ottica e all’occorrenza modificarla (le sorelle
diventano Angelica e Serafina Baladro, il Guanajuato si trasforma in Plan de
Abajo, vengono introdotti personaggi immaginari), e demolire attraverso la
finzione letteraria quella che si è addensata intorno alla realtà.
A partire dalla testimonianza di
un fornaio sopravvissuto a un’assurda spedizione punitiva, ci inoltriamo nella
crudelissima “normalità” di un mondo in cui nulla sfugge a un ridicolo atroce –
il Casino del Danzón,
per esempio, viene inaugurato tra bandiere messicane e slogan patriottici nel
salone-bar che evoca il fondo del mare, con razze di gesso e squali di gomma
appesi al soffitto –, e perfino il processo appare così arbitrario da
assomigliare a una parodia, un vago e incoerente simulacro di giustizia, in cui
l’avvocato difensore dichiara che, se fosse per lui, condannerebbe le sue
clienti alla pena di morte.
Le sorelle (due donnette religiosissime,
dall’aspetto di beghine) in realtà non hanno mai ucciso con le proprie mani, ma
al di là dell’omicidio è un altro il delitto che interpella la società intera (i
padri che vendono le figlie, i cittadini modello che frequentano le prostitute,
i corrotti che guardano da un’altra parte, i giornali che si avventano sulla
vicenda e il pubblico che vuole più cadaveri) e la rende complice: disporre degli
esseri umani come di una proprietà da far fruttare, in sintonia con un’impeccabile
logica mercantile. Le Baladro non sono sadiche serial killer, come ancora oggi vengono
dipinte, ma modeste donne d’affari che si muovono in base al calcolo di costi e
benefici; i loro libri di magia nera sono quelli contabili, l’obiettivo è il
successo economico fondato su una mano d’opera annichilita e truffata, corpi “a
perdere” che, quando non servono più, vengono trattati come rifiuti tossici da
smaltire di nascosto.
Il romanzo è composto da
testimonianze, monologhi, rapporti di polizia, titoli e trafiletti di giornale,
documenti processuali presentati in un ordine non cronologico, ma frammentario:
voci diverse che dialogano tra loro, permettendo a chi legge di notare
contraddizioni e incongruenze e azzardare una ricostruzione personale dei
fatti. A disporre i pezzi del rompicapo, un narratore che non si presenta mai
come onnisciente e non esprime opinioni né giudizi morali, lasciando che la
storia si spieghi da sola.
Alla mescolanza di materiali,
voci e toni si unisce quella dei generi, che proietta il testo verso l’estetica
postmoderna e al tempo stesso sembra smentirla. Le morte, traboccante com’è di cadaveri e gesti efferati, scivola
infatti verso il noir e l’horror ma fa sorridere fin dalle prime pagine, adotta
alcuni aspetti formali del poliziesco ma non contiene investigazioni né misteri,
si presenta come realistico ma è dominato da un sapiente uso del grottesco, che
mette in questione sia le convenzioni e i limiti del discorso giudiziario, sia
il linguaggio morboso e sensazionale dei giornali scandalistici.
Humor e ironia, che nel romanzo
si colorano di nero e sono resi più pungenti da una scrittura limpida, distante
e spassionata, rendono sopportabile l’orrore senza negarlo e colpiscono immancabilmente
i bersagli comuni a tutta l’opera di Ibargüengoitia: la doppia morale pubblica
e privata, l’ipocrisia, la corruzione delle istituzioni, della polizia, di un
sistema politico e giudiziario al servizio degli interessi di una élite, la violenza
che segna da sempre il Messico, il lato perverso del buon senso, le grandi zone
d’ombra in cui le donne corrono rischi inauditi (un tema divenuto, in questi
anni, tra i più importanti della letteratura latinoamericana).
Non c’è dubbio che il romanzo sappia
sinistramente e magistralmente divertire, ma il suo umorismo corrosivo e
pessimista (che accomuna Ibargüengoitia a Swift, Waugh e Chesterton) non
intende farsi beffe di situazioni e personaggi, quanto prendere di mira le
certezze che giustificano l’abuso. Proprio per questo, si potrebbe concludere
che Le morte è il romanzo più “serio”
tra quelli dell’autore messicano, che forse aveva ragione nel rifiutare l’eterna
e secondo lui riduttiva etichetta di umorista: “I testi che ho scritto, buoni o
cattivi, sono gli unici che posso scrivere. Se sono brillanti è perché sono
brillante, se sono arbitrari è perché sono arbitrario, e se sono umoristici è
perché vedo le cose in questo modo, il che non è una virtù né un difetto ma una
peculiarità. Nient’altro”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2021