Selva Almada |
La voce del fiume
Capita di rado
che un autore venga elogiato da due critici di orientamento opposto, ma è
proprio quello che è accaduto a Selva Almada, ugualmente apprezzata sia da
Beatriz Sarlo, accademica illustre, sia da Damián Tabarovsky, scrittore e editor, nonché
autore di un saggio che ha fatto epoca (Literatura di izquierda, del 2004).
Se Sarlo paragona la “sorprendente” Almada a Carson McCullers, Tabarovsky considera
l’autrice “una delle apparizioni più interessanti – se non la più interessante –
dell’ultima narrativa argentina”, una “maestra del narrare” che si avvicina a
Flannery O’Connor. A partire da simili credenziali, non si può che accogliere con
interesse l’edizione italiana di Non è un fiume (Rizzoli, pp. 112, e. 15),
l’ultimo romanzo di Almada, tradotto da Giulia Zavagna, che ha affrontato con
eleganza e abilità la sfida di un registro linguistico proprio di un contesto particolare,
quello del nordest argentino, regione di grandi
fiumi, isole e terre sommerse, dove la scrittrice è nata nel 1973 e che fa da
sfondo a tutte le sue opere.
Nonostante viva da anni a Buenos Aires, infatti, Selva Almada
è rimasta profondamente legata alla zona compresa tra le province di Santa Fe, del
Chaco e di Entre Rios, patria di narratori e poeti che, a partire
da una lunga e importante tradizione, si sono mostrati capaci di reinventare e
sovvertire i codici del realismo e di produrre nuovi e ammirevoli esiti
estetici. Tocca quindi ad autori di indiscussa importanza come Ricardo Zelarayán o Juan L. Ortiz proporsi
come l’autentica genealogia letteraria di un breve romanzo al cui esile filo
conduttore – la battuta di pesca di tre amici su un’imprecisata isola in mezzo
a un fiume immenso, con gli incontri e gli scontri che ne derivano – si allacciano
di continuo altre vicende sospese tra presente e passato, ricordi di infanzia,
illusioni infrante, morti premature e banali.
Nell’apparente tranquillità
dell’incipit (la pesca, l’asado, il
vino) la morte inutile di un’enorme razza strappata al fondale introduce una
violenza sorda che cresce a poco a poco, mentre Almada torna a esplorare, come
nei suoi romanzi precedenti, un universo maschile condizionato da valori
arcaici, fondato su una solidarietà che può diventare sfida o tradimento ma che
non esclude un ventaglio di fragilità e sentimenti inespressi. A questa società
di uomini (o meglio di maschi) che le percepisce come altrettante proprietà di
cui godere e per le quali competere, le donne oppongono una forza caparbia e
non del tutto rassegnata, come nel caso di Siomara, isolana che ha resistito
alle percosse del padre, alla miseria e alla solitudine, e ora accende fuochi per
ridurre in cenere il proprio dolore, ostinandosi a negare il destino terribile cui
sono andate incontro le figlie adolescenti.
A dominare e
modellare lo spazio del racconto è una natura ancora selvaggia e dotata di una
sua individualità, presenza impassibile e a volte minacciosa (e qui viene da
pensare, inevitabilmente, ai racconti di Horacio Quiroga) con la quale si
stabiliscono rapporti diversi: irriguardoso e profanatore quello dei pescatori
in vacanza che uccidono e saccheggiano “perché sì”, intimo e devoto quello
degli isolani, che reagiscono allo sfregio inflitto a un ambiente del quale si
considerano figli e custodi. Il testo scorre lento, misterioso e ininterrotto
come il corso d’acqua che lo attraversa e lo racchiude, la scrittura è così trattenuta
da risultare scarna, le frasi brevissime si collocano ciascuna in un luogo
preciso, come pezzi su una scacchiera, e tuttavia sanno creare immagini di
grande bellezza e cadenze vicine alla poesia, cui contribuiscono il rimando all’oralità
e l’allusione alla lingua e alla cultura dei popoli originari, alla sacralità
del bosco simile a una cattedrale vibrante di ronzii, ai segreti del fiume che,
dice uno dei personaggi, “non è un
fiume, ma questo fiume”.
Tra i molti
silenzi di un testo che oscilla tra un iperrealismo stilizzato e una cronologia
irregolare e fratturata, non ci vuole molto perché il lettore percepisca uno
sfasamento, un’incrinatura in cui si inseriscono apparizioni, sogni e simboli, una
sottile e ambigua svolta verso il gotico che suggerisce la possibilità di
letture e interpretazioni multiple e divergenti. Ma la violenza è concreta e reale,
ha la stessa potenza furibonda dell’acqua, e Almada la affronta con cruda
fermezza, optando per un consapevole minimalismo che descrive esemplarmente la fatica di esistenze marginali e il loro
sforzo di sopravvivere al quotidiano dialogo con la follia e la morte.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2022